by Federico Dezzani
Incombono le presidenziali che decideranno chi, tra la democratica Hillary Clinton ed il repubblicano Donald Trump, siederà nello studio ovale per i prossimi quattro anni: per la prima volta da decenni, la diversità tra i due sfidanti è sostanziale. Hillary Clinton è la rappresentate di quell’establishment liberal e basato sull’asse finanziario Londra-New York, che dai tempi del presidente Woodrow Wilson è paladino dell’interventismo e della globalizzazione economica. Donald Trump, al contrario, appartiene a quel filone isolazionista che affiora come un fiume carsico nel partito repubblicano: la sua vittoria è l’ultima occasione per evitare che il confronto tra gli Stati Uniti e le potenze emergenti degeneri in un’escalation militare.
Democratici, il partito dell’interventismo
Si avvicinano le elezioni negli Stati Uniti e, per la prima volta da decenni, la sfida tra la democratica Hillary Clinton ed il repubblicano Donald Trump non è soltanto un pro forma, utile a regalare all’opinione pubblica la speranza del cambiamento e l’ebrezza del voto.
Il sospetto che la dialettica repubblicani-democratici serva soltanto a garantire una parvenza di democrazia è, in effetti, fondato, specialmente dopo l’avvicendamento di Barack Hussein Obama, e George W. Bush: all’indomani dell’11 Settembre un attonito generale Wesley Clarck sente dirsi che gli Stati Uniti entreranno in guerra con sette Paesi (Iraq, Siria, Libano, Libia, Somalia, Sudan ed Iran) ed a distanza di dieci anni si scopre che quelli risparmiati da Bush, finiscono nel mirino di Obama attraverso la Primavera Araba e lo Stato Islamico. Già, il Califfato: l’entità sunnita che avrebbe dovuto installarsi nel cuore del Levante balcanizzato, proprio come nei piani concepiti dai neocon nei lontani anni ’90. Certo, forse Bush avrebbe bombardato la Siria nel 2013 e rifiutato di firmare un accordo sul nucleare civile con l’Iran, ma Obama ha perseguito in fondo gli stessi interessi con mezzi diversi, fomentando la guerra tra sunniti e sciiti e forgiando l’ISIS.
Che dire dell’economia? La bolla dei mutui spazzatura esplode nell’ultimo scorcio dell’amministrazione Bush ed è il governatore della Federal Reserve scelto in epoca repubblicana, Ben Bernanke, l’uomo cui si affida Barack Obama per tirare l’economia fuori dalle secche della crisi. Come? Mandando in bolla i mercati finanziari con la politica dei tassi a zero, così da “generare sicurezza tra gli investitori ad alimentari i consumi”: poco importa se i principali beneficiari dell’operazione sono quelle stesse banche che hanno inondato il mercato di prodotti finanziari infetti. Dopotutto tra i principali finanziatori della campagna elettorale di Obama figuravano JP Morgan e Goldman Sachs: già, Goldman Sachs, ai cui vertici aveva seduto Henry Paulson, il Segretario del Tesoro che gestisce il fallimento di Lehman Brothers sotto la presidenza di George Bush. E così via, in una costante serie di rimandi, quasi che l’amministrazione democratica avesse ricevuto il testimone direttamente da quella repubblicana.
Qualcuno farà giustamente notare: è risaputo che la “democrazia” (come, peraltro, qualsiasi altro regime) è concepita per preservare gli interessi della classe dirigente ed è inutile aspettarsi profonde fratture.
Le elezioni americane del 2016 potrebbero rappresentare un’eccezione sotto questo aspetto: dopotutto anche la storia evolve. Ci deve essere qualche ragione se tutto l’establishment americano, compreso il clan Bush ed i maggiori esponenti neo-conservatori (lo storico Robert Kagan, l’ex-direttore della CIA Robert Gates e qualsiasi altra figura sensibile agli affari esteri) si siano espressi a favore di Hillary Clinton. Qualche lato di Donald Trump deve essere avvertito come una vera minaccia, e non sono di certo le battute salaci. Nessuno, a questo proposito, è stato più chiaro dell’ex-direttore della CIA, Robert Gates, che, intervistato dal Wall Street Journal, ha dichiarato 1 :
“Trump è irrecuperabile. Si ostina a non voler sapere nulla del mondo e di come guidare il nostro Paese e il governo, ed è caratterialmente inadatto a guidare donne e uomini in uniforme. Non è qualificato ed è inadatto a essere commander-in-chief.”
Un candidato che non voglia sapere nulla del mondo esterno è perfettamente idoneo a guidare gli USA (e non sarebbe il primo), purché la sua agenda sia tutta incentrata sulla politica interna e releghi gli affari esteri in secondo piano. Così facendo, Donald Trump riallaccerebbe semplicemente i fili con una tradizione che risale alle origini degli Stati Uniti.
Fu un approccio a lungo adottato grazie alla natura “insulare” degli USA e che trovò proprio tra le fila del partito repubblicano i maggiori sostenitori per tutta la prima metà del Novecento e persino nell’immediato dopoguerra, quando i sovietici erano ancora “alleati”. Furono i cosiddetti “isolazionisti” che ebbero nel senatore Robert Taft (1889-1953) il loro indiscusso campione: più di una volta Robert Taft cercò di conquistare la candidatura repubblicana alla Casa Bianca, schierandosi ora contro l’ingresso degli USA nella Seconda Guerra Mondiale, ora contro la NATO, ora contro la guerra in Corea, ora contro qualsiasi provocazione che deteriorasse i rapporti con Mosca.
Essendo ancora fresca la memoria di George W. Bush e delle sue disastrose campagne mediorientali, si è incline a considerare il partito repubblicano come il paladino degli interventi militari e dell’ingerenza negli Stati terzi. La famiglia Bush, spesso identificata con il partito repubblicano benché abbia caratteristiche più simili all’establishment liberal (Bush Senior è il rampollo di una ricca famiglia dell’East Coast, educato a Yale e fattosi le ossa come ambasciatore all’ONU), è in realtà un’eccezione.
La storia dice esattamente l’opposto: democratico fu il presidente Woodrow Wilson che portò in guerra gli Stati Uniti nel 1917, democratico fu il presidente Franklin Delano Roosevelt che fece lo stesso nel 1942, democratico fu lo scialbo Harry Truman che sganciò le atomiche sul Giappone e diede il nome all’omonima dottrina per il “contenimento” degli ex-alleati sovietici, democratico fu Lyndon Johnson cui si deve l’escalation in Vietnam, democratico fu Jimmy Carter che strinse l’alleanza con l’islam radicale in chiave anti-russa (vedi invasione dell’Afghanistan), democratico fu infine Bill Clinton, grazie a cui per la prima volta dal 1945 i bombardieri tornarono in azione nei cieli d’Europa (vedi guerra in Bosnia e Kosovo) e sotto cui nacque Al Qaida (attentati alle ambasciate di Tanzania e Kenya del 1998) che avrebbe poi “sferrato l’attacco” dell’11 Settembre. Nulla fu l’opposizione democratica all’invasione dell’Afghanistan nel 2001 (una riproposizione delle guerra afghane dell’Ottocento con cui l’impero britannico cercò di incunearsi in Asia centrale in chiave anti-russa) e molto modesta a quell’Iraq nel 2003, tanto che Hillary Clinton si espresse a favore.
Tanto il partito democratico tende verso l’interventismo militare, quanto il partito repubblicano (depurato dal clan Bush), tende a ripiegarsi nei confini americani e a cercare un modus vivendi con l’esterno: furono i repubblicani i più convinti assertori del protezionismo che consentì agli USA di industrializzarsi, fu il repubblicano Warren G. Harding che nel primo dopoguerra si espresse contro l’ingresso degli Stati Uniti nella nascente Società delle Nazioni (primo abbozzo massonico di governo mondiale, cui seguì l’ONU), fu il repubblicano Richard Nixon a compiere nel 1972 lo storico viaggio a Mosca che sancì la coesistenza pacifica tra i due blocchi, fu il repubblicano Ronald Reagan che nel 1985 inaugurò la stagione del disgelo incontrandosi a Ginevra con Gorbacev.
La spiegazione del fenomeno va ricercata nella natura stessa del partito repubblicano: essendo il “Grand Old Party”, quanto di più simile esiste negli Stati Uniti ad una formazione nazionalista (l’elettore medio è bianco e vive negli Stati centrali), tende ad adottare una realpolitik, se un isolazionismo tout court, che consenta di non disperdere preziose energie al di fuori del Paese e godersi lo “splendido isolamento” degli Oceani.
Il partito democratico, al contrario, radicato tra le minoranze (ebrei, ispanici ed afroamericani) e negli Stati che affacciano sull’Atlantico, è una formazione progressista ed animata da sentimenti umanitari, caratteristica che lo rende più permeabile a quei circoli dell’alta finanza cosmopolita, che vivono sull’asse Londra-New York e posseggono anch’essi di un’agenda liberal di portata mondiale, non sempre in sintonia con quelli che sarebbero gli interessi statunitensi.
Facciamo qualche utile esempio: nell’immediato dopoguerra il principale sostenitore di un’Europa federale, tema caro alla finanza internazionale sin dagli anni ’20, è il senatore democratico James William Fulbright (1905-1995). Il presidente che caldeggia l’ingresso della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio, decisione che velocizza la scomparsa dei colletti blu americani a tutto vantaggio del grande capitale, è il democratico Bill Clinton. È sempre Clinton che nel 1999 regala a Wall Street l’abolizione dello Glass-Steagall Act, la norma introdotta nel 1933 che, imponendo la separazione tra banca d’investimento e banca commerciale, avrebbe potuto contenere la crisi dei mutui spazzatura. È il democratico Barack Obama che introduce in America i matrimoni omosessuali ed allarga le assicurazioni dei dipendenti ai contraccettivi ed all’aborto, secondo la logica malthusiana che anima la cricca di George Soros.
Radicato negli Stati che affacciano sull’Atlantico ed animato da ideali “progressisti”, il partito democratico è il prediletto di quell’establishment angloamericano, elitario e sfornato dalle più prestigiose università inglesi ed americane, che ha progressivamente preso il controllo del Dipartimento di Stato americano e conduce spesso la propria politica estera, spesso indipendentemente da chi siede alla Casa Bianca: sono gli eletti che si riuniscono a Londra alla Chatham House ed a New York al Council on Foreign Relations, controllando testate come il New York Times, il Financial Times, The Economist, TIME, etc. etc. È l’establishment del “Nuovo Ordine Mondiale” e della globalizzazione sfrenata, lo stesso che oggi si indigna per la rivolta della classe media che, dopo anni di impoverimento, vota per i “partiti populisti”.
È anche l’establishment che, in piena continuità impero britannico, si contraddistingue per due peculiarità: la simpatia per l’islam politico (la Fratellanza Mussulmana e l’estremismo sunnita) e l’avversione alla Russia, considerata una minaccia strategica agli interessi angloamericani in Europa e Medio Oriente. Il partito democratico è in sostanza quello più incline ad agire secondo la volontà di una ristretta minoranza anglofona ma non “yankee”, che nulla ha che fare gli interessi prettamente statunitensi: che vantaggio hanno avuto gli elettori americani dalla guerra in Kosovo voluta da Clinton, o dal cambio di regime operato in Libia da Barack Obama?
Questo è lo schema in cui va inquadrato lo scontro tra Hillary Clinton e Donald Trump: globalizzazione versus protezionismo, interventismo versus isolazionismo, élite cosmopolita versus “nazionalisti” statunitensi.
Trump, l’uomo che smantellerà l’impero
L’impero angloamericano ha raggiunto un stato di decadenza così avanzato da rendere necessarie scelte drastiche: o un drastico ridimensionamento (lasciando che il vuoto sia colmato da altri) o una guerra preventiva contro le potenze emergenti (Russia, Iran e Cina). Trump è il candidato della prima opzione, la Clinton della seconda, e ciò spiega perché sia confluita verso la candidata democratica anche una parte importante della nomenclatura repubblicana.
L’intenzione di Donald Trump di voler sforbiciare gli impegni degli USA all’estero è inequivocabile.
“L’alleanza” col Giappone e la Corea del Sud? Troppo onerosa e manca l’impegno alla reciproca difesa: le basi militari andrebbero chiuse a meno che Tokyo e Seul non ne coprano una parte consistente dei costi. Anzi, un Giappone senza l’ombrello nucleare americano e dotato di atomiche proprie, sarebbe ancora meglio 2. Il dittatore nordcoreano Kim Jong Un? Si potrebbe invitarlo alla Casa Bianca per negoziati, ma è meglio passare la patata bollente dell’atomica nordcoreana direttamente alla Cina. I Paesi Baltici? L’impegno della NATO a difenderli in caso di ostilità con la Russia non è automatico: anzi la stessa organizzazione Nord Atlantica comporta ormai “tremendous cost” 3 (il giornalista del New York Times che ha raccolto questi pensieri di Trump ha probabilmente rischiato l’infarto). La Turchia? Erdogan è da ammirare per come s’è le cavata col colpo di Stato (“I give great credit to him for being able to turn that around”) e non bisogna impuntarsi sui diritti civili, perché anche gli USA hanno enormi problemi di sicurezza. L’Egitto? Il presidente egiziano Al-Sisi è un “fantastic guy” ed incontrandolo Trump ha percepito un “good feeling” (la banda di Amensty International e Repubblica deve essere inorridita).
Ma è ovviamente la Siria il dossier più scottante: qui Trump ribalta di 180 gradi la politica sinora sostenuta dall’amministrazione di Barack e da Israele per rovesciare Bashar Assad, basata sul sostegno all’ISIS e sulla fornitura di armi sempre più sofisticate ai gruppi islamisti. “Assad is bad. Maybe these people could be worse”, “Assad è male. Forse gli altri sono peggio”, ha affermato candidamente Trump, negli stessi giorni in cui i media imbastivano la campagna di Aleppo “nuova Sarajevo” che, in caso di vittoria di Hillary Clinton, spianerebbe la strada all’intervento militare.
Sforbiciato l’impero e ridotte le spese militari, si liberebbero finalmente quelle risorse per ricostruire gli Stati Uniti che, secondo Trump ed i dati statistici lo confermano, stanno letteralmente cadendo a pezzi in termini di infrastrutture. L’adozione di una serie di misure protezionistiche mettere poi il manifatturiero al riparo dalla concorrenza internazionale, generando occupazione e redditi per la classe media che, dopo aver costituito la spina dorsale degli USA, rischia oggi l’estinzione: è questo il nocciolo “dell’America first”, chiaramente espresso da Trump in un’intervista al Washington Post:
“We have no money for education, because we can’t build in our own country. And at what point do you say hey, we have to take care of ourselves. So, you know, I know the outer world exists and I’ll be very cognizant of that but at the same time, our country is disintegrating, large sections of it, especially in the inner cities.”
Il discorso è diametralmente opposto per Hillary Clinton, la cui azione sarebbe completamente assorbita dalla politica estera, portando alle estreme conseguenze la politica di ostilità contro la Russia e la Cina: si tratterebbe, sfruttando come casus belli la Siria, di quella guerra preventiva (cui dedicheremo uno dei prossimi articoli) con cui l’impero angloamericano declinante affronterebbe in campo aperto gli sfidanti, finché ha ancora le capacità di vincere un conflitto convenzionale.
Già, la Russia. Hillary Clinton, da vera esponente di quell’establishment liberal, è per natura allergica a Mosca, o perlomeno ad una Mosca che esprima come oggi una politica estera indipendente, ponendosi in diretta concorrenza agli angloamericani in Europa ed in Medio Oriente: il peggior incubo geopolitico per Londra e Washington, reso oggi possibile dall’assenza di una barriera ideologica come il comunismo, è che si crei un asse tra Mosca e le cancellerie occidentali (già lo zar Paolo I fu assassinato per mano inglese a causa delle sue simpatie per Napoleone).
All’inizio del fatidico 2011, quando Hillary Clinton siede ai vertici del Dipartimento di Stato ed il Mediterraneo è già in subbuglio per le cosiddetta “Primavera Araba”, è sferrato un primo attacco: il 24 gennaio una bomba di matrice islamista esplode all‘aeroporto moscovita di Domodedovo, uccidendo 37 persone. Trascorrono pochi mesi e si replica: due lupi solitari piazzano nella metropolitana di Minsk un ordigno che deflagra l’11 aprile, uccidendo 15 persone. Nell’autunno, quando mancano ormai pochi mesi alle presidenziali cui Vladimir Putin si è ricandidato, c’è il salto di qualità, tentando la classica rivoluzione colorata: decine di migliaia di persone sfilano nella strade di Mosca, gridando slogan contro Putin. L’interessato non ha dubbi: a fomentare i disordini è stata Hillary Rodham Clinton, che ha “attivato” il suo personale in Russia 4.
Gli anni trascorsi lontani dalla Casa Bianca non hanno minimamente smorzato l’acredine. Quando a luglio appaiono sul sito Wikileaks le imbarazzanti email sottratte al Comitato nazionale dei democratici, la Clinton attacca senza esitazione: “Sappiamo che sono stati i servizi segreti russi e sappiamo che hanno organizzato anche la diffusione di quelle mail”. 5
Il braccio di ferro in Siria non ha sicuramente giovato a migliorare i rapporti tra la Clinton e Putin. Più volte abbiamo sottolineato nelle nostre analisi come la “Primavera Araba” che esplode nei primi mesi del 2011, quando Barack Hussein Obama siede alla Casa Bianca e Hillary Clinton al Dipartimento di Stato, non fosse altro che la riproposizione in salsa mediorientale delle solite rivoluzioni colorate della rete Otpor!/CANVAS/CIA. Dove l’apparato di sicurezza è controllato dagli angloamericani (Egitto e Tunisia), il cambio di regime è dolce, mentre dove l’apparato militare oppone resistenza (Libia e Siria) si interviene con i bombardamenti NATO o le operazioni sporche della CIA. Le operazioni non filano però sempre senza intoppi: nel settembre del 2012 l’ambasciatore (agente CIA?) Christopher Stevens, che supervisiona il trasferimento dei missili anticarro dalla Libia alla Siria attraverso navi turche 6, è ucciso in un assalto al consolato americano di Bengasi, generando non poco imbarazzo per il Dipartimento di Stato e la Clinton.
L’obbiettivo delle Primavere Arabe non è quello di traghettare i Paesi Arabi verso la democrazia, bensì quello di portare al governo l’intollerante ed oscurantista islam politico della Fratellanza Mussulmana, così da fomentare gli odi religiosi e precipitare nel caos la regione: non avendo più le forze per esercitare un controllo diretto, gli angloamericani scelgono di lasciarsi alle spalle terra bruciata, con il beneplacito di Israele che ha solo da guadagnare da una lotta fratricida tra arabi. Una delle innumerevoli email di Hillary Clinton disponibili su Wikileaks, datata luglio 2012, è particolarmente preziosa perché descrive esplicitamente la strategia, tesa a fomentare una guerra settaria tra sciiti ed estremisti sunniti 7:
“If the Assad regime topples, Iran would lose its only ally in the Middle East and would be isolated. At the same time, the fall of the House of Assad could well ignite a sectarian war between the Shiites and the majority Sunnis of the region drawing in Iran, which, in the view of Israeli commaders would not be a bad thing for Israel and its Western allies. In the opinion of this individual, such a scenario would distract and might obstruct Iran from its nuclear activities for a good deal of time. In addition, certain senior Israeli intelligence analysts believe that this turn of events may even prove to be a factor in the eventual fall of the current government of Iran.”
Si potrebbe credere che Hillary Clinton mantenga i rapporti con la Fratellanza Mussulmana attraverso il Dipartimento di Stato e la CIA, oppure avvalendosi dei servizi segreti inglesi che sono i massimi conoscitori di estremismo sunnita (avendolo già impiegato ai tempi dell’impero britannico, ora contro i nazionalisti egiziani, ora per installare i Saud alla guida dell’Arabia Saudita). Invece, c’è un filo diretto che unisce la Clinton alla Fratellanza: una delle sue assistenti più intime è la mussulmana Huma Abedin, il cui fratello, Hassan Abedin, lavora presso l’Oxford Center for Islamic Studies 8, a sua volta strettamente collegato all’università egiziana Al-Azhar, culla della Fratellanza Mussulmana.
Russofoba e filoislamista, Hillary Clinton avrebbe potuto essere un ottimo funzionario dell’impero britannico ai tempi della regina Vittoria: è invece la candidata alle imminenti presidenziali statunitensi in una congiuntura internazionale critica. Non resta che sperare nella vittoria del “nazionalista” ed “isolazionista” Donald Trump che, anteponendo gli interessi del popolo americano a quelli di una ristretta oligarchia, può scongiurare il peggio.