l’articolo è la prima di tre parti di un contributo finalizzato a difendere il profilo rivoluzionario di Antonio Gramsci. In questa prima sezione si richiamerà il bilancio del Biennio Rosso proposto dall’Ordine Nuovo, individuando nella mancanza di un autentico partito rivoluzionario la ragione della sconfitta del proletariato italiano.
di Alessandro Scattolo
Confrontarsi con la figura di Antonio Gramsci è un compito arduo. Il suo è un profilo complesso, per la ricchezza dei contenuti che ci offre, per il ruolo storico che ha ricoperto e per l’incompiutezza della sua produzione intellettuale, interrotta prematuramente a causa della morte sopravvenuta con la carcerazione fascista. Gramsci, infatti, è stato prima di tutto un militante e un dirigente politico, oltre a divenire un simbolo della lotta antifascista, un insieme di caratteristiche che comportano un’immediata politicità del suo pensiero. Allo stesso tempo, però, non ha lasciato opere organiche contenenti un’esposizione sistematica della sua visione, aprendo alla possibilità di molteplici interpretazioni delle sue riflessioni.
Nel periodo precedente alla prigionia ha prodotto una grande quantità di scritti su temi diversi e questioni specifiche, sempre caratterizzati dagli spazi limitati di un articolo di giornale o di una relazione politica. Dopo l’arresto del 1926 inizia la scrittura dei Quaderni del carcere, che diventeranno di fatto il suo testamento politico. Le note carcerarie, tuttavia, sono un bagaglio teorico da maneggiare con cura, perché se da un lato costituiscono uno strumento imprescindibile di acquisizione della teoria di Gramsci, dall’altro possono aprire alla possibilità di un suo travisamento. I Quaderni, infatti, non sono stati scritti per essere destinati alla lettura di un ampio pubblico, ma contengono gli appunti che servivano al dirigente incarcerato nel suo lavoro militante di studio. Ciò comporta una serie di limiti strutturali: la frammentarietà dello svolgimento dei temi contenuti, il carattere implicito di una serie di premesse e di principi politici che fanno da sfondo alle sue analisi, un’ampia focalizzazione su problemi di cultura, letteratura, filosofia e storia italiana in assenza di una trattazione unitaria. Senza confondere i limiti di forma con quelli di contenuto, perché gli scritti carcerari possiedono una profonda coerenza interna, per i motivi elencati i Quaderni si possono prestare a una conoscenza mistificante del loro autore, schiacciandolo su una dimensione meramente culturale e perdendone l’impalcatura politica.
Qui si lega la terza caratteristica del profilo di Gramsci, perché i due aspetti fin qui richiamati, ossia la politicità intrinseca della sua figura e l’incompiutezza del suo percorso, lo portano a essere inevitabilmente un personaggio conteso tra diverse letture sorrette anche da forzature interpretative. Tale questione assume una valenza importante data l’attualità del dibattito su Gramsci, che è tra gli intellettuali contemporanei italiani più diffusi al mondo [1]. Un vero e proprio paradosso storico di cui si deve dare conto, cercando di spiegare perché uno dei più grandi dirigenti comunisti del secolo scorso sia così diffuso proprio nell’epoca del trionfo neoliberale. La risposta che si vuole suggerire in questo modestissimo contributo non è ottimista, ad esempio credendo che ciò sia interamente riconducibile all’indubbia ricchezza concettuale di Gramsci, ma richiama a una progressiva revisione che si è imposta al suo pensiero insieme a tutta la tradizione marxista, progressivamente svuotata del suo contenuto anticapitalista fino alla sua liquidazione. In particolare, proprio a partire dai Quaderni, la teoria gramsciana è stata ridotta a essere una critica al capitalismo all’interno del mero campo culturale e della battaglia egemonica delle idee [2], cercando addirittura di forzare Gramsci dentro un ordine liberale. Un’operazione impoverente, che va a perdere il nocciolo leninista del suo pensiero, contro la quale la lettura degli scritti precarcerari appare un ottimo antidoto, capace di restituirci il fondo politico della riflessione gramsciana [3]. I “resti” di Gramsci, quindi, sono oggetto di contesa ed è proprio in tale lotta in cui si inscrive questo scritto.
L’obiettivo proposto è quello di restituire il nocciolo rivoluzionario del pensiero del dirigente sardo, partendo dai lavori precedenti alla reclusione e arrivando alle note del carcere, mostrando come alcune categorie tanto in voga negli ambienti accademici, ad esempio quelle di “egemonia” e di “intellettuali”, perdano di coerenza senza la prospettiva della lotta di classe contro il sistema capitalistico. In secondo luogo si mostrerà come la progressiva liquidazione del leninismo di Gramsci trovi la propria origine nel corso nuovo di Togliatti, cercando di problematizzare questo passaggio in modo dialettico senza anatemi e atteggiamenti di tifoseria. Si rileverà, infatti, come l’oblio del carattere rivoluzionario del pensiero gramsciano non sia stato un fenomeno casuale, ma vada ricondotto a un processo storico di crisi del movimento comunista internazionale. Infine, contro la sconfitta del campo socialista del Novecento, si difenderà l’attualità della prospettiva anticapitalista, proprio a partire dal pensiero di Gramsci e dalla sua capacità di “fare epoca” a distanza di quasi un secolo dalla sua morte.
Iniziamo la disamina con il bilancio del Biennio Rosso. Antonio Gramsci fa parte di quella giovane generazione di socialisti che si riconobbe nell’idea di rivoluzione sociale, così come si era concretizzata con l’Ottobre sovietico. Il massacro della prima guerra imperialista, unito alla fame, alla miseria e allo feroce sfruttamento del proletariato italiano durante il periodo bellico, apparivano come la conferma della necessità di una trasformazione rivoluzionaria dell’esistente. E’ all’interno di questo contesto storico che Gramsci incontra la classe operaia torinese, determinando in lui un importante processo di maturazione politica [4]. Egli è convinto che il proletariato, con le sue strutture organizzative e di lotta, sviluppi già in sé i futuri “organi del potere proletario” [5], di cui i Consigli di Fabbrica rappresentano l’esempio più avanzato. Allo stesso tempo, tuttavia, è consapevole dell’insufficienza dell’autorganizzazione della classe e della conseguente necessità di coordinare, centralizzare e strutturare il potere operaio nel partito rivoluzionario. Se da un lato, infatti, «lo Stato socialista esiste già potenzialmente negli istituti di vita sociale caratteristici della classe lavoratrice sfruttata», quali «commissioni interne, circoli socialisti, comunità contadine», dall’altro lato risulta necessario «collegare tra di loro questi istituti, coordinarli e subordinarli in una gerarchia di competenze e di poteri, accentrarli fortemente, pur rispettando le necessarie autonomie e articolazioni» [6] al fine della vittoria sulla classe sfruttatrice.
Con questo scopo tenta di formare politicamente le avanguardie operaie attraverso l’esperienza del settimanale l’Ordine Nuovo, mentre conduce caparbiamente una lotta politica contro il massimalismo inconcludente del Partito Socialista Italiano [7]. Per Gramsci i “rivoluzionari consapevoli” “non attendono certo la conquista della metà più uno dei seggi” e “hanno lottato per mandare molti deputati socialisti nel Parlamento” solo con il fine di “rendere impossibile a ogni leader della borghesia di costituire un governo stabile forte” [8]. Una strategia atta ad attuare la “rivoluzione comunista” e la “dittatura del proletariato” [9], ovvero una fase di rottura con l’ordine esistente. Lo “Stato socialista”, infatti, non può che essere “una creazione fondamentalmente nuova”, producente nuovi rapporti di produzione, pertanto impossibile da “incarnarsi nelle istituzioni dello Stato capitalista” [10] e in una semplice correzione [11] della democrazia borghese. Possono alternarsi fasi differenti di maggiore forza o debolezza della classe proletaria, ma mai viene meno il carattere intrinseco dello sfruttamento operato dalla borghesia, dunque solo “spezzando la macchina statale” [12] e rifiutando qualsiasi “compromesso parlamentare”, gli operai potranno raggiungere “l’emancipazione dei lavoratori” [13]. E’ proprio in vista di tale obiettivo che Gramsci ha ben presente l’insufficienza dell’autonomia delle lotte sociali ed è quanto comprende amaramente nel bilancio del Biennio Rosso (1919 – 1920), che secondo il gruppo dell’Ordine Nuovo ha visto mancare un’avanguardia politica capace di dare una direzione rivoluzionaria alla spontaneità delle masse. Nonostante Gramsci esalti il movimento dei Consigli, per la loro capacità di rompere gli argini delle burocrazie sindacali, egli ha ben chiaro come l’operaio, per come esso si configura nella produzione capitalistica, sia ridotto a mero “esecutore”, a essere “pigro intellettualmente”, cioè incapace di “prevedere oltre l’immediato” [14] della lotta economica. Sulla base di questa riflessione la conquista di una prospettiva politica da parte della classe lavoratrice richiede il Partito Comunista, ossia “l’organizzazione disciplinata dalla volontà di fondare uno Stato” [15], che si pone il “problema immediato di organizzare e centralizzare” [16] “tutta l’azione rivoluzionaria del proletariato” [17], “ripudiando le sue origini democratiche e parlamentari” e rendendo l’operaio “un organizzatore oltre che organizzato” [18]. Ciò non è successo nel 1920, a partire dai limiti del movimento dei Consigli confinato “nell’ambito locale” [19] torinese, perché osteggiato “dai funzionari sindacali, dalla direzione del Partito socialista e dell’Avanti”[20].
Fu proprio la parabola socialista, infatti, a rappresentare il vuoto politico, in cui si ritrovò il proletariato italiano. Nel 1919, sulla scia della Rivoluzione d’Ottobre, all’interno del XVI congresso del Partito Socialista, si impose la corrente massimalista guidata da Serrati a scapito del riformismo parlamentare di Turati. Ciò che caratterizzava il nuovo orientamento, tuttavia, era un rivoluzionarismo solo di facciata, espresso in una roboante fraseologia priva di un’applicazione pratica, con la conseguenza sul piano politico di adottare una posizione attendista e portare alla paralisi della mobilitazione popolare e operaia italiana. Gramsci, difatti, descrive il Partito socialista come uno “spettatore dello svolgersi degli eventi”, incapace di lanciare “parole d’ordine che possano essere raccolte dalle masse”, di “dare un indirizzo generale” e di “unificare e concentrare l’azione rivoluzionaria” [21]. Invece “il Partito politico della classe operaia è giustificato solo in quanto, accentrando e coordinando fortemente l’azione proletaria, contrappone un potere rivoluzionario al potere legale dello Stato borghese” [22], motivo per cui esso “deve rivolgere tutta la sua energia per organizzare le forze operaie sul piede di guerra” [23]. Esso è “un processo dialettico, in cui convergono il movimento spontaneo delle masse rivoluzionarie e la volontà organizzativa e direttiva del centro” [24].
Per Gramsci, quindi, l’organizzazione rivoluzionaria consiste nell’unità di insorgenza proletaria e strutturazione organizzativa per la conquista del potere, escludendo il suo “consiliarismo” a qualsiasi riduzione “operaista”. Egli, infatti, è assolutamente convinto della necessità ineliminabile di un Partito Comunista, così come la lotta politica non può svilupparsi senza il carburante di quella economica. Per semplificare si può dire che l’organizzazione senza la spontaneità è vuota, ma la spontaneità senza il partito è cieca. Per questi motivi, di fronte alla pavidità del Partito socialista, nel maggio 1920 Gramsci ritiene che “i comunisti non rivoluzionari” debbano “essere eliminati dal Partito” [25]. La prospettiva rivoluzionaria fin qui delineata si rafforza con il passare degli anni e non appare legata solo a un periodo giovanile o alle vicende impetuose del Biennio Rosso con il suo clima insurrezionale. Essa dimostrerà di essere la coerente posizione ideologica di un militante comunista e verrà confermata anche negli anni successivi di fronte all’ascesa del fascismo. Le Tesi di Lione del 1926, con le quali Gramsci diverrà segretario del PCd’I, infatti confermeranno le posizioni leniniste del loro autore. Nelle Tesi il dirigente italiano ribadirà come la “strategia e la tattica del partito” siano legate alla necessità di “stringere intorno al proletariato le forze che gli sono naturalmente alleate nella lotta contro lo Stato e a guidarlo nella conquista del potere” [26], ricordando come dopo la prima guerra imperialista “la sconfitta del proletariato rivoluzionario” sia stata dovuta “alle deficienze politiche, organizzative, tattiche e strategiche del partito dei lavoratori” e all’incapacità di guidare l’insurrezione “nella creazione di uno Stato operaio” [27]. Emerge in modo chiaro, quindi, come Gramsci rimanga un coerente rivoluzionario anche in “età matura”, nonostante la reazione fascista in Italia e il naufragare sul piano internazionale di uno sviluppo della rivoluzione proletaria mondiale.
Note:
[1] M. Maccaferri, How Gramsci Went Global, 30/10/2021, pubblicato su “Tribune”, https://tribunemag.co.uk/2021/10/how-gramsci-went-global
[2] Sullo scollamento tra i concetti gramsciani e il loro sfondo politico nei filoni accademici contemporanei appare pertinente l’osservazione critica di G. LIGUORI contenuta in Il fascino di un marxismo “aperto” e “dialogico”, pubblicato in Mosaico Italiano, Editora Comunità, febbraio 2018, n. 169, p. 4. «A me sembra – in larghe correnti degli studi culturali e dei collegati postcolonial studies (…) viene meno ogni dialettica tra il momento “culturale” e il momento “politico”, per non parlare dell’indagine di tipo strutturale, e in cui non sembra più esservi attinenza con l’orizzonte di senso gramsciano (che è l’orizzonte della tensione verso una liberazione effettiva: politica, sociale, economica e culturale). Nel senso che a volte si prendono da Gramsci suggestioni e categorie isolate dal contesto del suo discorso e se ne fa un uso lontano dalla tensione e dalla intenzione originarie, dalle coordinate di fondo della elaborazione dell’autore dei Quaderni. Si è insomma di fronte a una lettura culturalista del nostro autore, che spezza il nesso dialettico che vi è tra le diverse articolazioni del suo pensiero – e anche della realtà»
[3] Sull’importanza del “giovane Gramsci” e la continuità del suo pensiero legato all’emancipazione del proletariato ne ha parlato anche Angelo d’Orsi in La vita straordinaria di Gramsci, come raccontarla?, pubblicato per Mosaico Italiano, Editora Comunità, febbraio 2018, n. 169, p. 12
[4] A. Santucci Antonio Gramsci, Palermo, Sellerio Editore, 2017, pg. 55-56
[5] A. Gramsci, Democrazia operaia, in Scritti scelti, a cura di Marco Gervasoni, Bergamo, Bur, 2007, p. 143
[6] Ivi, p. 142
[7] c.f.r L’Ordine Nuovo. Rassegna settimanale di cultura socialista n°1, Segretario di redazione Antonio Gramsci, Torino, 1919, p. 1, in Centro Gramsci di Educazione, L’Ordine Nuovo, http://www.centrogramsci.it/riviste/nuovo/ordine%20nuovo%20p1.pdf
[8] A. Gramsci, I rivoluzionari e le elezioni, in Scritti Rivoluzionari, a cura di Orlando Micucci, Camerano (AN), Gwynplaine edizioni, 2008, p.56
[9] Ibid
[10] A. Gramsci, La conquista dello Stato, Ivi, p. 27
[11] Ibid
[12] A. Gramsci, Il Congresso di Livorno, Ivi p. 116
[13] Ivi p. 117
[14] A. Gramsci, Il Partito Comunista, Ivi p. 104
[15] Ibid
[16] Ivi p. 107
[17] A. Gramsci, Per un rinnovamento del Partito socialista, Ivi p.93
[18] A. Gramsci, Il partito comunista, in Scritti scelti, a cura di Marco Gervasoni, Bergamo, Bur, 2007, p. 197
[19] A. Gramsci, Il movimento torinese dei consigli di fabbrica, Ivi p. 86
[20] Ivi, p. 85
[21] Ivi, p. 89
[22] Ivi, p. 91
[23] Ivi, p. 93
[24] A. Gramsci, Lettere da Vienna, Ivi, p. 164
[25] Ibid
[26] A. Gramsci, Le Tesi di Lione, Ivi p. 298
[27] Ivi, p. 306
02/03/2024