di MOWA
Visto il grado di terrore esercitato dai produttori di olio di palma, in alcune aree geografiche, su alcuni attivisti che obiettano per il grave inquinamento realizzato dai vari stabilimenti ci obbliga lanciare un appello ai consumatori smettendo o limitando, al minimo, il consumo di prodotti che lo contengono.
Esercitare una qualificata e responsabile pressione sui produttori dell’olio di palma, non comprando prodotti che lo contengono, darebbe un forte segnale di coesione con tutte quelle persone che lottano per avere un ambiente più salutare.
Altro valido motivo di aderire all’appello è quella per preservarci da brutte sorprese sulla nostra salute; infatti, l’amido palmitico di quest’olio, come altri acidi grassi, secondo alcuni studi i quali hanno indotto l’OMS di consigliare di limitarne fortemente il consumo, perché possiede la capacità di innalzare i livelli di trigliceridi e anche il colesterolo LDL (quello “cattivo”) nel sangue aumentando i rischi legati a patologie cardiache.
L’olio di palma, se usato in eccesso, dicono i medici, lo rende dannoso per la salute delle arterie… ma, diciamo noi, visti gli abbondanti usi che lo impiegano in una moltitudine di alimenti come merendine, biscotti, cioccolata, creme di cacao per gli spalmabili, addensanti, ecc. diventa, pressoché, impossibile farne un uso modesto.
Altra cosa che l’olio di palma raffinato (che troviamo sulle etichettature con la dicitura “olio vegetale”), causa alla salute, dicono sempre i medici, per chi ha allergie alle noci, nocciole e frutta secca può provocare probabili reazioni chiamate crociate.
Inoltre, l’olio di palma bifrazionato, al quale vengono lasciati solo grassi nocivi, pongono a rischio la salute sia in termini di obesità che nelle patologie cardiovascolari e il diabete.
Non meno importanti della nostra salute sono i problemi connessi con la produzione dell’olio di palma sono le deforestazioni e gli incendi di vaste aree di foreste pluviali per agevolarne le piantagioni… motivo per cui gli attivisti sono, presi di mira e, spesso, uccisi.
Solidarizziamo, quindi, con questi piccoli gesti nei negozi con quelle persone che vogliono un modello di vita a misura d’uomo e non di denaro.
Guatemala, ucciso l’attivista che aveva denunciato l’inquinamento. In tutto il mondo attivisti sotto tiro
di Marina Forti
La notizia viene dal Guatemala: un attivista ambientale è stato ucciso, e altre tre sono scomparsi. Rigoberto Lima Choc, 28 anni, era maestro di scuola e da poco consigliere del municipio di Sayaxché, nel Peten. Era anche tra i primi abitanti di quella regione rurale e indigena a denunciare alle autorità l’inquinamento del fiume La Pasión. In giugno d’improvviso il fiume si era riempito di migliaia di pesci morti: un disastro per una popolazione di 30mila persone che vivono per lo più di pesca artigianale.
La causa erano i reflui chimici scaricati da Repsa, azienda che produce olio di palma. Rigoberto Lima e altri leader di comunità hanno raccolto prove e denunciato per vie legali l’azienda che li sta avvelenando: proprio venerdì scorso una giudice di prima istanza aveva ordinato la chiusura dell’impresa inquinatrice. La gente del luogo dice che la moria di pesci è l’ultimo disastro, la contaminazione chimica del fiume è un attentato continuo alla salute della popolazione stessa.
Un avvocato del Centro de Atención Legal, Ambiental y Social (Calas) ha detto quello che a tutti pare evidente: che gli assassini dell’attivista devono essere sicari mandati dall’azienda: «È davvero sospetto che sia stato ucciso il giorno dopo quella sentenza, e che tre leader comunitari che denunciavano l’ecocidio siano scomparsi».
L’assassinio dell’attivista è stato condannato dall’ufficio dell’Alto commissario dell’Onu per i diritti umani, e dall’organizzazione guatemalteca Unidad de Protección a Defensoras y Defensores de Derechos Humanos de Guatemala (Udefegua): dicono che l’attacco è conseguenza dell’inazione del governo, che non è intervenuto per cercare il dialogo né per far rispettare la legalità.
Attivisti sotto tiro
Il caso del maestro di scuola del Peten, Guatemala, non ha nulla di straordinario: ed è questo che è terribile. Come lui, ogni settimana, almeno due persone vengono uccise nel mondo per il loro attivismo ambientale: perché protestavano contro la devastazione delle foreste o delle terre su cui vivono, il taglio illegale delle foresta, l’esproprio di terre, o altro.
Nel 2014 almeno 116 persone sono stati uccise: alcune colpite dalla polizia durante una protesta, altre ammazzate da gang criminali o sicari. È l’organizzazione Global Witness a fare questo “censimento”, in un rapporto diffuso lo scorso aprile.
La ricerca mostra che di quei 116 attivisti ambientali ammazzati, il 40 per cento sono indigeni. E che la gran parte dei casi riguarda conflitti su dighe e centrali idroelettriche, miniere, e terre accaparrate da imprese agro-industriali. Secondo Global Witness il bilancio potrebbe essere più alto, perché in zone molto remote l’uccisione di un contadino o indigeno non viene necessariamente registrata come attentato a un attivista per la giustizia ambientale.
Non solo: tre quarti di tutte le uccisioni avvengono in America centrale e meridionale (29 solo in Brasile), con l’Asia sud-orientale al secondo posto. Global Witness inserisce questi dati in un trend di violenza e intimidazione. I passaggi sono chiari: si comincia a criminalizzare le proteste, limitare le libertà, modificare (o ignorare) le normative sulla protezione ambientale ignorando i diritti di chi dovrà sfollare per fare posto a una diga, o miniera, o piantagione industriale – o di chi si trova acqua e terra contaminate.
Intimidazione, arresti e uccisioni fanno parte di questo trend. Global Witness sottolinea con allarme che sempre più spesso i governo usano la legislazione anti-terrorismo contro gli attivisti, descrivendoli come attentatori della sicurezza nazionale – proprio come abbiamo visto in Ecuador.
Naturalmente ci sono poche informazioni su chi commette questi omicidi. Global Witnss osserva che nei casi in cui i responsabili sono stati individuati, risulta che 10 erano legati a gruppi paramilitari, 8 erano della polizia, 5 guardie di sicurezza privata e 3 militari.