di Antonella Grippo
Ancor oggi è vivo nella memoria del Sud un senso di sfruttamento e oppressione che affonda le sue radici in un tempo preciso. Un tempo in cui si vedevano gabbie con teste mozzate di briganti fare da monito a chi intendesse percorrere la strada ardua e pericolosa della rivolta. Un tempo in cui si snidavano uomini come topi, incendiando boschi e villaggi, per poi tenerli in posa, dritti per i capelli. Un tempo in cui si picchiavano e si violentavano donne per poi fotografarle nude a terra senza rimorso, senza pietà. Forse, nella solitudine del carcere, Antonio Gramsci ha pensato a quegli uomini e a quelle donne e quelle immagini sono diventate parole che si sono aggiunte nei suoi Quaderni dal carcere a quelle scritte nel testo del ‘26 rimasto incompiuto Temi sulla quistione meridionale.
Parole su una “rivoluzione mancata”, parole su una “colonizzazione” forzata, parole su quella che per lui e, grazie a lui, divenne appunto la “quistione meridionale”.
Riflessioni tradotte in praxis rivoluzionaria, in azione politica, in grado di indicare una strada al Partito Comunista d’Italia – di cui, nel 1921, fu tra i fondatori – una strada che fosse in grado di abbattere la vulgata tradizionalmente presente nel pensiero di fine Ottocento che vedeva il Sud come palla al piede dell’economia italiana e del suo sviluppo capitalistico e che, al contrario, riconoscesse l’inscindibile intreccio tra questione meridionale e questione nazionale, tra campagna e città, tra Sud e Nord come si legge in una sequenza fondamentale tratta dai Temi sulla quistione meridionale: “gli operai spezzeranno tutte le catene che tengono avvinghiato il contadino alla sua miseria […] avendo in mano le industrie e le banche, il proletariato rivolgerà l’enorme potenza dell’organizzazione statale per sostenere i contadini nella loro lotta contro i proprietari, contro la natura, contro la miseria […] perché è suo interesse avere e conservare la solidarietà delle masse contadine, perché è suo interesse rivolgere la produzione industriale a lavoro utile di pace e di fratellanza fra città e campagna, fra Settentrione e Mezzogiorno”. In un’ottica non dicotomica e contrappositiva ma solidaristica.
L’idea che guidò questa speculazione gramsciana affonda le sue radici nel risorgimento e nella modalità di realizzazione del processo unitario. Il risorgimento era fallito per un vulnus di fondo, identificato dal filosofo nel mancato coinvolgimento delle masse contadine e per l’assenza di una rivoluzione agraria a supporto dello sforzo nazionale operato dalla sola componente borghese della società. Una élite intellettuale che era riuscita a dar corpo solo ad una “rivoluzione passiva” – concetto mutuato da Vincenzo Cuoco nella sua analisi della rivoluzione napoletana del 1799 – una rivoluzione moderata che, dunque, non poteva essere né dirsi rivoluzione perché non aveva saputo coinvolgere attivamente le masse contadine. Acutamente Gramsci definì lo Stato italiano come una “feroce dittatura” che aveva “messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole crocifiggendo, squartando, seppellendo vivi i contadini poveri che gli scrittori sardi tentarono di infamare con il marchio di briganti”. La piemontesizzazione forzata della penisola assunse dunque, i colori del sangue: Garibaldi sbarcato in Sicilia – anche grazie all’aiuto di quel partito della borghesia che era ed è la massoneria, in particolare quella inglese – in un primo tempo distribuì le terre demaniali ai contadini ma, subito dopo, represse con la forza le legittime istanze di quella stessa classe contadina contro i latifondisti. Ed ecco mostrarsi il moderatismo ideologico della “rivoluzione passiva” di cui parlavamo prima a cui mancò il legame con la massa rurale, con i suoi bisogni e le legittime rivendicazioni mentre invece i capitalisti del Nord e i latifondisti del sud riuscirono a raggiungere un compromesso.
Compromesso che danneggiò irrimediabilmente l’economia dell’ex Regno delle Due Sicilie iniziando un drenaggio di risorse continuo e irreversibile: “il Nord concretamente era una piovra che si arricchiva alle spese del Sud e il suo incremento economico–industriale era in rapporto diretto con l’impoverimento dell’economia e dell’agricoltura meridionali”.
In altre parole, il sottosviluppo del Sud era condizione necessaria per lo sviluppo del Nord e, da ciò, emerge chiaramente che a guidare tutto il complesso ragionamento gramsciano sulla questione meridionale è una cifra interpretativa di fondo, a cui abbiamo accennato precedentemente: non si può affrontare né, a maggior ragione, risolvere la questione in termini meramente localistici ma solo ubicandola in un’ottica e in una visione nazionale. La questione meridionale è parte di un puzzle articolato, non tessera in sé ma che si incastra in un quadro nazionale e potrà essere risolta solo se inquadrata in questa sua giusta collocazione. Scrive il filosofo comunista: “la borghesia settentrionale ha soggiogato l’Italia meridionale e le isole, e le ha ridotte a colonie di sfruttamento; il proletariato settentrionale, emancipando se stesso dalla schiavitù capitalistica, emanciperà le masse contadine meridionali asservite alla banca e all’industrialismo parassitario del Settentrione”.
Simul stabunt vel simul cadent, proletariato operaio e masse contadine sono chiamati a lottare insieme per conquistare l’egemonia e questa lotta di classe è il motore della storia.
Ma, l’egemonia del proletariato trova un altro ostacolo particolarmente grave da superare, e arriviamo così ad affrontare un’ultima riflessione per concludere questa breve disamina del pensiero gramsciano sulla questione meridionale: l’ostacolo dato dal “blocco intellettuale che è l’armatura flessibile ma resistentissima del blocco agrario”. Bisogna, quindi, agire per la sua disgregazione. Sono intellettuali come Benedetto Croce e Giustino Fortunato ad operare per la reazione e per il consolidamento del blocco egemonico borghese. L’intellettuale meridionale, scrive il pensatore, è “democratico nella faccia contadina, reazionario nella faccia rivolta verso il grande proprietario e il governo” e diventa, quasi per una eterogenesi dei fini, “il sorvegliante del capitalismo settentrionale e delle grandi banche”. Bisogna dunque, invertire questa tendenza e costituire un nuovo blocco tra intellettuali progressisti e proletariato urbano e rurale. Nella consapevolezza che la rivoluzione non si realizza grazie all’opera di un singolo individuo, il Principe del Machiavelli, ma grazie all’avanguardia del proletariato organizzata in partito.
La via italiana alla rivoluzione, per il filosofo marxista, si traccia solo in questo solco.