Gli ultimi 30 anni passati a sorrento. È morto pochi giorni fa
Una vita al centro della Storia
Ingegnere, il lider maximo lo chiamava «Resuelvetodo»
Rinchiuso in un lager giapponese, insegnò ai maoisti a nuotare
PIANO DI SORRENTO (Napoli) —
Il ventaglio rosso di Yen Weichü è ancora lì, nella cristalliera. Con una stecca rotta — danno collaterale di settant’anni di storia — e quella dedica che lui traduceva dal cinese, sussurrando col magone: «In ricordo di Chalù». La foto grande del Lider Maximo sbuca da un cassettone, nella sala affacciata sul tramonto della penisola sorrentina tra mandarini e limoni, con due righe a penna retoriche come un inno: «Para Pagano, el mejor historiador filmico de nuestra revolucion. Fraternalmente, Fidel». Stipi e armadi traboccano di cimeli d’una vita che poteva contenerne comodamente dieci, qui a Villa Giulia, la casa di famiglia: lui con gli angolani dell’Mpla, nella Svezia di Olof Palme, a Shanghai tra i figli privilegiati della diplomazia anni Trenta, nella Pechino occupata dai giapponesi, prigioniero, fuggiasco, guerrigliero, ingegnere, regista, maestro, giornalista, mediatore tra mondi.
Ha avuto molti nomi in così tante vite, Gaetano Pagano di Melito, rampollo della nobiltà napoletana persuaso fino all’ultimo che la storia di ciascuno sia «la storia di tutti». I mongoli, coi quali visse un’avventura da adolescente scappando in moto attraverso la Grande muraglia, deformarono il suo cognome in Pan Chalù, fratello tra nomadi sotto la volta stellata. Lin Piao, mitico comandante dell’armata maoista, lo chiamava «Bianco Nato in Cina» e gli chiese di insegnare a nuotare ai compagni guerriglieri, contadini e montanari com’erano, perché «un guerrigliero deve saper fare tutto». Lui è morto pochi giorni fa, poco prima della fine del 2013, qui, nella stanza accanto, un pomeriggio di solitudine. Aveva 88 anni e da oltre venti s’era rinchiuso a Villa Giulia a contemplare il tramonto e a metabolizzare tutte le storie che gli avevano attraversato l’anima, dimenticato dai compaesani e, nell’ultimo periodo, anche da se stesso — la memoria ormai rosicchiata.
Un bravo cronista locale, Gegè Lorenzano, gli ha dedicato qualche rigo sul manifesto e su Positano news . Una professoressa delle medie, Chiara Bianca Maturo, ha lavorato cinque anni su una sua biografia tenera ed emozionante («Pan Chalù», appunto, «il destino di un uomo nel vento della storia»).
Ma è tutto. Non una commemorazione, un discorso pubblico, una cerimonia. Era schivo, dicono, non avrebbe voluto. Britt, terza di tre mogli, una svedese pervasa dal calore del nostro Sud, di 23 anni più giovane di Gaetano, tira fuori the verde, marmellate e un sorriso mite: «Alla fine era stanco, amareggiato. Ma, quando raccontava, sapeva raccontare e aveva da raccontare: e, alla fine, c’era sempre e solo lui». Michele, terzo di tre figli, trentenne che ha ereditato lo spirito dei Pagano di Melito e s’accinge a partire da ingegnere per il Camerun, dice che «papà è stato soprattutto ispirazione». Gli ripeteva che, almeno lui, prima o poi, avrebbe visto la «rivoluzione mondiale». E Michele un po’ deve crederci, se lo porta negli occhi. Gli occhi di chi sogna tutto d’un fiato sono un tratto di famiglia. Li aveva già nonno Gennaro, il padre di Gaetano, eroe di Buccari con D’Annunzio (che gli coniò davanti il motto memento audere semper ), sui Mas con Costanzo Ciano, il padre di Galeazzo: Ciano figlio, da ministro degli Esteri, spedì Gennaro in Cina come console, per sottrarlo alle grinfie del regime più occhiuto e ortodosso. Gaetano ci arrivò dodicenne, nel ‘37. Sicché deve cominciare da lì la storia di un italiano sempre puntuale agli appuntamenti con la Storia, con Mao nella Pechino liberata del ‘49, coi castristi a resistere nella Baia dei Porci del ‘61, con i terzomondisti nell’Africa degli anni Settanta. «Io sono di parte e la racconto così, basta essere chiari», diceva.
La natura romantica che lo rendeva simile a certi eroi di Conrad e Hemingway deve avergli impedito di assaggiare a fondo l’amarezza che condusse un ex comunista come Furet a raccontare il «Passato di un’illusione». Gaetano era uomo d’azione e doveva essere un comunista prepolitico, intriso di cristianesimo inconsapevole: «Nessuno ci inganna più con la favola della divina provvidenza, la provvidenza ce la faremo noi, perché l’uomo è un essere nel fondo meraviglioso», scrive un giorno alla madre, rigidamente cattolica. Sono parole d’amore. Perché, in fondo, Gaetano proprio per amore trova la passione politica. A Pechino, con la sua bella compagna di scuola Yen Weichü, si baciano la prima volta, come sempre fanno i ragazzini, in un giorno di fuga dalle lezioni, tra le mura del Tempio del Cielo. Alla sera però Yen recita a teatro e, cantando, manda messaggi in codice ai giovani comunisti cinesi che resistono contro l’occupazione giapponese. L’idea di poter saldare «il conto di fame e di morte che si doveva a innumerevoli milioni di bambini denutriti, svestiti e senza scuola» deve trovare lì, tra i compagni del teatro Tingchao, la prima scintilla. Il resto, come capita, è anche caso e talvolta voglia di farla pagare. Caduto Ciano, suo padre viene denunciato ai giapponesi da due spie fasciste, prelevato davanti a lui e a sua madre. Il suo cadavere recherà i segni della tortura. Gaetano rischia la stessa sorte: chiuso in un lager giapponese alle porte di Pechino, scappa quando la resistenza attacca il treno che lo sta portando a morire di lavori forzati nelle miniere della Manciuria.
Ancora ragazzino, con papà Gennaro, guardava dalla legazione di Pechino i fuochi sulle montagne, accesi dalla resistenza per dare speranza al popolo. Ora è in mezzo a quei fuochi, e al comandante del Quarto esercito di Lin Piao che lo esamina, spiega, in ottimo cinese: «Voglio combattere con voi contro chi ha assassinato mio padre». Il primo giapponese che ammazza è un cecchino. «Nessun rimorso, gli aveva appena ucciso un compagno mentre fumava, puntando la brace della sigaretta», racconta adesso Michele. Ma quel «Bianco Nato in Cina», che partecipa alle azioni con coraggio da figlio del popolo, diventerà presto un mito. Castro lo conosce in Messico e lo accoglie a Cuba a braccia aperte. Gaetano resta otto anni accanto a Carlos Rafael, luogotenente di Fidel, e, coi suoi studi da ingegnere navale, mette in piedi la flotta di pescherecci castrista. Il Lider comincia a chiamarlo El Resuelvetodo . E lui, solo lui, vorrà molti anni dopo, per celebrarsi in un’intervista che Gaetano gira per la tv della Svezia socialdemocratica e sarà venduta in 72 Paesi. Titolo senza bisogno di traduzioni: La historia me absolverà… Per un uomo di passioni, c’è sempre una lotta che aspetta. Vengono i giorni dell’Angola, i filmati di Agostinho Neto che recita Havemos de Voltar con la sua voce da incantatore. La denuncia della strage di Kassinga, che finisce dritta alle Nazioni Unite.
L’idea di essere seguiti, spiati per le lotte anti apartheid, nella Svezia dove Olof Palme muore ammazzato: quando gli anni passano e i sogni sfioriscono, la prudenza può diventare paranoia, la convinzione ossessione. «Io mi sono innamorata dell’uomo che scrisse quella lettera sulla provvidenza divina e umana. Ma lui dopo due minuti si prendeva tutto il territorio», sospira adesso Britt, con un rimprovero non celato. Persino Villa Giulia diventa troppo piccola per contenere tanto passato. «I nostri figli si scambieranno l’abbraccio vero della fratellanza… questa è la carità vera, nella visione che ci diede il vero Cristo», scriveva Gaetano. Nel secolo che ha attraversato cavalcando, non è andata così. Ma forse Pan Chalù s’è addormentato senza più saperlo.
11 gennaio 2014