di: MARIO AVENA
40 anni dall’omicidio di Peppino Impastato. Un’altra vicenda che continua il suo tragico percorso giudiziario e costruita su clamorosi – e mai puniti – depistaggi di Stato. Come è successo e succede per il giallo di Alpi e Miran Hrovatin, e nei processi Borsellino (oggi arrivati al quater). Depistaggi in piena regola: nel caso Alpi è arrivata a sostenerlo e a scriverlo perfino la procura di Perugia, ma ciò fino ad oggi non è bastato per riaprire a Roma il processo.
Stesso copione nel caso Impastato e un manipolo di carabinieri impegnati nel più perfetto dei depistaggi. A capo dell’orchestra, l’allora maggiore e ora generale in pensione Antonio Subranni, il quale volle accreditare la pista del terrorismo (Giovanni sarebbe morto mentre stava preparando un attentato proprio il giorno dell’omicidio Moro), invece di quella chiaramente mafiosa, come solo dopo un estenuante calvario è stato dimostrato. Ad ammazzare il giovane cronista i picciotti del boss Gaetano Badalamenti.
Come mai Subranni coprì e depistò? Quel Subranni che Paolo Borsellino in uno degli ultimi colloqui con la moglie Agnese etichettò come “u punciutu”; quel Subranni ora condannato in primo grado per il processo sulla trattativa Stato-mafia.
Come si sono sempre giustificati Subranni e gli altri carabinieri di quel Ros che comandava? “Eravamo divorati dall’ansia di trovare il colpevole, c’era un clima storico particolare, di terrorismo”, la pezza a colori messa su. Proprio come per la strage di via D’Amelio e il pentito taroccato Vincenzo Scarantino: bisognava trovare un colpevole. O come nel giallo Alpi: sbatti quel somalo in galera, con la complicità di un altro super teste costruito a tavolino.
E proprio come per il duplice omicidio Alpi-Hrovatin, il pericolo più grosso è l’archiviazione tombale per via giudiziaria. A Roma c’è addirittura un pm (Elisabetta Ceniccola, spalleggiata dal procuratore capo Giuseppe Pignatone) che ha chiesto di metter fine al processo (nonostante la clamorosa sentenza di Perugia) e il gip si dovrà pronunciare a metà giugno.
In Sicilia, per fortuna c’è almeno un pm (Francesco Del Bene) che non rema contro e sottolinea: “Venne esclusa subito la causale mafiosa dell’omicidio, sottovalutando o non tenendo in nessuna considerazione la coraggiosa attività di controinformazione svolta dalla vittima in quel territorio gestito da uno degli esponenti più potenti dell’organizzazione mafiosa, come Gaetano Badalamenti”. Il quale poi nel 2002 è stato condannato all’ergastolo in quanto mandante per quell’omicidio. Sempre a volto coperto, invece, i mandanti politici: come del resto è successo per la strage di via Capaci.
Ora l’ultima parola sull’archiviazione spetta al gip.
Ma nella Impastato story c’è un altro giallo. Quello dell’archivio di Peppino, una montagna di carte, documenti e articoli volatilizzati. Afferma il fratello del giornalista, Giovanni Impastato: “La notte in cui fu ucciso Peppino, alcuni carabinieri infilarono tutto l’archivio di mio fratello dentro dei grandi sacchi neri e lo portarono via da casa nostra”.
Come mai di quell’archivio è sparita ogni traccia? Proprio come si è volatilizzata la famosa agenda rossa di Paolo Borsellino. E proprio come è sparito l’archivio da 3 mila nomi custodito nel covo di Totò Riina…
10 maggio 2018