Jamil El Sadi
Processi come il Trattativa Stato-mafia rischiano l’impunibilità
Da giorni si sta discutendo sulla riforma della giustizia che porta la firma di Marta Cartabia. Un dossier di emendamenti che, riportando le parole del Procuratore di Palermo Roberto Scarpinato, prevede l’estinzione del processo per improcedibilità dell’azione penale “qualora il grado di appello non sia definito entro due anni e quello di Cassazione in un anno, e ciò a prescindere dai termini di prescrizione del reato e dalla durata del primo grado“.
Il primo allarme di criticità è stato lanciato sui reati di mafia e di terrorismo che attualmente, nonostante gli attuali tentativi di mediazione di Giuseppe Conte, sono ancora inseriti nella riforma della Guardasigilli. Ma in realtà ad essere a rischio sono tutti i reati previsti dal codice penale (reati ambientali, omicidio e violenza sessuale, delitti contro la pubblica amministrazione, corruzione e concorso esterno in associazione mafiosa). Ciò significa che in Italia rischiano di decadere molti processi, soprattutto quelli più complessi per quantità di prove e numero di reati e di imputati.
Inoltre, secondo quanto prevede l’attuale testo di riforma, il Parlamento dovrà dettare alle procure i criteri generali per l’ordine dei reati sui cui indagare, creando così un “vulnus” giuridico con cui i partiti, specie quelli di maggioranza al Governo, possono decidere le sorti di un’indagine a carico di un suo rappresentante o leader. Venendo meno non solo i principi fondamentali della Costituzione, bensì l’indipendenza della magistratura dal potere politico.
Ma c’è un ultimo aspetto altrettanto preoccupante, ovvero la potenziale retroattività del pacchetto normativo proposto dalla Guardasigilli.
È di ieri, infatti, l’analisi di Pasquale Bronzo – docente di Procedura penale alla Sapienza – riportata sul Fatto Quotidiano, in cui viene illustrato quello che potrebbe essere il cavillo giuridico per considerare retroattiva l’improcedibilità della nuova norma al primo ricorso delle difese che si appelleranno al “favor rei”. Con un’attenta analisi di una sentenza della corte Costituzionale del 2019 (anno in cui la ministra della Giustizia ne era parte integrante), che cita a sua volta un’altra sentenza dei primi anni 2000, è possibile comprendere come inizi una paradossale “escalation” in cui la riforma Cartabia non renderà impunibili solo i reati commessi dopo il 1° gennaio 2020, ma molto probabilmente anche quelli precedenti. Ma uniamo i tasselli.
Il ragionamento parte dalla sentenza 63 del 2019 in cui a presiedere la Consulta era Giorgio Lattanzi (ex magistrato voluto dalla Cartabia a capo della commissione di studio del progetto di riforma) e tra i nove giudici del collegio c’era anche l’attuale Guardasigilli. L’articolo 2, quarto comma del codice penale fa riferimento al principio di retroattività della legge penale più favorevole. “Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile”. Ma questo principio non è quello di una semplice norma. La regola con cui applicare in maniera retroattiva la “lex mitior” (legge meno severa) in materia penale “non è sprovvista di fondamento costituzionale – precisò la Corte – fondamento che la costante giurisprudenza di questa Corte ravvisa anzitutto nel principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., che impone, in linea di massima, di equiparare il trattamento sanzionatorio dei medesimi fatti, a prescindere dalla circostanza che essi siano stati commessi prima o dopo l’entrata in vigore della norma che ha disposto l’abolitio criminis (la depenalizzazione, ndr) o la modifica mitigatrice”. Dunque, il reo ha il diritto di godere della norma più favorevole nonostante non fosse in vigore nel momento in cui ha commesso il reato.
A supportare questa opportunità vi è anche il diritto internazionale ed europeo. Sempre nella sentenza 63 del 2019, infatti, i giudici hanno fatto riferimento alla retroattività enunciata “dall’art. 15, comma 1, terzo periodo, del Patto internazionale sui diritti civili e politici (…) quanto dall’art. 49, paragrafo 1, terzo periodo, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea”. I due, verosimilmente, attestano che: “[…] Se, posteriormente alla commissione del reato, la legge prevede l’applicazione di una pena più lieve, il colpevole deve beneficiarne”.
Ed è per questo che nel 2006 un’altra pronuncia della Consulta ha dichiarato incostituzionale una norma paragonabile a quella con cui la Cartabia esclude dai propri effetti i reati commessi prima del 2020. Era l’articolo 10, comma 3 della legge ex-Cirielli (nota come “accorcia-prescrizione”) che proibiva di applicare la prescrizione più breve ai processi in cui fosse già stato aperto il dibattimento di primo grado. La sentenza concludeva affermando che “limita in modo non ragionevole il principio della retroattività della legge penale più mite e viola l’art. 3 della Costituzione”. Un principio che “può essere sacrificato da una legge ordinaria solo in favore di interessi di analogo rilievo“, e in quel caso, secondo la Corte, non ce n’erano.
C’è da chiedersi, dunque, quali potrebbero essere le conseguenze dell’entrata in vigore della Riforma Cartabia. E cosa accadrebbe se gli imputati per reati anteriori al 2020 chiedessero l’applicazione retroattiva delle nuove norme.
Considerando il fatto che la Corte costituzionale ha sempre privilegiato l’applicazione della retroattività alle norme penali più favorevoli nei processi in corso, e tenuto conto che la legge non può limitarne l’applicazione nel tempo senza una valida ragione, viene da se il timore per processi delicatissimi come il Trattativa Stato-mafia in cui, nonostante il primo grado di giudizio ha portato a pesanti condanne, potrebbe chiudersi non tanto per prescrizione bensì per improcedibilità dell’azione penale.
Il disegno di legge approderà in Camera dei Deputati venerdì 30 luglio. Perciò è ancora presto per trarre conclusioni. Ma intanto l’analisi sinora fatta, assieme ai pericoli evidenziati da numerosi addetti ai lavori, restituisce il referto clinico di un sistema giuridico moribondo e sempre più in decadenza. Raffigura la cronistoria del decadimento della classe dirigente del nostro Paese. La cartina torna sole circa la volontà di abbattere l’autonomia e l’indipendenza di una certa magistratura. E, soprattutto, restituisce l’entità della decennale balcanizzazione del sistema giuridico e investigativo del nostro Paese: l’unico al mondo ad aver contrastato poteri eversivi – come mafia e terrorismo – spesso al servizio di entità deviate dello Stato.