L’intervento del magistrato al seminario antimafia italo-argentino
di Giorgio Bongiovanni –
La seconda giornata del primo seminario Antimafia italo-argentino, che si tiene alla Camera dei Deputati della Repubblica Argentina con l’obiettivo di condividere conoscenze ed esperienze reciproche per migliorare strumenti e prassi nella lotta contro il crimine transnazionale, ieri ha visto lo svolgimento delle prime tavole rotonde con le relazioni dei magistrati della Direzione nazionale antimafia. L’introduzione al fenomeno mafioso italiano, ovviamente, è stata effettuata dal Procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho che, dopo aver spiegato quelli che sono i poteri che detiene la Procura e le funzioni che svolge nel contrasto alla criminalità organizzata, ha anche fatto riferimento al problema del rapporto tra mafia e politica. E’ toccato poi al sostituto procuratore nazionale antimafia Nino Di Matteo il compito di entrare nello specifico dell’argomento evidenziando le caratteristiche della mafia italiana ed in particolare di Cosa nostra. Una relazione molto netta e precisa in cui è stato ricordato come il fenomeno resiste nel nostro Paese da oltre 150 anni. Nel suo intervento il magistrato non ha tralasciato il rapporto tra mafia e politica, facendo nomi e cognomi di figure di primo piano che hanno rivestito un ruolo importante nel nostro Paese e che hanno avuto rapporti diretti con la criminalità organizzata. Così ha ricordato le motivazioni della sentenza Andreotti, in cui si certifica come il sette volte presidente del consiglio (il cui reato è stato prescritto) abbia avuto rapporti organici con Cosa nostra almeno fino al 1980, e quella definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa contro l’ex senatore, fondatore di Forza Italia con Silvio Berlusconi, Marcello Dell’Utri. Di Matteo ha spiegato com il potere di Cosa nostra derivi proprio dai rapporti con l’esterno, con le istituzioni deviate ed i grandi poteri. Rispondendo ad una domanda di un giovane giornalista argentino ha confermato, infine, l’esistenza di rapporti tra la mafia e gli Stati ed ha sottolineato come oggi la mafia non sia solo un’organizzazione fine a se stessa ma sia inserita in un sistema criminale integrato. Di seguito vi proponiamo la trascrizione integrale dell’intervento del sostituto procuratore nazionale antimafia.
Prima di tutto voglio ringraziare tutte le autorità argentine che hanno permesso questo seminario. Per me è un onore parteciparvi. La mia speranza è di fornire, con umiltà e senza nessuna pretesa, un contributo utile ad affrontare un problema, quello sulla mafia, che da oltre 150 anni costituisce una questione irrisolta. Negli ultimi anni sta diventando, in Europa e non solo, un elemento di inquinamento internazionale. La questione mafiosa non può essere affrontata solo come un fenomeno criminale, ma è una questione più ampia che costituisce un fattore di compressione della nostra libertà e democrazia e di una sistematica non applicazione dei principi della nostra costituzione. Non è un caso che in Italia, al più alto livello politico, la mafia abbia trovato da tempo un ampio spazio di inchiesta con la Commissione parlamentare antimafia. La prima è stata istituita con la legge del 1° dicembre 1962. Oggi si è insediata la sedicesima commissione. Già questo dato evidenzia la gravità e la pervasività del problema. La questione mafiosa, originariamente evidenziatasi nel XIX secolo nelle regione del meridione d’Italia, progressivamente è diventata una gestione nazionale. Non solo perché ‘Ndrangheta, Cosa nostra e altre organizzazioni hanno spostato nelle regioni del Nord i propri interessi economici-finanziari. In particolare Cosa nostra, ma in generale tutte, sono riuscite a condizionare le scelte politiche ed economiche, talvolta con metodi violenti e minacciosi per implementare i rapporti di collusioni con il potere. Ecco perché la questione mafiosa è un problema nazionale e non un qualcosa da delegare solo alle regioni del meridione d’Italia. Negli ultimi decenni sono stati celebrati processi con sentenze definitive che hanno dimostrato a quale altissimo livello si sia spinto il condizionamento mafioso. Come il processo nei confronti del senatore Giulio Andreotti in cui, per il periodo antecedente agli anni ’80, sono stati riscontrati rapporti con esponenti di vertice delle organizzazioni mafiose palermitane. Nello stesso solco, il processo che ha condannato per associazione mafiosa il senatore Marcello Dell’Utri, uno dei principali fondatori di un partito politico tutt’oggi protagonista della vita politica italiana.
La forza di Cosa nostra
Mi sono occupato principalmente di Cosa nostra che è l’organizzazione più antica, quella che ha raggiunto il potere militare, imprenditoriale e politico più alto rispetto a qualsiasi altre. Io continuo a credere che Cosa nostra rappresenti l’organizzazione più potente. Nessun’altra organizzazione è ricorsa all’uccisione di un numero così alto di rappresentanti delle istituzioni. La storia del dopo guerra italiano è stata contrassegnata da delitti eccellenti certamente ascrivibili all’organizzazione mafiosa e, almeno in alcuni casi, con la probabile complicità di ambienti esterni. Tutto il mondo, anche l’Argentina, conosce gli attentati stragisti di Capaci e via d’Amelio. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino rappresentavano la punta più avanzata di contrasto giudiziario alle mafie ed esempio vivente di professionalità, coraggio e indipendenza e autonomia di giudizio. In questa sede non posso non ricordare tutti quei magistrati che in Sicilia sono stati assassinati prima ancora delle stragi del ’92. Primi tra questi il procuratore Scaglione, Costa, Chinnici, Saetta e il giudice giovanissimo Rosario Livatino. La forza di Cosa nostra non si può riferire solo a quei delitti eccellenti e stragi, dietro c’è molto di più. Nella sua storia centenaria si è sempre distinta per la sua peculiarità a implementare rapporti con la politica. Ho già citato le sentenza Andreotti e Dell’Utri, ma anche elementi recenti in procedimenti giudiziari, sia a Palermo che a Catania, hanno fatto emergere gravissimi rapporti collusivi che anche altri esponenti politici, due presidenti della regione, hanno intrattenuto con esponenti mafiosi di primo piano. Le teste pensanti di Cosa nostra, guai a pensare che siano quei rozzi contadini, hanno sempre avuto piena consapevolezza dell’importanza di avere un rapporto con il potere. Salvatore Riina, capo indiscusso di Cosa nostra, secondo i collaboratori di giustizia, diceva sempre: “Se noi non avessimo avuto il rapporto con la politica noi eravamo solo una banda di sciacalli e lo Stato con un’azione di normale repressione ci avrebbe schiacciato”. Ciò testimonia che loro, i mafiosi, avvertono la centralità, per i loro fini, di questi rapporti. Noi istituzioni, non solo in Italia, dobbiamo comprendere, anche in questa sede, che per poter aspirare a sconfiggere le mafie non è sufficiente reprimere negli aspetti più violenti ma bisognerebbe recidere ogni possibilità di rapporto con i poteri politici e istituzionali. Fin qui ho descritto uno scenario allarmante per il mio Paese. Ma questo ha scatenato una reazione che ha fatto dell’Italia un avamposto alla lotta ai sistemi criminali organizzati. L’Italia costituisce un punto fondamentale di lotta alla mafia, non solo per la legislazione efficace, che nel tempo è andata perfezionandosi, ma anche per il progressivo affinamento di una elevatissima professionalità di magistrati e appartenenti alla polizia.
Il reato di associazione mafiosa
E’ previsto nella legislazione italiana, dal 1982, all’interno del codice penale, l’articolo 416 bis (delitto di associazione a delinquere di stampo mafioso). Volevo accompagnare queste riflessioni, che riguardano l’aspetto della legislazione, con altre caratteristiche strutturali e regole comportamentali che rendono Cosa nostra l’organizzazione più legata alle sue tradizioni e più organizzata al suo interno. Già ai tempi del fascismo, e negli anni ’60-’70, erano stati celebrati dei processi nei confronti dei mafiosi che venivano accusati per il reato di associazione a delinquere. Tutti quei processi, svoltisi a Bari e Catanzaro, si conclusero con l’assoluzione per insufficienza di prove per la totalità degli imputati. I verdetti finirono per innalzare incredibilmente il prestigio dei mafiosi e, soprattutto, il loro senso di impunità. Si trattava di processi fondati essenzialmente su elementi indizianti poco significativi, in un panorama probatorio dall’assenza totale di una prova dichiarativa e documentale. Però gli esiti fallimentari non dipesero dalla mancanza di prove. L’esito assolutorio si ebbe con la mancata raffigurazione di ciò che costituiva il requisito essenziale per provare l’esistenza del reato. Cioè il vecchio 416, la finalizzazione dell’associazione al preciso scopo di commettere una serie indeterminata di delitti. L’approvazione del 416 bis segnò un punto di svolta decisivo perché marcò la distinzione della nuova figura dell’associazione mafiosa e quella già prevista, che si era rivelata un’arma spuntata, dell’associazione a delinquere semplice. Mentre il 416 puniva due o più persone che si riunivano per commettere delitti, il terzo comma del 416 bis, nel definire le caratteristiche dell’associazione mafiosa, prese in considerazione anche scopi diversi rispetto alla commissione di delitti. Con la legge del ’82 si è stabilito che l’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri, ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali. Un vero e proprio salto di qualità che si rivelò decisivo per poter infrangere l’atavica e leggendaria impunità del fenomeno. L’incriminazione della condotta è sostenuta da una pluralità di ragioni. L’articolo 416 bis evidenzia il disvalore della criminalità mafiosa quale fenomeno socialmente dannoso a diversi livelli. Il legislatore, sostanzialmente, ha concepito una fattispecie autonoma rispetto all’associazione comune o rispetto a quella finalizzata al traffico di droga. Tutto questo per reprimere condotte che, benché finalizzate o inserite in una specifica commissione di delitti, sono state stimate, giustamente, come di elevatissima pericolosità della convivenza civile. L’oggetto di tutela della norma non è più soltanto l’ordine pubblico ma si estende anche ad altri beni giuridici che la norma intende proteggere efficacemente: l’ordine economico, i principi di legalità democratici e rappresentativi delle istituzioni politiche, l’assicurazione delle corrette condizioni di libertà di mercato. In sintesi quello che è l’oggetto più profondo della tutela prestata dal 416 bis, cioè l’unicità dell’ordinamento statuale e l’esclusività del monopolio statale dell’uso della forza. Nella definizione dell’associazione viene in rilievo la forza di intimidazione che promana dal gruppo associativo, quella capacità di incutere timore e indurre negli altri uno stato di assoggettamento assimilabile a uno stato di dipendenza psicologica tale da costringere chi la subisce a comportamenti non voluti, ai quali non ci si può sottrarre per paura di conseguenze più gravi. Si è efficacemente tratteggiato l’alone permanente di intimidazione tale da mantenersi vivo anche a prescindere da singoli atti intimidatori posti in essere da singoli associati. L’assoggettamento e l’omertà vengono considerate facce della stessa medaglia. Il primo esprime la succubanza psicologica che si manifesta nelle potenziali vittime dell’intimidazione. La seconda, l’omertà, il rifiuto generalizzato e pregiudiziale a collaborare con la giustizia che si concretizza in favoreggiamento, false testimonianze, reticenza nelle deposizioni giudiziarie e condotte simili. Assoggettamento e omertà rappresentano la conseguenza naturale dell’impiego e sfruttamento della forza dell’azione dell’associazione criminale. Finalmente, dal 1982, con il 416 bis e le modifiche che questo ha subito, si è perfezionata la normativa di efficace contrasto. Solo negli ultimi anni la pena per l’associazione mafiosa è diventata proporzionata alla gravità della condotta. Nella sua stesura originaria prevedeva pene molto contenute da 3 a 6 anni per il partecipe e da 4 a 9 anni per i capi e promotori dell’organizzazione. Nel tempo si è constatata l’inadeguatezza di quelle sanzioni che, sostanzialmente, consentivano al mafioso condannato di mantenere saldo il suo ruolo anche durante il breve periodo di detenzione. Ancora oggi, dopo l’innalzamento delle pene detentive, accade che l’associato mafioso scontata la pena, riacquisti il ruolo che aveva all’interno dell’organizzazione criminale di cui ne faceva parte, prima della caratteristica. Addirittura, che risalga il vertice criminale ed aumenti il suo prestigio quando, durante il periodo in cui si celebra il processo e vive il periodo di detenzione, ha saputo mantenere il suo comportamento omertoso, che lo rende affidabile agli occhi dei suoi sodali. L’ha già ricordato il procuratore de Raho e la collega Pugliese che nel 1982, proprio poco tempo prima dell’entrata in vigore del 416 bis, era stato ucciso a Palermo, il 3 settembre, il generale dei carabinieri Carlo Alberto della Chiesa. La reazione dello Stato si ebbe con l’approvazione della legge Rognoni-La Torre, che vedeva per la prima volta il sequestro di beni patrimoniali di prevenzione nei confronti degli indiziati mafiosi. Ma non ci fu soltanto una reazione a livello legislativo o politico. Si assistette a una speculare reazione più giudiziaria che si concretizzò con la graduale acquisizione della consapevolezza e l’importanza del lavoro del pool. Grazie sopratutto all’intuito e alla lungimiranza del consigliere istruttore Rocco Chinnici, poi ucciso il 29 luglio 1983, primo attentato con autobomba, venne formato un pool di pochi magistrati che si occupavano congiuntamente delle indagini di mafia e che fondavano il loro lavoro quotidiano sull’osservanza dei principi e del reciproco scambio di informazioni, della condivisione piena delle rispettive acquisizioni. Non c’era ancora una legge ma si iniziò a farlo nella vita quotidiana della procura di Palermo. Questo anche per evitare che le tante informazioni fossero concentrate su un solo magistrato e che in caso di sua eliminazione venissero poi disperse. Per quanto riguarda l’elemento strutturale previsto e richiesto dal 416 bis per poter configurare un’associazione di tipo mafioso, pure in assenza di una misura normativa dei parametri minimi è certo che essa deve presentare i caratteri della stabilità e permanenza. Nel senso che deve essere tale da perpetuare nel tempo la stessa esistenza a prescindere dai singoli aderenti e deve essere del tutto autonoma rispetto alle singole fasi di attuazione delle attività criminose. Mi consentirete questo parallelo tra le previsioni normative e quanto è venuto fuori da decenni di processi sull’organizzazione strutturale di Cosa nostra. C’è stata una graduale e difficoltosa comprensione della struttura dell’organizzazione siciliana che trovò finalmente un importante esito nella sentenza del maxi processo a Palermo. Sentenza che nelle sue motivazioni venne redatta in primo grado dal giudice a latere Pietro Grasso. Quel maxi processo, e la sua sentenza di Cassazione il 30 gennaio 1992 che confermò sul punto le conclusioni dei giudici di merito, per la prima volta, nel ’92, in presenza di un fenomeno che si manifestava in tutta la sua pericolosità già da 130 anni, sancì giudiziariamente l’esistenza, l’unitarietà e l’organizzazione di Cosa nostra in diverse articolazioni territoriali diffuse in Sicilia, in altre regioni d’Italia e con una presenza significativa nel continente americano. Non dimentichiamoci che le famiglie mafiose di Cosa nostra insediate negli Stati Uniti erano già protagoniste assolute della vita criminale, e perfino politica, in un certo senso fino dagli inizi del XX° secolo. Per la prima volta quella sentenza descrive quella caratteristica strutturale verticistica e piramidale di Cosa nostra facente capo all’organismo provinciale di Palermo e, solo per determinate scelte strategiche e di particolare importanza, a quella regionale.
La Commissione provinciale
Una struttura che, partendo dal basso, si connota per l’inserimento di ogni affiliato, definito originariamente uomo d’onore, in una articolazione territoriale ristretta denominata famiglia, normalmente composta da 15 o più affiliati; direttamente dal così detto rappresentante della famiglia.
L’insieme di più famiglie mafiose che operano nei territori geograficamente contigui compone il cosiddetto “mandamento”, la responsabilità del quale viene attribuita a un “capo mandamento”. Nel tempo in ragione di contingenze ed esigenze particolari il numero di mandamenti nelle estensioni territoriali di ciascuno di essi ha subito significativi cambiamenti. Nel periodo delle stragi mafiose, proprio per capire il radicamento territoriale dell’organizzazione, nella sola provincia di Palermo esistevano 13 mandamenti mafiosi. Ciascuno dei capi di quei mandamenti è di diritto membro della struttura di vertice, la commissione provinciale di Palermo. Quindi un’organizzazione complessa nella quale l’attribuzione delle competenze decisionali risponde a criteri essenzialmente connessi alla ordinarietà o straordinarietà delle scelte operative da adottare. Mentre normalmente l’attività delittuosa, cosiddetta ordinaria, viene programmata, organizzata e gestita da famiglie e mandamenti, esistono invece precise ed inderogabili riserve di competenza degli organismi di vertice. Ed infatti alla commissione provinciale di Palermo, e a quella regionale, oltre ad essere demandate le decisioni che riguardano l’eventuale insorgere di conflitti tra i vari “mandamenti” è devoluta, già in prima battuta, la competenza esclusiva per determinate questioni. Non solo i più grossi traffici di stupefacenti o la gestione di aree e appalti pubblici, ma anche le scelte strategiche di più ampio respiro quali quelle di tipo “politico” in funzione del sostegno ad una determinata fazione o comunque dell’orientamento e del condizionamento mafioso del voto. Quanto alla deliberazione degli omicidi, le commissioni provinciali e regionali di Cosa nostra, secondo regole consolidatesi nel tempo, hanno competenza esclusiva in merito ai delitti cosiddetti “eccellenti”, intendendosi per essi quelli nei confronti di importanti rappresentanti delle istituzioni o quelli che comunque, per ragioni di diverso tipo, sono prevedibilmente destinati a suscitare reazioni particolari. Anche con riferimento delle regole appena ricordate della competenza e la suddivisione interna delle competenze, deve evidenziarsi che la vera forza di Cosa nostra è stata sempre quella di muoversi nel rispetto delle regole ma sapendone variare le modalità applicative in ragione di contingenze e necessità particolari. Per esempio quelle legate al fenomeno del pentitismo mafioso che ha infranto l’intangibilità interna del segreto, quella connessa al progressivo affinamento della capacità e delle tecniche investigative. Qui l’organizzazione mafiosa ha sempre dimostrato la sua grande flessibilità, ha saputo mutare la sua pelle come un serpente adattandosi all’evoluzione del contesto esterno. Così, mentre fino alla fine degli anni ’80 la commissione provinciale di Palermo si riuniva periodicamente in forma plenaria, con la contestuale presenza nello stesso luogo di tutti i capi mandamento successivamente le modalità delle riunioni sono cambiate. Già all’inizio degli anni ’90 comprensibili ragioni di cautela indussero i “capi mandamento” a incontrarsi in gruppi più ristretti, venivano quindi organizzate sullo stesso argomento più riunioni e veniva affidato il necessario coordinamento al capo della commissione che, presenziando a ciascuna riunione, garantiva la circolazione delle informazioni e delle opinioni ed il perfezionamento della volontà collettiva. E’ con queste modalità, con le riunioni a “gruppetti” di 4 o 5 “capi mandamento”, che Riina perfezionò il volere della commissione di procedere con le stragi per le uccisioni dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Questi ultimi non dovevano essere uccisi attraverso la maniera considerata più facile dalle organizzazioni, ma con modalità clamorose, quelle delle stragi, per dimostrare a tutto il paese la potenza criminale di Cosa nostra e per intimidire lo Stato e indurlo ad alleggerire la sua pressione nei confronti dei mafiosi. La mafia ha sempre fatto politica, anche con i delitti. La volontà di incidere sulla politica dello Stato è sempre stata una caratteristica fondamentale soprattutto di Cosa Nostra. Le regole ci sono ancora e ancora oggi l’organizzazione mafiosa siciliana avverte la necessità di ricondurre determinate decisione esclusivamente al suo organismo di vertice, avverte il bisogno di comporre in un quadro unitario e coordinato le attività delle singole azioni territoriali. Vengono adottate ancora più rigorose cautele, alle cosiddette riunioni a “gruppetti” sono subentrate ormai negli ultimi 15 anni, nuovi modalità comunicative per garantire lo scambio informativo e la collegialità della decisione. Consistenti essenzialmente nell’utilizzo dei cosiddetti “pizzini”, messaggi scritti da affidare a corrieri sicuri e da distruggere nell’immediatezza della lettura da parte del destinatario finale, per evitare, quando non strettamente necessario, incontri diretti tra uomini d’onore. Se pensiamo alle loro modalità di concepire e procedere nell’organizzazione dei delitti, ci rendiamo conto di quanto siano spuntate le armi di una potenziale legislazione che si muova, per esempio, nel senso di restringere la possibilità delle intercettazioni telefoniche ambientali. Loro affinano le loro armi, noi non possiamo permetterci, pur nel rispetto delle garanzie di tutti i cittadini, di depotenziare gli strumenti più importanti ed efficaci che, assieme a quello della collaborazione con la giustizia degli ex mafiosi, ormai consistono soprattutto nelle captazioni delle loro conversazioni ormai non più telefoniche quanto di presenza. Per quanto riguarda l’elemento soggettivo del reato di associazione mafiosa punibile con il 416 bis, il mafioso è colui il quale si vuole associare nella consorteria, ne conosce le caratteristiche e finalità con particolare riguardo ai mezzi intimidatori della stessa connaturata.
L’affiliazione e le regole
L’associato è colui che vuole far parte dell’associazione e come tale viene accettato dagli altri affiliati. Nella storia di Cosa nostra quell’organizzazione mafiosa ha sempre privilegiato la regola della formalizzazione e ufficializzazione di ogni ingresso di nuovi affiliati. Ciò in funzione dell’avvertita necessità di garantire in un’associazione, che all’esterno deve conservare le caratteristiche della impermeabilità e della segretezza, la certezza e la coesione interna dei singoli affiliati. Obiettivo che presuppone la possibilità della reciproca conoscenza del loro status. Tradizionalmente l’ingresso nell’organizzazione avviene conforme a procedure rituali predeterminate, il nuovo affiliato alla presenza di altri uomini d’onore e mediante la presentazione di un padrino che ne garantisce l’affidabilità, opera un formale giuramento di fedeltà a Cosa nostra. Dopo essere stato “punciuto” con un ago fino alla fuoriuscita del sangue, tenendo in mano un’immagine religiosa di carta che viene bruciata promette la sua fedeltà all’organizzazione pronunciando la frase “la mia carne dovrà bruciare come questa immagine se un giorno dovessi tradire l’organizzazione”. E’ chiaro che particolari contingenze e le stesse ragioni di cautela che avevo esposto poc’anzi, hanno negli ultimi anni indotto, in alcuni frangenti, l’organizzazione ad adottare modalità diverse di affiliazione, ad evitare quelle del giuramento formale che comporta la necessità della presenza nello stesso luogo di più persone. Ma è altrettanto chiaro che anche oggi si avverte forte nell’organizzazione la necessità di tornare al rispetto delle vecchie regole più efficaci a determinare certezze nei rapporti interni e a rafforzare fin dall’inizio il senso di appartenenza e fedeltà fino alla morte che deve connotare ogni affiliato. L’ingresso nella famiglia è normalmente preceduto da un periodo di osservazione, che può essere anche relativamente lungo, da parte di uomini d’onore esperti e di sperimentata fedeltà. Di colui che vuole entrare a far parte dell’organizzazione devono essere prima valutate l’abilità, la serietà, la riservatezza e la capacità criminale. In questo periodo viene sottoposto a delle vere e proprie prove di affidabilità e coraggio che solitamente consistono anche nella partecipazione ad omicidio. Tutti gli uomini d’onore, anche quelli che ricoprono incarichi di più alto livello, devono essere comunque disponibili e capaci a partecipare personalmente alle esecuzioni di omicidi e altri gravi fatti di sangue. Non è raro il caso che l’esponente di vertice che rispetto ad un omicidio ha assunto la qualità di mandante e che ha a sua disposizione dei killer voglia partecipare materialmente all’esecuzione del delitto per sua espressa volontà, non perché ciò sia nettamente necessario ma perché in tal modo dimostrando la sua capacità di uomo d’azione accresce di più la sua autorevolezza all’interno di Cosa nostra. Dalla condizione di affiliato derivano obblighi di varia natura. La disponibilità assoluta e incondizionata, Cosa nostra viene prima di tutto. Alla affidabilità si aggiungono regole molto pressanti che in caso di violazioni, conseguono sanzioni immediate e severe in graduazione rispetto alla gravità o all’abitualità o alla mera casualità dell’azione. La sanzione più grave è quella dell’uccisione spesso preceduta da una sorta di interrogatorio dell’accusato per scoprirne eventuali complici o ispiratori. Nei casi ritenuti di minore entità l’uomo d’onore viene messo ai margini nelle condizioni di non potere più conoscere le dinamiche interne e esterne dell’organizzazione. Ma nella sua enorme complessità la storia di Cosa nostra dimostra che la violazione delle regole, anche le più importanti, sono state molte volte tollerate o addirittura utilizzate come strumento per eliminare nemici interni e capovolgere i rapporti di forza tra le diverse fazioni. In taluni occasioni per raggiungere finalità di natura strategica per l’intera organizzazione, in questi casi la violazione delle regole diventa “la regola”. Basta pensare ai contatti e ai rapporti diretti o indiretti di uomini d’onore, anche di rango, con esponenti delle forze di polizia o dei servizi di sicurezza per garantirsi vantaggi e protezioni in cambio di informazioni, magari rese su altri affiliati, spesso strumentali alla iniezione di ostacoli interni. O ancora basti pensare ai momenti storici in cui tale tipologia di rapporti è stata utilizzata dall’organizzazione per vere e proprie trattative con pezzi deviati delle istituzioni, finalizzate ad ottenere vantaggi strategici per l’organizzazione mafiosa. Questa violazione della regola, formalmente esistente, che vieta ad un uomo d’onore di avere qualsiasi tipo di rapporto con esponenti del mondo della magistratura, delle forze di polizia e dei servizi di sicurezza, che vieta qualsiasi uomo d’onore di fare delazioni che riguardino la vita della organizzazione. L’appartenenza a Cosa nostra si caratterizza per la sua tendenziale perpetuità, l’affiliato non può mai volontariamente recedere dall’impegno preso al momento della sua iniziazione, nemmeno allo stato di detenzione temporaneo o definitivo, fa venir meno la sua posizione all’interno dell’organizzazione. L’uomo d’onore ha ben chiaro un concetto fondamentale, quando si entra in Cosa nostra si può uscirne solamente al momento della morte oppure con un altro trauma, iniziando a collaborare con la giustizia, tradendo l’organizzazione e la sua fondamentale regola della segretezza e dell’omertà. Il recesso volontario non può che passare da una scelta così radicata. Come ho ricordato nella parte iniziale del mio intervento, Cosa nostra alimenta il suo potere ricorrendo, per raggiungere i suoi scopi più alti, al contributo di elementi esterni, formalmente estranei all’organizzazione. Il fenomeno è stato ben chiaro agli studiosi fin dal suo primo manifestarsi. Per molto tempo la tesi predominante affermava che non era possibile tenere condotte che materialmente e concretamente agevolino la vita e il funzionamento dell’associazione senza per ciò stesso rivestire la qualifica di partecipe.
Rapporto mafia-politica: il concorso esterno
A partire dalla meta degli anni ’80 è proprio per la prima iniziativa di Giovanni Falcone che si iniziò a ipotizzare, nell’inquadrare giuridicamente tali casi di complicità, una nuova figura di creazione giurisprudenziale, quella di concorso esterno in associazione di tipo mafioso. Ciò in base all’estensione e all’applicazione, al reato associativo, dei fondamentali principi giuridici del diritto penale sul concorso di persone nel reato. Fu proprio sulla base di quella intuizione di Giovanni Falcone che per la prima volta venne allora indagato, proprio per associazione mafiosa, Vito Ciancimino, un ex sindaco di Palermo che per lungo tempo e fino alle stragi del 1992 costituì il principale anello di congiunzione con la fazione corleonese di Cosa nostra e ambienti politici di grande rilievo in Sicilia e fuori dalla Sicilia. Negli anni successivi, l’intuizione sulla configurabilità del concorso esterno del pool di Palermo trovò un graduale riconoscimento e andò consolidandosi anche con importanti pronunce della Corte di Cassazione. Un primo fondamentale passaggio venne rappresentato da una sentenza delle sezioni unite della Corte di Cassazione, cosiddetta Demitri la n° 16 del 1994, che distinse chiaramente l’associato dal concorrente esterno. Il primo era colui che era stabilmente incardinato nell’organizzazione, intendeva far parte ed era come tale accettato dagli affiliati, mentre il concorrente non intendeva far parte dell’associazione non era riconosciuto come tale dagli affiliati ma forniva un contributo atipico e occasionale alle esistenze e al rafforzamento dell’associazione criminale in un momento di crisi della stessa organizzazione. Che quella sentenza definiva di “fibrillazione”, quel concorso cessava nel momento in cui la vita dell’associazione tornava alla normalità. Si determinarono ulteriori contrasti nella giurisprudenza fino ad arrivare ad un ulteriore pronuncia importante delle sezioni unite della Corte di Cassazione, la N° 22327 del 2003 cosiddetta “sentenza Carnevale” che ammise la configurabilità del concorso esterno in associazione mafiosa codificando il concorrente esterno come colui che, pur privo dell'”affectio societatis”, pur non volendo essere partecipe dell’organizzazione, forniva un contributo concreto, specifico, consapevole e volontario, a carattere occasionale e continuativo, dotato di effettiva rilevanza causale ai fini della conservazione e del rafforzamento dell’associazione o anche semplicemente di una sua articolazione. Sostanzialmente sulla stessa linea si pone l’ultima pronuncia delle sezioni unite della Cassazione, la “sentenza Mannino” del 2005 che ha specificato, rispetto a quelle precedenti, che la condotta deve fornire un contributo causale effettivo sul piano materiale essendo insufficiente una causalità psichica del cosiddetto rafforzamento dell’organizzazione criminale.
Nel periodo più recente, proprio negli ultimi anni, va dato conto di due significative pronunce della Corte di Cassazione in materia di Concorso esterno, entrambe riguardanti l’imputato Dell’Utri. La prima è la sentenza della Quinta sezione della cassazione nel 2012. La seconda quella della Prima sezione Penale della cassazione nel luglio del 2014 che hanno avuto il merito, rispettando i dettami delle precedenti sentenze, di porre accento su una sua ulteriore connotazione. Il suo carattere, intendo del concorso esterno, tendenzialmente permanente.
Secondo l’indirizzo citato, confermato dalla giurisprudenza successiva, il concorso esterno deve essere ricondotto alla categoria dei reati di durata. In particolare il concorrente esterno deve offrire all’organismo mafioso una disponibilità protratta nel tempo. Quello che mi preme sottolineare, e mi avvio alla conclusione, al di là dell’evoluzione giurisprudenziale è la decisiva importanza di colpire adeguatamente quelle manifestazioni criminali che pur non apparendo immediatamente riconducibili all’associazione mafiosa in realtà costituiscono la chiave d’accesso che le mafie utilizzano per condizionare a loro favore la politica e le attività di tutte le pubbliche amministrazioni. Con particolare riferimento a quanto avvenuto negli ultimi anni risulta sempre più consolidata una tendenza operativa delle nostre mafie della quale la legislazione nazionale ed internazionale dovrà necessariamente tenere conto. Qual è questa tendenza operativa? Le organizzazioni mafiose, forti di una disponibilità economica e finanziaria che ha raggiunto livelli assolutamente preoccupanti, per conseguire i loro obiettivi sempre più spesso rinunciano e non hanno necessità di ricorrere alla violenza e alla esplicita intimidazione e ricorrono alla corruzione di politici e funzionari di vario livello. Ciò in esito di una intelligente e approfondita analisi dei costi, dei benefici, dei rischi e delle varie opzioni. Ciò significa che la corruzione e gli altri delitti ad essa collegati, lungi dal costituire fenomeni criminali comuni completamente diversi dai fenomeni mafiosi, sono diventati abituali strumenti adoperati dalla criminalità organizzata che prima tradizionalmente invece rifuggiva da questo tipo di strumento. Sono diventati aspetti sempre più ordinari del nuovo metodo mafioso. Mafia e corruzione, ne sono convinto, sono due facce della stessa medaglia: aspetti operativi distinti, ma non diversi, di un sistema criminale integrato. Ecco perché oggi, nel doveroso contrasto ad una simile degenerazione delle nostre democrazie, credo sia più che mai necessario equiparare, in primo luogo a livello legislativo, gli strumenti di contrasto alla corruzione, ancora blandi e inadeguati, a quelli più efficaci già previsti, almeno in Italia, dalla legislazione antimafia. E’ solo con un’attenzione costante alla evoluzione dei fenomeni criminali, con la comprensione e la consapevolezza piena della grave minaccia che essi rappresentano per la libertà e la dignità di tutti cittadini, che ciascuno nel proprio ruolo può onorare la memoria di tante vittime di mafia che hanno sacrificato la propria vita per un ideale di giustizia e di verità.
Grazie.
27 Marzo 2019