Giorgio Bongiovanni
Il leader di Italia Viva dialoga con i condannati per mafia (favoreggiamento e concorso esterno)
Correva l’anno 2012. Matteo Renzi, al tempo sindaco di Firenze, alla domanda dei giornalisti de Il Fatto Quotidiano su cosa pensasse dell’eventuale costituzione civile da parte del Governo sulla trattativa Stato-mafia, rispondeva: “Rivolgetevi all’ufficio stampa: sono allo stadio, sto guardando la partita, c’è la Fiorentina”.
Da allora Matteo Renzi ha cambiato più vesti. Prima è stato segretario del Pd, promettendo chissà quali cambiamenti all’interno del centrosinistra, quindi è stato Premier. Poi ancora si è distaccato dal partito dando luce ad Italia Viva. Ovviamente il suo governo non ha brillato per la lotta alla mafia anche se quella scelta, poi ritirata, di assegnare a Nicola Gratteri il dicastero alla Giustizia aveva gettato fumo negli occhi.
Nel corso del tempo il suo vero volto, quello del vecchio lupo, nefasto, vestito con il mantello dell’agnello, agli ordini del potere di quelle menti raffinatissime di oggi che servono il Principe di sempre, si è rivelato nella sua essenza.
E non solo perché è stato tra i fautori dell’attuale governo Draghi, facendo cadere il Governo Conte bis, con un partito del 2%.
Il suo volto peggiore, Matteo Renzi, lo ha mostrato sempre più negli ultimi tempi quando, direttamente dalla Leopolda, tra scroscianti applausi, sono andati in scena ripetuti attacchi contro quella magistratura che non fa altro che compiere il proprio dovere, verificando notizie di reato e andando fino in fondo nella ricerca della verità sulle stragi e le trattative che si sono consumate nel nostro Paese, smascherando il Sistema criminale.
Nel suo lungo intervento Renzi, così come vent’anni fa faceva Silvio Berlusconi, ha parlato di “processi mediatici”, di toghe che “invadono la politica” e che “mettono a rischio il sistema democratico”. Quindi ha attaccato i pm fiorentini, rei di aver portato avanti l’inchiesta sulla Fondazione Open, che vede tra gli undici indagati lo stesso politico toscano (accusato di finanziamento illecito, ndr).
Abbiamo raccontato delle fandonie dette dall’ex pm Carlo Nordio sulla trattativa Stato-mafia ed il delirante attacco contro il consigliere togato Nino Di Matteo (che istruì il processo di Palermo in primo grado). Ad essi si sommano le considerazioni folli di Alessandro Barbano, condirettore del Corriere dello Sport e già vicedirettore del Mattino.
Alle sue già note tesi iper garantiste ha aggiunto pensieri nefasti in tema di confische dei beni (“Un diritto penale liberale non confisca proprietà, aziende a cittadini innocenti o addirittura assolti”) e sull’ergastolo ostativo (“Un diritto penale liberale non può contenere una norma che si chiama ergastolo ostativo e che impedisce che si conceda il beneficio della liberazione anticipata dopo trent’anni e qualunque premialità, a meno che non hai collaborato attivamente con il pm”).
Argomenti, quelli della revisione della legge Rognoni-La Torre (su confische e sequestri dei beni mafiosi) e dell’abolizione dell’ergastolo, cari a Cosa nostra tanto che Riina li inserii tra i punti del papello di richieste che pretendeva dallo Stato per fermare le stragi.
Gli applausi dei tanti presenti tra il pubblico della Leopolda, così come quelli di Matteo Renzi, mostrano ancor di più l’idea di lotta alla mafia di un partito che strizza l’occhio ed inciucia con quei soggetti che con la mafia hanno avuto a che fare.
Mi spiego subito. E per farlo si deve spostare il punto di osservazione in Sicilia, isola laboratorio di numerose alleanze politiche, nonché spesso ago della bilancia decisivo nell’ottica nazionale.
Che se ne dica non è stato mai veramente smentito il dialogo tra Matteo Renzi e Marcello Dell’Utri, che ha scontato una condanna a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa, co-fondatore di Forza Italia, di recente assolto in appello nel processo Stato-mafia dopo una condanna in primo grado (aspettando le motivazioni della sentenza c’è ancora un terzo grado di giudizio da dover affrontare, ndr).
Proprio Dell’Utri, che nei mesi scorsi dopo la sentenza della Corte d’Assise d’Appello aveva giurato di non voler più far politica, sarebbe il grande manovratore per portare nuova acqua al “mulino” di Silvio Berlusconi (quell’imprenditore, pregiudicato ed ex premier che la mafia, come dicono le sentenze, la pagava). Il sogno proibito del “Caimano” è il palazzo del Quirinale. Ma per sedere sulla poltrona del Capo dello Stato il cammino è piuttosto impervio.
Intanto, però, è buona cosa portarsi avanti con un’alleanza elettorale con Forza Italia a Palermo e in Sicilia.
Sarebbe stato Marcello Dell’Utri il fautore di una cena, lo scorso ottobre a Firenze, tra Matteo Renzi e Gianfranco Miccichè, presidente dell’Assemblea regionale siciliana, proconsole di Berlusconi sull’isola, nonché delfino dello stesso Dell’Utri.
L’idea è quella di costruire un grande centro moderato da sperimentare prima in Sicilia e poi alle elezioni politiche del 2023.
In primavera ci sono le Comunali a Palermo e per il Capoluogo Renzi ha proposto il capogruppo di Iv in Senato, Davide Faraone. Ma da molti viene letta come una “fuga in avanti” strategica, finalizzata in realtà a portare in alto un altro soggetto gradito a Forza Italia: Francesco Cascio, già presidente dell’Ars.
Ma la manovra per il grande centro prevede la guida anche di un altra figura.
Perché alle ultime amministrative c’è stato un nuovo exploit di Totò Cuffaro, già condannato a 7 anni per favoreggiamento alla mafia (pena scontata) con interdizione perpetua dai pubblici uffici, che ha riesumato politicamente la Democrazia Cristiana.
E’ davvero questo il tempo della restaurazione dell’Ancien Regime.
E ciò accade in un’Italia che ha una memoria cortissima nonostante vi siano sentenze che hanno certificato fatti e misfatti.
Nella sentenza contro Dell’Utri, per concorso esterno in associazione mafiosa, si dimostra come per diciotto anni, dal ’74 al ’92, l’ex senatore sia il garante “decisivo” dell’accordo tra l’ex premier Silvio Berlusconi e la mafia per proteggere interessi economici e i suoi familiari.
E che dire delle motivazioni della sentenza contro l’ex-presidente della Regione Sicilia, anche noto come “Vasa Vasa”.
“Cuffaro – scrivevano i giudici di Cassazione – sapeva di aiutare l’intera organizzazione di Cosa nostra”. Secondo i magistrati, inoltre, era stata verificata “la sussistenza di ripetuti contatti con vari esponenti” di Cosa nostra, ed era stato verificato che Cuffaro “aveva stipulato un accordo politico-mafioso” con Giuseppe Guttadauro, boss di Brancaccio.
Ecco dunque che in un certo senso sembra tornare protagonista quella “politica mafiosa” in Sicilia.
Non è solo questione di impresentabili, ma di storia.
A veder “scendere in campo” certi “nomi amici” e leggendo le idee generali in materia di giustizia, legalità e lotta alla mafia, frutto di inciuci e pericolose alleanze possiamo prevedere che Cosa nostra non avrà molti dubbi a chi dare il proprio appoggio.
(Prima pubblicazione: 13 Dicembre 2021)
23 Dicembre 2021