Si riconferma il nostro parere su l’inFausto personaggio che se, oggi, ci fosse il comunismo lo manderebbe a lavorare davvero…
MOWA
-Redazione-«Fausto», «Juliàn». L’ultima volta che si sono chiamati per nome, senza titoli, in pubblico, è stato ad Imola, nel museo attaccato all’autodromo.
Ma pochi giorni prima, il 7 aprile, Bertinotti e don Carròn si erano “sfidati” in una cattedrale («riempita all’inverosimile», scrivevano i giornali), quella di Cremona.
Nei mesi scorsi il presidente emerito e il prete si erano incrociati a Milano e a Roma.
Fausto Bertinotti, già sindacalista, poi leader di Rifondazione comunista e poi – prima di uscire di scena e dal Parlamento – presidente della Camera, dialoga da tempo con un mondo che un tempo fu lontano dal suo, quello di Comunione e liberazione.
Invitato speciale al Meeting di Rimini già quache anno fa, sta girando molte città per presentare “La bellezza disarmata” (ed. Rizzoli) scritto dall’erede di don Luigi Giussani a capo del movimento ecclesiale.
Bertinotti, da sempre intellettuale raffinato, ha appena dato alle stampe “Rosso di sera”, volume in cui indaga sulla «fine della socialdemocrazia» in Europa e nel mondo. Nell’ultima – recente – presentazione non lamentava nemmeno più questa svolta epocale, ma ammetteva di sentire «nostalgia» per una «comunità di donne e uomini che possiamo chiamare il popolo del movimento operaio».