di Gianni Barbacetto
È uscito di scena da sconfitto, a 86 anni, ed è un altro pezzo della storia italiana del capitalismo di relazione che se ne va. Salvatore Ligresti è stato un oscuro e misterioso scalatore del potere, poi il celebrato “re del mattone” della Milano da bere, il rispettato “Mister 5 per cento” della finanza, il solerte alleato di Mediobanca. Infine, girato il vento, è diventato il bersaglio di ogni attacco e di ogni disprezzo.
Don Totò arriva a Milano sul finire degli anni Cinquanta. Non ha alcun capitale, solo una laurea in ingegneria conquistata all’Università di Padova e una furbizia innata, un gran fiuto per gli affari. È siciliano, nato il 13 marzo 1932 a Paternò, in provincia di Catania. Ma è a Milano che consolida i rapporti che gli schiuderanno le porte del successo. Il suo primo maestro è Michelangelo Virgillito, suo compaesano, grande pirata e manovratore di Borsa nella Milano del “miracolo economico”.
Il secondo è Raffaele Ursini, l’uomo che eredita da Virgillito il gruppo Liquigas e lo porta al fallimento. Da loro Ligresti impara a muoversi da corsaro nel mondo della finanza e degli affari immobiliari. Da Michele Sindona rileva invece la Richard-Ginori, ormai povera di produzione ma ricca di aree industriali da dismettere e riempire di palazzi.
Il suo primo pacchetto d’azioni Sai lo eredita da Ursini. Più che un’eredità, sembra uno scippo: Ursini, dopo il crac, scappa in Brasile, lasciando il prezioso malloppo nelle mani del figlioccio. Era una “vendita simulata”, sostiene, ma non riuscirà più a ritornarne in possesso. A manovrare il passaggio del tesoro dai “perdenti” (Virgillito, Ursini, Sindona) a Ligresti è Antonino La Russa, senatore missino, padre di Ignazio, anch’egli di Paternò, che prende sotto tutela il giovane compaesano Totò. A lui passano le due misteriose finanziarie, la Finetna e la Premafin, che controllavano la Sai dopo la fuga di Ursini e che erano intestate ai sei fratelli Massimino, muratori catanesi diventati costruttori potentissimi.
Sarà per opacità come queste che a Milano, attorno a Ligresti, crescono subito leggende nere, che adombrano rapporti sotterranei con la mafia. La domanda che circola nei salotti buoni è: ma dove ha preso, questo signore, tutti quei soldi? Come ha potuto diventare padrone della Sai un uomo che nel 1978 dichiarava al fisco un reddito di soli 30 milioni di lire? Come ha fatto a diventare, in pochi anni, uno dei cinque uomini più ricchi d’Italia, uno dei pochi italiani presenti nelle classifiche di Forbes e Fortune?
Mentre i salotti s’interrogano, la polizia indaga sui suoi rapporti con i “cavalieri del lavoro” catanesi ritenuti vicini a Cosa nostra e l’allora giovane pm Piercamillo Davigo eredita da Roma un’inchiesta che si chiuderà dopo alcuni anni con un nulla di fatto. Nei Novanta, poi, Angelo Siino, l’imprenditore definito il “ministro dei lavori pubblici” di Cosa nostra, racconta che Ligresti aveva come diretto referente nientemeno che il boss catanese Nitto Santapaola. Senza riscontri, anche queste dichiarazioni rimangono lettera morta.
Intanto Milano scopre chi è Salvatore Ligresti nel 1986, quando scoppia lo scandalo delle “aree d’oro”, un primo anticipo di Tangentopoli: don Totò, amico di Bettino Craxi e in ottimi rapporti con il sindaco socialista Carlo Tognoli e l’assessore comunista Maurizio Mottini, aveva conquistato i due terzi delle edificazioni avviate dalla giunta Psi-Pci, a colpi di miracolose varianti al piano regolatore.
Costruttore, immobiliarista, è anche “Mister 5 per cento”, finanziere con in cassaforte tante piccole quote di società importanti, da Pirelli (5,4%) alla Cir di Carlo De Benedetti (5,2), dall’Italmobiliare di Giampiero Pesenti (5,8) all’Agricola Finanziaria di Raul Gardini (3,7).
La prima crisi arriva alla fine degli anni Ottanta. Palazzi invenduti, indebitamento netto di 1.150 miliardi di lire, una dozzina di volte il patrimonio netto della sua holding. Lo salva Enrico Cuccia, il presidente di Mediobanca che ha un debito nei suoi confronti: era stato don Salvatore a portare Bettino Craxi negli uffici di Mediobanca, stabilendo il primo contatto tra il leader socialista e Cuccia che fu prezioso per avviare, nel 1984, le operazioni di privatizzazione di Mediobanca sotto la regia dello stesso Cuccia.
Nel 1989 Mediobanca ricambia il favore inventando un salvataggio da brivido, la quotazione in Borsa della Premafin, valutata oltre 1.000 miliardi, sborsati dal mercato. Don Salvatore, come Cristo sul Golgota, cade e si rialza una prima volta. È ormai nell’orbita di Mediobanca, che lo utilizza e può tenere sotto controllo un suo piccolo, prezioso pacchetto azionario: quello di Euralux, finanziaria lussemburghese che controlla un fascio determinante di azioni Generali.
Cade una seconda volta sulla via di Mani pulite. Nel 1992 viene arrestato e passa 112 giorni in cella. È accusato di corruzione per aver comprato a suon di tangenti, per la sua società di costruzioni Grassetto, gli appalti della metropolitana milanese. Poi, nel 1993, di aver fatto ottenere alla Sai, con saporite mazzette, un superaccordo per gestire tutti i contratti assicurativi dell’Eni. Per questa vicenda arriva anche la prima condanna definitiva (2 anni e 4 mesi).
Si rialza ancora. Questa volta il buon centurione è il successore di Cuccia a Mediobanca, Vincenzo Maranghi. Nel 2002 gli fa comprare Fondiaria, grande compagnia d’assicurazioni fiorentina, per sottrarla all’orbita Fiat. Il prezzo è esorbitante, ma i soldi li cerca Mediobanca che fa diventare Ligresti l’assicuratore più importante d’Italia dopo i signori di Trieste delle Generali.
Don Salvatore si mette infine nella scia di Cesare Geronzi, che per un breve periodo si installa in Mediobanca e Generali. Scelta sbagliata, che lo avvia verso la disfatta. Ligresti aveva gestito Fonsai per un decennio come fosse un bene di famiglia, spolpandola via via fino a portarla al crollo. In un decennio Mediobanca aveva buttato ben 1,2 miliardi di euro in Fonsai. Ma a un certo punto il nuovo amministratore delegato di mediobanca, Alberto Nagel, chiude i rubinetti.
Impone un matrimonio e sceglie lo sposo: Carlo Cimbri. La sua Unipol, indebitata con Mediobanca, dalle nozze potrà uscire rigenerata. Nasce UnipolSai, fra inchieste giudiziarie a Milano e Torino e feroci polemiche sui concambi che penalizzano la compagnia di Ligresti. Ma ormai don Salvatore, utilizzato per decenni, dev’essere gettato in discarica. Nel 2013 finisce agli arresti domiciliari, mentre le sue figlie Jonella e Giulia sono rinchiuse in cella. Il suo tempo è finito. Ora la morte, il 15 maggio 2018, chiude definitivamente la sua vicenda. Una storia italiana.
Il suo primo amore, il mattone
Il suo primo amore era il mattone. Salvatore Ligresti, finanziere e assicuratore, si sentiva soprattutto costruttore e immobiliarista. Raccontò “il suo primo miliardo” nell’unica intervista della sua vita, nel 1986 al settimanale Il Mondo: “È una storia bellissima. Avevo saputo della possibilità di acquistare il diritto per costruire un sopralzo, in via Savona. Ma ci volevano 15 milioni e io ne avevo solo 5. Sono andato al Credito commerciale per chiedere un prestito e mi ha ricevuto il direttore generale, Mascherpa…”. I veri metodi dell’Ingegnere saranno poi scoperti da Mani pulite. Ma fino all’ultimo, Ligresti fu impegnato in grandi operazioni immobiliari a Milano, poi bloccate dal crac. Citylife sull’area della Fiera è passata a Generali; Porta Nuova a Manfredi Catella; il Cerba di Umberto Veronesi è abortito.
Il Fatto quotidiano, 17 maggio 2018