Riportiamo la relazione al seminario sindacale regionale tenutosi presso la Cdl di Milano a cui era presente Salvatore d’Albergo e che intervenne a sostegno di tale relazione che fu poi approvata all’unanimità, come linea e strategia comune.
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Cogliamo l’occasione per confermare quanto era stato preannunciato:
sabato 6 dicembre a partire dalle ore 10-10,30 del mattino – e a seguire durante la giornata – presso l’università di Bologna, nella sala del Palazzo del Rettorato, Palazzo Poggi Via Zamboni n 33, si terrà un incontro pubblico, aperto a chiunque voglia partecipare, per ricordare l’umana pienezza e ilruolo politico-culturale di Salvatore d’Albergo nella storia sociale, politica e culturale del nostro Paese, rapportato alle attuali questioni economiche, sociali, politiche’, all’insegnamento a proseguire nella lotta su tali questioni :dall’ambiente e territorio sociale al caso ILVA come nuova corporativizzazione dei rapporti tra stato e impresa; dalla difesa integrale della costituzione e dei sui valori economici-sociali alla difesa ed estensione dell’art. 18 per garantire la funzione della magistratura contro l’arbitrario potere d’impresa; dal controllo sociale dei piani d’impresaper la programmazione democratica dell’economia all’ autonomia sociale dei lavoratori; dalla applicazione del diritto pubblico economico a quella per un potere sociale e democratico dal basso della comunità di cittadini-lavoratori; dalla lotta per ristabilire il pluralismo sociale ristabilendo il proporzionale“puro” – senza premi o sbarramenti – contro le “leggi truffa” elettorali in atto da 20 anni e la “truffa-truffa” del renzusconi “Italicus; ecc.;
temi segnati dai sui ininterrotti interventi pluridisciplinari e gramscianamente organici in ogni campo e ad ogni livello: politico e sindacale, locale-territoriale e nazionale, sia pratico e di lotta con i lavoratori che di elaborazione teorica e confronto critico con giuristi, costituzionalisti e intellettuali in genere, che ne fanno una personalità eccelsa e unica, un esempio di un nuovo tipo di Uomo e nuovo tipo di politico e scienziato sociale unico nel suo genere.
Reprint . Relazione al seminario sindacale regionale tenutosi presso la Cdl di Milano a cui era |
presente Salvatore d’Albergo e che intervenne a sostegno di tale relazione che fu poi |
approvata all’unanimità, come linea e strategia comune. |
In seguito, però, diversi di coloro che l’approvarono, una volta giunti a Roma, in segreteria CGIL |
o in segreteria di RC, la ripudiarono appoggiando l’anticostituzionale imbroglio del c.d. |
“federalismo a costituzione invariata” – un ossimoro stante che il federalismo fu esplicitamente |
escluso dai Costituenti ed è preluso dalla Costituzione – promosso del famigerato |
inventore del “porcellum” elettorale, cioè Bassanini che elaborò il “porcellum” come |
legge elettorale della Regione Toscana, che nella porcilaia (falsamentedetto “politica”) della |
diade destra-sinistradel maggioritario-presidenzialista e stata ricopiata dal leghista Calderoli. |
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Laforma di potere dello Stato tra le forme verticistiche e centralistiche del “federalismo” e la forma di “potere dal basso” della democrazia sociale di base e dello Stato delle autonomie
Regione, forze sociali, contrattazione, autonomie locali e governo politico e sociale dell’economia e dei servizi.
Quale regione in quale Europa: per un territorio del sociale o del capitale?
L’anticostituzionale espediente “classista” del federalismo.
Relazione introduttiva (*)
(trascritta dalla registrazione )
Come mai, in un sindacato che non ha mai discusso ed anzi ha sempre sistematicamente ignorato le questioni istituzionali, ci troviamo ora addirittura ad una rincorsa, in una chiave pero tutta tecnica che abbiamo sempre denunciato e disprezzato come ‘”ingegneria istituzionale”?
Per capire come ci troviamo a tutto questo bisogna andare al fondo del significato che per un sindacato ha e deve avere la cultura istituzionale.
Perché se invece si resta nell’ambito di una accettazione acritica della cultura istituzionale come si sta facendo attualmente, si resta irrimediabilmente ingabbiati in una matrice che in quanto tale, è sempre di destra.
E” sempre di destra perché come ben sappiamo, lo Stato come lo conosciamo l’ha costruito la borghesia e questa cultura istituzionale e una cultura conservatrice dei rapporti sociali e di produzione esistenti.
Proprio per questo, la cosiddetta cultura istituzionale non è altro che una cultura “descrittiva” delle soluzioni istituzionali date sin qui solo ed esclusivamente in funzione dei rapporti e delle condizioni sociali esistenti e non anche in funzione di altre forme di rapporti sociali.
Quindi il cosiddetto statalismo, che passa per essere una forma culturale imputata della sinistra, in realtà è una forma culturale della destra, perché lo Stato con le sue forme di potere dall’alto è nato, è stato fondato ed è cresciuto dentro una cultura di destra, dentro la cultura della borghesia dominante e possidente.
Ecco perché non é possibile per il sindacato intervenire su tali questioni assumendo il terreno delle varianti istituzionale e giuridico di questa cultura che ripeto non ha saputo ne potuto esprimere altro che forme di potere dall’alto, di comando e dominio gerarchico, anziché partire dalla propria natura e dalla propria teoria sociale e politica e quindi, come si è fatto alla Costituente per definire la nostra Costituzione, da valutazioni sociali e non giuridiche come sono quelle dei “tecnici” preposti all’ingegneria istituzionali per l’identificazione di varianti di una stessa forma di potere quale è appunto anche il federalismo, e a cui invece sempre più spesso anche il sindacato si affida.
Perché a secondo di come ci si colloca, cambia radicalmente il segno delle questioni cosiddette “istituzionali” e, per fare un esempio di attualità, una questione come quella dei referendum sulla proporzionale, se ci si colloca nell’ambito della tradizionale cultura istituzionale diventa anche nel migliore dei casi, solo una questione di difesa del pluralismo politico, quindi che riguarda prevalentemente i partiti e non invece anzitutto una questione di difesa del pluralismo sociale e della conflittualità di classe quale invece è e di cui la la proporzionale é il pluralismo politico e partitico sono solo gli strumenti.
Se si parte invece da un approccio sociale, teorico e pratico, la difesa della proporzionale diventa una questione propria non già soltanto delle forze politiche in quanto tali, come si è fatto sin qui, ma una questione di chi vuole difenderel’antagonismo socialee un ruolo di un sindacatofondato sull”autonomia e il pluralismo, speculare é opposto a quello di chi, avendo scelto di abbandonare l’autonomia della lotta sociale e di classe del sindacato, ha sposato il terreno delle cosiddette “riforme istituzionali'” e quindi in tal senso coerentemente dell”abbandono della proporzionale.
Questo perché senza la proporzionale, che quanto più pura è tanto più favorisce questo, non trovano espressione coerente nelle assemblee elettive (che devono essere specchio della società come diceva Togliatti nell’illustrare la natura della Costituzione italiana) il conflitto di classe e il pluralismo degli interessi che vengono mortificati da una rappresentanza unica e non plurima e pluralistica di ogni territorio, cancellando così la natura sociale della rappresentanza e la forma pubblico-sociale delle istituzioni” a tutto vantaggio dello “statalismo” e dell’interclassismo aziendalista.
Sistema maggioritario e uninominale, elezione diretta del capo dello stato o del capo del governoo del sindaco, come pure l’introduzione del manager, la privatizzazione del rapporto di lavoro pubblico, la nomina di ministri non parlamentari, il federalismo, la “concertazione” e la “democrazia economica”, ecc., sono tutte una varietà di formule e di soluzioni istituzionali “tecniche” e giuridiche che vanno in un unica e sola direzione univoca: quella della aziendalizzazione dello stato, del governo dall”alto sempre e comunque, che cancellano il sociale-territoriale, quindi anche il ruolo sociale del sindacato, sopratutto di quello di base.
Questo é tanto vero che gli “altri” queste cose le propongono tutte assieme.
Anche la modifica fatta del rapporto di lavoro nel pubblico impiego, non cambia solo il rapporto di lavoro, ma cambia la natura dello stato perché sostituisce il diritto pubblico con quello privato, sostituisce la Costituzione con il Codice civile, cioè con un testo giuridico che è quello a cui, ignorando il più possibile la Costituzione, fanno riferimento la Confindustria e le impresa e che proviene dalla Carta del lavoro del 1927: e allora ai voglia a rivendicare poi come lavoratori e come sindacato, che i servizi debbono rispondere ai fini sociali anziché alle logiche finanziarie ed economicistiche dei costi e dei ricavi.
Sono questioni vitali che riguardano, prima di tutto, il tipo di sindacato e di lotta sociale, prima ancora che i partiti che d’altra parte si collegano in modo diretto anche alla battaglia contro il ‘”sistema maggioritario” dei sindacati “maggiormente rappresentativi”.
Ecco quindi che diversamente dalla Confindustria e dalla borghesia che affidano ai ‘”tecnici'” e ai giuristi il compito di individuare una varietà di soluzioni all’interno di una soluzione di potere univoca che é quella del governo dall’alto, per il sindacato si dovrebbe trattare di partire invece dalla natura sociale dei suoi scopi e dalle teorie sociali e politiche di trasformazione per identificare le strategie istituzionali più adeguate al loro conseguimento e per motivare la ragione di soluzioni istituzionali che rispondano a motivazioni, scopi e obbiettivi di natura sociale e non tutte interne ad una natura giuridico-istituzionale.
Per identificare soluzioni che non siano tanto o solo di ricambio del personale politico, come si sente dire in modo persino patetico quando a dirlo sono dirigenti sindacali, ma di mutazione dei rapporti sociali, per avere non solo più partiti, ma per socializzare il potere politico e le istituzioni statali, regionali e comunali che siano.
Si tratta dunque di definire prima di tutto la forma dello stato e la forma di potere e non di partire dalla forma di governo per moltiplicare la forma di governa fondata sul predominio dell’esecutivo sulle assemblee in tutti gli enti e organismi, ridistribuendo centralismo e verticismo anziché democrazia e socialità delle istituzioni.
Questo, come dicono i francesi, è deconcentramento non decentramento e tanto meno è autonomia dei poteri. E il federalismo è, al massimo, proprio ciò: deconcentramento.
Perché se lo Stato deve essere non già il cosiddetto “Stato di diritto” liberale ne il cosiddetto “Stato sociale” liberal-democratico, ma bensì lo “Stato di democrazia sociale” definito e voluto dalla Costituzione antifascista, fondato sul lavoro, la giustizia sociale e l’uguaglianza, la forma del governo non può che essere quella fondata sulla democrazia consensuale e quindi sulla centralità del Parlamento e delle assemblee elettive e per ciò sul pluralismo sociale garantito dalla proporzionale.
Tutte cose queste che ovviamente stanno e vanno viste assieme senza pensare che si possa garantire il pluralismo sociale e la socialità delle istituzioni regionali o locali mantenendo delle forme elettorali proporzionali, ma cancellandone subito dopo la valenza sociale pluralistica della proporzionale con soglie di sbarramento elettorale, con premi di maggioranza o forme dirette di elezione dei sindaci o del presidente della Regione. Oltre che di rinnegamento delle garanzie di pluralismo sociale e socialità delle istituzioni tali soluzioni potrebbero alla fine essere persino pericolose se non dimentichiamo che quella che era la Costituzione di Weimar a cui falsamente e strumentalmente viene associata la Costituzione italiana, ha fatto la fine che ha fatto non già perché era troppo parlamentare e assembleare come si dice, ma perché al contrario associava la forma proporzionale della rappresentanza con la forma di stato e di governo presidenziale, perché la Repubblica di Weimar era appunto una Repubblica presidenziale e non parlamentare.
Perché l’avanzato costituzionalismo contemporaneo della Costituente non assunse ne il presidenzialismo ne il federalismo.
Certo se invece non si vuole avere uno stato non di democrazia sociale, ma di tipo liberale e quindi autoritario, allora si può e si deve tornare ad avere, come nello Stato assoluto o nella Monarchia costituzionale, un Parlamento e delle assemblee elettive che dipendano dagli esecutivi, che a loro volta dipenderanno da un “dictator“, cioè da un Presidente di Regione o da un Sindaco elettivo, o da un manager, che sono tutte forme presidenzialistiche, rispetto a cui il federalismo non è altro che una delle forme tecniche e funzionali a tale forma di potere autoritaria, che non è meno verticistica e centralistica se anziché solo che nello stato centrale si attua anche nelle Regioni e nei Comuni, non meno che nei Lander o negli Stati federati.
Il federalismo, allora, non meno del presidenzialismo, è sempre stato respinto o non assunto dalla Costituente, nonostante che – il primo per bocca di Bobbio che già nel 44 propose gli Stati Uniti d’Italia e il secondo per bocca di Calamandrei – entrambi venissero proposti dall’interno del partito d’Azione, non solo perché storicamente per il liberale Cattaneo il traguardo non era l’indipendenza ma bensì la rivoluzione capitalistica con provincie italiane autonome sotto l’impero degli Asburgo, ma perché non corrispondente e opposto ad uno stato di democrazia sociale, in cui il compito dei governi non deve essere quello di comandare ma di bensì servire gli interessi sociali.
Di più. Il federalismo e incompatibile non solo con uno “Stato di democrazia sociale”, ma anche con uno Stato solo “assistenziale” altrimenti detto “Stato sociale”, come dimostra l”esempio degli USA, che non è certo uno “stato di democrazia sociale” come quello italiano, ma dove non c’e nemmeno il cosiddetto “stato sociale'”, proprio perché il federalismo “rompe”, “divide”, “separa” i bisogno e gli interessi sociali – con forme apparenti di autonomia che sono in realtà autentica sudditanza al governo centrale dominato dagli interessi capitalistici unificati dei poteri economici – ognuno nel proprio ambito, in contrasto con i principi di universalità e di uguaglianza dei diritti e impossibilitati dal farsi valere sul governo centrale che controlla la formazione delle risorse e le scelte economiche determinanti.
Non a caso tutti i modelli sanitari e sociali più avanzati hanno potuto affermarsi dove lo stato non era federale, come la Svezia e l’Italia.
Per tutte queste ragioni tutto ciò che il sindacato sta dicendo sul terreno istituzionale, appare molto povero, debole, scarsamente motivato, oltre che sbagliato, come ciò che e stato detto a Genova alla riunione dei direttivi regionali della CGIL del Piemonte, della Lombardia e della Liguria appositamente convocati non più per una connessione internodale delle lotte come si faceva una volta, ma per proporre una ipotesi organizzative federalistiche del sindacato, subalternamente modellate sulle forme istituzionali di uno Stato federale. Povero, debole e caratterizzato da autentiche forme di ripensamento-arretramento.
E che siano davvero ipotesi e progetti subalterni mi sembra chiaramente dimostrato dal fatto che ad esempio, mentre ancora solo pochi mesi fa in un precedente documento preparatorio dell’incontro di Genova, pubblicato anche su “Nota”, si parlava ancora ad immagine e somiglianza del PDS di cosiddetto regionalismo forte, ora nelle relazioni presentate a Genova e senza che sia stata data alcuna spiegazione e motivazione, si è passati passati a proporre il federalismo, in coincidenza e sempre ad immagine e somiglianza del passaggio operato dal PDS verso il federalismo.
Difficile non pensare che tutto questo denunci un preciso limite di mancanza di autonomia dalle istituzioni e dai partiti e di subalternità alla cultura istituzionalista dominante dei dirigenti sindacali.
Se ciò avviene è perché in fondo, nonostante la diversa valenza sociale che dovrebbe caratterizzare il sindacato rispetto agli altri, si sta in realtà nella stessa logica istituzionalista ed affatto sociale e così, in nome di una idea giusta come quella di chi pensa che bisogna essere “propositivi” in mancanza di una capacità di proposte autonome pensate in relazione alla propria specificità sociale, questa giusta esigenza diventa accettazione e proposta di cose d’altri, diventa una propositività che sta tutta sul terreno della cultura istituzionalista e non della cultura sociale del movimento operaio e sindacale.
Ciò che manca è proprio ciò che più servirebbe, ossia l’autonomia di un approccio sociale del sindacato sulle questioni delle istituzioni, come è facilmente documentabile se si analizzano i testi dei progetti costituzionali presentati in Parlamento per un cosiddetto nuovo rapporto tra Stato e Regioni.
Da questo esame diventa facile capire quanto lo stato federale sia la struttura più centralistica che si possa immaginare : sia perché centralizza verso il nazionale tutti ipoteri reali, sia perché centralizza nel neo-verticismo regionale poteri e competenze dei Comunie, dunque, anche delle organizzazioni sociali di base (Consigli di Fabbrica, organismi di zona, ecc.), cioè di tutte quelle cellule di base che stanno alla democrazia come la scuola di base sta all’istruzione.
Nel mentre ci si preoccupa giustamente, del superamento del centralismo nazionale, mostrando di non sapere bene comprendere che cosa è realmente il federalismo e di non saper bene dominare e capire le questioni istituzionali, si imbocca una strada ancor più centralistica.
Questo è anzitutto conseguenza del limite culturale di chi non vuole usare o non sa usare – come é accaduto per tutti gli anni 80 – il potere locale. E infatti nello stato federale il potere locale non c’e se non inteso come terminale residuale di poteri veri che stanno altrove: nel mentre quindi proprio in nome del carattere terminale che hanno i poteri locali si motiva – come ha fatto ad esempio la relazione di Terzi – la necessità di passare ad uno stato federalista, si propone il federalismo che per sua natura determina il carattere residuale del potere locale.
Al contrario senza una centralità effettiva dei poteri locali non si può riformare nessun potere centrale sia nazionale che regionale. Questo è’ sempre stato l’aspetto fondamentale di decennali battaglie per la riforma delle autonomie locali e dello Statotradita dalle legge di “riforma” delle autonomie del ’90.
Se infatti il locale viene inteso solo come territorio e non anche come poteri, allora il sociale non c’è, scompare e viene meno la natura sociale delle istituzioni e anche del sindacato che per definizione non può che essere sociale.
Proprio grazie a questo grave limite culturale, proprio nel giorno del seminario di Genova, D’Antoni su “Il Giorno” ha potuto assimilare quello che è un Paese, una società e una nazione ad una “azienda Italia”. Non diversamente però da quello che Sabbatini proponeva nel suo documento, a Genova, esattamente all’ultima pagina: perché supporre come fa in quel documento Sabbatini, che una struttura sindacale debba avere l’utile, indica chiaramente che non si pensa più al sindacato come ad un soggetto sociale, ma bensì come ad una azienda.
Il locale, diversamente da ciò che avviene, è insomma il punto da cui si deve partire per fare una battaglia che voglia veramente trasformare, superandolo, il Centro regionale. Perché la Regione é territorialità essa stessa e senza il Comune non c’e nemmeno la Regione.
Ma se così è, allora non basta, anzi e sbagliato concepire, come si fa con i progetti federalistici, la Regione come un territorio, come una gigantografia sostitutiva dei Comuni pensando così di essere come Regione più forte. Si e invece più deboli.
Per essere più forti non basta rivendicare di rappresentare un territorio, ma bisogna mettere dentro e riconoscere in quel territorio i poteri territoriali istituzionali, sociali, politici, le strutture di democrazia di base, di partecipazione dal basso, i distretti, ecc.
Al contrario è proprio dalla negazione del riconoscimento dei poteri territoriali – negati dal verticismo della Regione e dalla sua incapacità di rappresentare in sede nazionale gli interessi sociali nazionali delle comunità locali – che esplode ilmedioevo comunale, di cui il federalismo rappresenta una risposta falsa e demagogica.
Falsa e demagogica in quanto il problema di quello che una volta si chiamava anche “campanilismo“, che era tipico del sistema di potere democristiano, non é risolvibile sostituendo un Centro con un altro Centro, o facendo più centralismi, ma è risolvibile solo rompendo tutti i centralismi (anche quelli di un Comune o se vogliamo anche di un Consiglio di fabbrica, perché la natura del centralismo non e data dal livello in cui si colloca, ma dalla natura del rapporto con la base sociale che si determina) con la democratizzazione e la socializzazione di tutti i poteri, da quelli comunali, a quelli regionali e statali centrali (nonché dei partiti e dei sindacati)
Anche per questo non ci può essere ne un Centro-regionale ne un Centro-nazionale, capaci di corrispondere alle comunità locali, se le comunità locali e sociali non possono concorrere alla formazione diun nuovo centro, con un potere che abbia delle frecce direzionali che vanno dal basso verso l’altoe non solo dall’alto verso il basso.
Nel federalismo le frecce vanno tutte e solo dall’alto verso il basso, anzi, é la forma più compiuta e sofisticata di un vero potere dall’alto. E lo si può vedere immediatamente.
La vera garanzia è l’autonomia nell’unità della Repubblica non il deconcentramento federalista del potere centralistico.
Si e detto che con il federalismo si decentrano i poteri : é un falso.
Al di là del senso comune ideologico accettato anche a sinistra, il federalismo non è una forma di decentramento ma una forma di verticismo e di centralizzazione dei poteri
Per vedere questo bisogna prendere in mano, leggere e analizzare i progetti per vedere in specifico quali sono le forme effettive dei poteri istituzionali di uno stato- federale.
Basta andare a vedere ad esempio che cosa si dice, dal punto di vista dell”organizzazione dei poteri, in merito alla riforma” in senso federale dello Stato nelle proposte di Legge costituzionale presentate in Parlamento ed in discussione alla “Commissione Bicamerale” per le riforme istituzionali.
Le dettagliate forme di potere centralistico e verticistico delle proposte costituzionali di “riforma” dello Stato in senso federale.
All’articolo 3, la revisione dell’articolo 70 della C., prevede che “politica estera, commercio con l’estero, relazioni internazionali e della Comunità europea” restano tutte e solo competenze dello stato-centrale, quindi anche tutta l’economia perché tutto quanto si riferisce a Commercio estero e alla CEE è parte centrale della economia.
E infatti, nei punti successivi si dice che tra tutto il resto, “restano allo stato-centrale, bilanci di previsione e consuntivi; contabilità di stato; moneta, attività finanziaria e credito sovraregionale; tributi statali; politiche energetiche e industriali”, quindi si dice che tutto quello che – oltre al Bilancio centrale – VINCOLA TUTTI GLI ALTRI SOGGETTI REGIONALI, E’ COMPETENZA ESCLUSIVA dello STATO CENTRALE .
Addirittura le politiche energetiche che sono state oggetto di tante lotte e iniziative per fare avere ai territori comunali e regionali i poteri di elaborazione e proposta per Piani energetici territoriali, vengono sancite come esclusiva competenze nazionale, del resto in conformità a quella visione delle materie di “interesse nazionale” che già all”epoca di Cernobyl, contrappose al Centro nazionale gli enti locali sulla questione delle Centrali nucleari, contro l’articolo 8 della Legge sull’energia: articolo che difeso dalla lobby nucleare, non poté però impedire l’opposizione delle comunità locali perché palesemente l’ordinamento costituzionale non federale dell’Italia, prevede la soggettività dei poteri locali anche nelle materie d’interesse nazionale tramite la programmazione economica democratica perché in uno stato autonomistico e non federalistico come quello della nostra Costituzione i poteri locali sono Stato essi stessi, senza quindi con ciò cadere nello statalismo.
Viceversa l’Italia in questa revisione federalista si omologherebbe alla Francia e anche i poteri e le popolazioni locali del nostro Paese, una volta che si è deciso al Centro, non potrebbero fare altro che uniformarsi e subire.
Ancora, nello stesso articolo 3, si prevede che ricerca scientifica e tecnologica, istruzione universitaria, e così via sono solo di competenza nazionale.
Quando poi, una volta tolto tutto quanto sopra, si arriva dire che “La Regione ha competenza 1egislative in ogni altra materia” ci si riferisce appunto nient’altro che al contorno residuo.
Ma anche per il contorno residuo – coerentemente con la divisione tra questioni locali e questioni nazionali tipica dello stato federale e quindi la loro identificazione secondo un ordine di importanza gerarchica che non può non vedere le questioni nazionali e generali al di sopra di quelle locali -, si dice che però “Lo stato, anche nelle materie di competenza delle Regioni, può fissare con leggi organiche i “principi fondamentali delle funzioni che attengono alle esigenze di carattere unitario“.
INSOMMA IN UNA RIFORMA FEDERALISTA DELLO STATO, LA CENTRALITA’ DEL POTERE NAZIONALE VIENE CONSOLIDATA E IN PIU’ LO STATO, ANCHE NELLE MATERIE DI COMPETENZA DELLE REGIONI, PUO’ FISSARE TUTTI I VINCOLI CHE VUOLE.
All’articolo 11 in materia “di revisione dell’articolo 117 della C.” tante volte sbandierato come fulcro del centralismo antiregionalista, ecco cosa si dice:
“La Regione emana le leggi nelle materie che non sono riservate alla competenza legislativa dello Stato. La legge regiona1e (però,n.d.r.) rispetta i principi fissati dalle leggi organiche. Le leggi organiche vincolano le Regioni…”
E affinché tutta sia ancor più forte e chiara la subalternità della Regione allo stato-centrale si aggiunge “Le norme della legge regionale non devono essere in contrasto con l’interesse nazionale o con quello delle altre Regioni“.
Insomma, in questo articolo ciò che si rafforza non è altro che il concetto che la Regione, anche in materie in cui può emanare delle Leggi deve “rispettare” il “Centro” e si vincolano le Regioni e tutte le norme regionali, che non possono mai essere in contrasto con il “Centro”.
Proseguendo, all’articolo 12, in materia di revisione dell’articolo 118 della C., si può vedere che il carattere centralistico del federalismo si riproduce a tutti i livelli.
Infatti all’articolo 12, in materia di competenze non riservate allo Stato e che spettano a Regioni, Provincie e Comuni, si dice che :
“La legge regionale attribuisce alla Regioni le funzioni amministrative di indirizzo, di coordinamento e di intervento che attengono alle esigenze di carattere unitario regionale; attribuisce alle Provincie, ai Comuni o ad altri Enti locali le funzioni amministrative di interesse locale“.
Nel rapporto tra Regione ed Enti locali si ripete insomma lo stesso schema “sovraordinato” che lo Stato si attribuisce rispetto alle Regioni, attribuendo alle Regioni un ruolo “sovraordinato” rispetto agli enti locali comunali e provinciali.
Lo schema centralistico del federalismo, viene quindi duplicemente affermato:
1) dal primato del nazionale sul regionale;
2) dal primato che dal nazionale viene poi riportato anche in capo alle Regioni sugli Enti Locali.
E’ insomma il nuovo centralismo regionale, centralismo di cui ci siamo lamentati fin qui e che fa dipendere gli enti locali (e con essi il sociale territoriale) dai poteri centrali.
Enti locali che cosi non sarebbero più dei “soggetti generali”, come vuole la nostra Costituzione, in grado di fare valere le esigenze e i diritti sociali delle proprie comunità, come era ad esempio è stato fatto nel caso delle centrali nucleari, ma che “amministrano” sul proprio territorio quanto deciso dalle Regioni con il loro potere d’indirizzo, Regioni che a loro volta decidono sulla base di quanto determinato con il suo potere d’indirizzo dallo Stato-nazionale inteso come governo-centrale: insomma un vero e proprio e autentico statalismo, la forma più esasperata cioè di centralismo.
Quindi il federalismo non solo “esalta” apparentemente le Regioni solo sulle questioni “non centrali” – mentre le questioni centrali che sono le più importanti, viceversa, gli restano tutte sottratte – ma centralizza tutto anche nel proprio ambito regionale a danno del sociale territoriale ed in ogni caso, impedisce che ci sia una effettiva funzione di governo della Regione.
Perché anche l’illusione che il dare alle Regioni solo delle competenze nel campo del lavoro, possa rafforzare un ruolo della Regione e del sindacato in materia è destinata a cadere subito, una volta che si vede che, ad esempio, l’art. 39 della Costituzione sul sindacato resta e rimane in capo allo stato-centrale come prevede anche l’articolo 11 della Legge costituzionale e che per di più ci resta assieme a tutti i “diritti pubblici soggettivi” previsti dagli articolo che vanno dal 13 al 21 e dal 39, 40 e 51 della Costituzione, è evidente che anche dare delle competenze alla regione nel campo del lavoro non conta più nulla.
Quindi si deve dire e sapere che tutte le questioni più strettamente del sindacato restano allo Stato centrale e affermare che con le proposte federaliste si danno delle competenze alla Regione nel campo del lavoro è cosa che a questo punto non conta quasi più niente.
E questo oltretutto, è in più e va aggiunto al fatto che il lavoro, e la possibilità di un ruolo in materia, è in ogni caso comunque cancellato, una volta che l”economia, tutta l’economia resta al Centro come è ovvio e inevitabile che sia anche e sopratutto in uno Stato-federale che distingue tra quelli che sono interessi locali,cioè di serie B e interessi nazionali, cioè di serie A.
Il concetto di cosiddetta “autonomia” dello Stato federale – che in realtà è solo DECONCENTRAZIONE DELLA FORMA DI GOVERNO DALL’ALTO – è infatti corrispondente a quello storicamente datato dall’ideologia liberale del diciannovesimo secolo e vigente anche negli Stati Uniti, secondo cui lo Stato tiene al compimento delle funzioni nazionali e divide il potere pubblico con autorità locali in base alla definizione e alla antitesi fra interessi nazionali e interessi locali, in cui la logica del decentramento federale (cioè di un Centro che continua a restare tale ma si decentra sul territorio: decentramento sono anche le Prefetture e tutte le miriadi di Enti centrali decentrati sui territori che da decenni si chiede di abolire per fare una riforma democratica dei poteri dello Stato) è quello della limitazione e delimitazione del ruolo del governo locale secondo i bisogni dello Stato.
E’ appunto quello statalismo-federalista che è l’opposto di un potere effettivo delle autonomie. E’ quello statalismo che invece veniva rovesciato e cancellato dalla prima, unica e soppressa Riforma amministrativa dello Stato italiano, la Riforma della Sanità in cui il Servizio Sanitario pur essendo Nazionale non era “statale” ma bensì “comunale”, come deve essere un veramente riformato potere nazionale e regionale dello stato, cioè in cui i poteri locali cambiano il potere nazionale e regionale portando a livello nazionale le istanze e i bisogni sociali del proprio territorio e concorrendo a determinare dal basso tutte le scelte e le decisioni nazionali, in tutti i campi ed in particolare in quello dell’economia, senza che gli vengano sottratte le questioni cosiddette di interessenazionale per essere relegati in quelle di cosiddetto interesse locale (come se le questioni di interesse nazionali non interessano e non ricadono sulle comunità locali) e quindi senza venire confinati in riserve indiane comunali, provinciali o regionali: proprio per combattere il paradigma di una nuova forma di potere nazionale fondato sul potere dal basso delle autonomie locali che era in essa contenuta la Riforma sanitaria è stata sabotata dai suoi avversari e subito abbandonata dai partiti di sinistra e dai sindacati fino al punto che alla Riforma è stato praticamente persino impedito di entrare in funzione: segreterie di partito e di sindacato non meno che le oligarchie del potere economico e istituzionale non potevano evidentemente non temere una legge che istituzionalizzava una forma di potere che metteva in discussione il predominio degli esecutivi sulla base sociale.
Insomma per tornare al punto, la logica del decentramento federale prevede un “Centro” che si nutre della dissociazione delle Regioni e in cui, quindi, il governo-regionale non è altro che l’interfaccia funzionale del centralismo ed è centralismo esso stesso.
Il federalismo risulta cosi essere quella cosa per cui ti si dice che formalmente nella tua “stanza”, ben delimitata, puoi fare quello che vuoi (sei autonomo diceva Sabatini nella sua relazione a Genova) ma, intanto, puoi solo dedicarti all’arredo e ai giardinetti del territorio regionale e locale e prenderti cura – ma solo in qualche caso e in modo subalterno al Centro – dei servizi ma assolutamente mai dell”economia.
Ma poi non se guardi bene ti accorgi che non puoi fare nemmeno quello per cui ti si dice che puoi fare come vuoi, perché non hai i soldi per comperare i “mobili” ne per fare i giardinetti, perché appunto con l’economia tu non centri niente e quindi non controlli ne la formazione delle risorse, ne gli investimenti e non puoi fare niente.
Abbiamo visto del resto tutti il paradosso di un anno fa quando la California, lo Stato più ricco dello Stato foderale americano, era paralizzata dalla mancanza di risorse e sul punto di chiudere tutti i suoi uffici pubblici e strutture di governo.
Cosi come ad esempio vediamo tutti che nell’ex URSS, lo scontro tra Parlamento e governo è su chi deve controllare la Banca Centrale. Perché tutti sanno che già solo il controllo della moneta è decisivo del controllo su tutto, figuriamoci poi il controllo di tutta l’economia, della politica industriale, del credito e della finanza. Eppure i cosiddetti sostenitori del rafforzamento del federalismo dicono che rinunciando a tutto questo e regalandolo come competenza esclusiva dello stato-centrale, sarà più forte il ruolo di governo-regionale: in pratica solo perché anche la dirigenza regionale potrà disporre più ampiamente e liberamente di macchine blu e intrattenere qualche rapporto diplomatico di piacere con la Comunità Europea, mentre le politiche di governo vere, comprese quelle europee, verranno ancor più di oggi concentrate nelle mani del governo centrale, senza dover più sopportare che come qualche volta in passato le Regioni e il “Fronte dei Comuni” possano metterci il becco.
D’altra parte, forse che l’integrazione europea non viene giocata e costruita sul potere della Banca Centrale Europea ?Come si fa quindi a dire che si rafforza il ruolo di governo della Regione quando si sancisce istituzionalmente che tutto quanto è moneta, finanza ed economia è, come non può non essere, competenza esclusiva del Centro con tutte le restanti istituzioni zitte e buone?
Banca centrale, che tra l’altro Maastricht prevede non debba rispondere a nessuno per agire, come è nella natura del capitale, fuori da ogni criterio di socialità, in tal modo rendendo residuali, marginali e subalterni la cosiddetta “Carta sociale europea” e tutti coloro che come sindacato e i partiti di sinistra si “rinchiudono” nella limitatezza della sua rivendicazione.
I testi di legge che abbiamo qui esaminati, sono un esempio incontrovertibile di ciò che è stato discusso alla Camera e di come è centralista una impostazione federalista dello Stato fuori dalla propaganda degli uni e dall’ignoranza degli altri che ritengono che il federalismo rafforzi l’autonomia e i poteri delle autonomie.
Viceversa, quando si passa ad esaminare in concreto le forme istituzionali e di potere del federalismo si può ben vedere che quelli che hanno in mente lo Stato federalista hanno una linea in cui si dice e si specifica più volte che: – le Regioni stanno nei limiti delle Leggi organiche dello Stato nazionalmente decise;
– i diritti pubblici e soggettivi previsti dagli articoli che vanno dal 13 al 21, 39, 49, 51, della Costituzione (tutte cose che riguardano anche la contrattazione) stanno tutti al Centro e alla sua competenza, anche perché, in realtà, si vuole che a disciplinare la contrattazione e i diritti, sia in realtà le CEE.Altro che ruolo di governo delle Regioni nello stato federalista!
– la previdenza sociale, la tutela e sicurezza del lavoro stanno tutti al Centro nazionale.
ll che significa praticamente – quando si parla di tutela – che tutto il “lavoro” è, al di la delle apparenze, sottratto alle Regioni.e che quindi, oltre all’art 39 C. – esplicitamente proclamato – anche le materie degli art. 35, 36, 37, 38 che sono i diritti alla retribuzione, quelli della donna, degli inabili e marginalizzati sono tutti di competenza centrale-nazionale.
Si può sfidare quindi ogni dirigente sindacale a chiedersi che cosa e quanto del lavoro possa restare in uno stato federale alla competenza della Regione, oltre al fatto che già di per sé, separato dall’economia, il lavoro é comunque negato.
Tutto questo meccanismo centralistico e di ripartizione sovraordinata delle competenze, si riproduce parimenti, come in un gioco di specchi, nella definizione dei poteri ai vari livelli del sindacato.
Il documento presentato a Genova da Sabbatini, riproduce e recepisce sostanzialmente, appunto, lo schema dello stato federale presentato alla Camera dal Presidente della Commissione affari costituzionali, Labriola, ripresentato all”inizio di questa legislatura e ora incorporato nel Disegno di legge della Commissione Bicamerale.
Lo si riporta nel sindacato proprio la dove si parla – nel documento di – delle “Competenze e poteri della CGIL” ( pag. 5,6,7 ) ma che in realtà Sabbatini altro non sono che le competenze dello stato federale.
In quelle pagine si dice infatti che la politica fiscale, quella monetaria e industriale (cioè tutta l”economia), è competenza del sindacato centrale-nazionale, mentre tutti i poteri residui della CGIL regionale devono, comunque, stare dentro a quanto definito a livello nazionale, mentre a loro volta quelli delle CGIL territoriali devono stare dentro le compatibilità e gli indirizzi del centro regionale, in una struttura piramidalein cui i poteri funzionano e vanno solo dall’alto al basso.
Diventa così equivoca tutta la contrattazione decentrata, anche quando si prevede che, anche per la sanità ecc., è il livello nazionale il solo competente a negoziare parametri, criteri, standard, rimettendo agli organismi decentrati’, solo la gestione dell’applicazione per ottenere “migliori condizioni”(?) che, a quel punto, non si possono più ottenere.
Anche per ciò che concerne i diritti sindacali, ecc., sta scritto che tutto deve essere stabilito a livello nazionale, lasciando al “locale” la possibilità, si dice, di “evoluzioni positive” che sono invece impossibili per i vincoli che vengono predeterminati nazionalmente.
Addirittura viene prevista una prassi che é tradizionale di ogni forma autoritaria e di potere dall’alto, quando si garantisce la riserva “al livello superiore” del sindacato di intervenire su “quello inferiore” che dovesse “sbavare”. Altro che autonomia di ogni livello.
Il meccanismo che quindi si pone in essere con la logica delle proposte federaliste, si coniuga e spinge a sua volta, sotto il profilo contrattuale, nella direzione della vecchia proposta della Cisl, che insieme alla istituzionalizzazione centralista e di un sindacato dei soci che “concerta” triangolarmente con governo e confindustria stabilendo “tetti”, “compatibilità'” e ‘”vincoli” nazionali, prevede due livelli di contrattazione : uno a livello “macro” del contratto confederale e nazionale, e l’altro, a livello “micro”, del contratto d’impresa.
Dove però quello d’impresa permette solo di dire che da una politica del reddito altamente centralizzata, si passa ad una politica del reddito aziendalista. In cui pero, ovviamente, quella aziendale sta tutta dentro quella centrale, perché una é il progetto generale e l’altra è al massimo, puro e semplice scambio con la produttività.
In tutto questo quadro, come si vede, ciò che risalta sono solo i vincoli che impediscono sia alle istituzioni che alle organizzazioni sindacali non centrali, la possibilità di esprimere una effettiva soggettività e rappresentanza sociale che, dal basso verso l’alto, possa determinare scelte nazionali che democraticamente partano dai bisogni e non coercitivamente dall’alto dai vincoli, di bilancio e di spesa.
Quello che torna in questo modo a riproporsi con grande attualità non é quindi il tema del federalismo o della codificazione di modalità sperimentate anche con l’accordo del 31 Luglio (e in questo quadro di proposte si vede che l’abolizione della contrattazione articolata firmata in quell’accordo perde i connotati di un “incidente'” che taluni hanno cercato di dargli), ma è viceversa il tema urgente di riformare democraticamente lo stato, a partire dalla riforma democratica del sindacato e dei partiti con l’abolizione del centralismo e del verticismo di tutti gli esecutivi, per rilanciare finalmente la democrazia di base.
In ogni caso, se al di la delle modalità di cui parliamo, vi è un comune e sincero interesse ad affermare, realmente, una rottura dei meccanismi centralistici dello Stato per rilanciare i poteri autonomi e territoriali locali e regionali, basterebbeindicare che sono le Regioni che si riuniscono tra loro e fanno un Piano che comprenda le questioni della moneta, del credito e del fisco nel quadro europeo e fanno la programmazione economica.
Gia questo sarebbe un segno effettivo di una volontà per rovesciare gli indirizzi centralistici della gestione delle politiche economiche che invece nel quadro delle indicazioni federaliste verrebbero definitivamente sanzionate e legittimate
Insomma, per rilanciare la riforma democratica dello stato, al contrario delle “riforme istituzionali”, si deve rilanciare la questione dell’economia e dei sistemi di controllo sociale e politico.
Trattasi di cosa opposta a quella di chi come Terzi, nella sua relazione a Genova, ha posto il problema della Regione e dei comuni (che sarebbero troppo piccoli, mentre al contrarioil vero ostacolo alla programmazione e alla democrazia sono i Comuni troppo grandi) nei termini di una ricerca di una dimensione ottimale. Il punto é: ottimali per che cosa?
Se la dimensione ottimale è quella gigantografica, non è certo per farne dei soggetti della programmazione economica generale come dovrebbe essere. Perché se davvero si pensasse ad un processo programmatorio, allora la questione della dimensione non si porrebbe perché questa viene superata dalla partecipazione di tutti alla definizione della programmazione nazionale, rispetto a cui la piccola dimensione, lungi dall’essere un ostacolo, diventa un vantaggio per favorire il coinvolgimento delle popolazioni nel censimento dei bisogni, nell’esercizio da parte di tutti del potere di proposta e nella verifica del rapporto tra uso delle risorse e bisogni sociali.
Viceversa la dimensione ottimale viene citata come necessaria perché non si pensa di intervenire sull’economia, ma solo “per esercitare davvero le funzioni amministrative e dei servizi fondamentali”.
L‘arretramento-ripensamento della posizione sindacale è vista dunque esclusivamente in rapporto alla gestione dei servizi, dando per scontato che l’economia é materia dello stato centrale, rispetto a cui non si dovrebbe intervenire nell’unico modo che è possibile: con sistemi di programmazione che dal territorio e dai Comuni, attraverso Province e Regione, arrivino a determinare le scelte economiche nazionali e poi anche quelle europee e internazionali, in base alle valutazioni dei bisogni del territorio-sociale locale.
Non é un caso che in tutto il quadro di queste proposte federaliste che sono state avanzate non si parla mai dell”Europa.
E non si parla dell’Europa perché se si richiama il carattere di integrazione dei sistemi economici e poi politici, sia europei che mondiali, non si può fare a meno di valutare come la dimensione locale e ambientale delle politiche economiche, di quelle industriali, di quelle agricole, di quelle sociali, non si fermano e non possono essere affrontate in una dimensione regionale, ma bensì solo in un contesto statal-nazionale, che è però a sua volta condizionato dal carattere extranazionale e sovranazionale del sistema di relazioni.
Proprio la dimensione europea e internazionale dei problemi che porta ad escludere il “separatismo” federalista o regionalistico e ad esigere il rilancio e la piena attuazione di uno “stato delle autonomie” come è previsto dall’ordinamento costituzionale, perché solo in tale sistema è possibile non escludere le comunità e i poteri locali da una partecipazione piena ed effettiva alla determinazioni delle scelte nazionali ed internazionali sia nelle sue sedi centrali che nelle sue proiezioni sovranazionali.
Le autonomie locali costituiscono il filo rosso che sottende tutta la forma istituzionale post-fascista e proprio il non aver riconosciuto ad esse il ruolo di soggetti della programmazione nazionale sta li a ricordarci che le Regioni non sono decollate non solo e non tanto perché sono state concepite come un’articolazione subalterna allo stato centrale, ma perché le Regioni stesse, di loro iniziativa, hanno tradito un loro ruolo effettivamente avanzato, nel momento stesso in cui hanno rinunciato ad esprimere la propria soggettività nella “programmazione nazionale”, rinunciando a rappresentare presso lo stato centrale gli interessi e la volontà dei poteri e delle comunità locali e finendo invece con il gestire sul proprio territorio gli interessi e i poteri del governo nazionale.
In quanto che i Comuni, in una “Repubblica delle autonomie”, sono “Stato”essi stessi e come tale devono concorrere alla determinazione delle politiche generali del Paese e non subirle come è avvenuto e come avverrebbe ancora di più se da soggetto generale della programmazione nazionale, come costituzionalmente sono, venissero ridotti al rango di soggetto interessati solo a questioni di carattere locale gerarchicamente e inevitabilmente subalterni a chi detiene invece tutti i poteri nelle scelte relative alle questioni di carattere nazionale, scelte che potrebbero solo subire senza poter far valere ne la propria voce ne quella delle comunità sociale.
Viceversa solo dando effettiva attuazione alla forma costituzionale – che è anti-federalista e di “Repubblica delle autonomie” è possibile concepire un ruolo dei Comuni e delle Regioni anche nel-campo delle politiche economiche altrimenti esclusivamente delegate al del governocentrale, cioè allo statalismo.
Una unità nazionale non centralistica a statalista ma dal basso, articolata ma non separata, é la sola possibilista che si offre per poter far pesare e contare, per il tramite dei poteri comunali, provinciali e regionali, il sociale-territoriale nelle decisioni economiche, monetarie, creditizie, finanziarie, industriali e di commercio internazionale che, necessariamente, non possono essere che nazionali prima e sovranazionali poi e non certo regionali: ragion per cui la Regione autonoma sarebbe una gabbia che escluderebbe le comunità locali dalle scelte che più contano.
Questo ancor più oggi e proprio perché il carattere extranazionale delle relazioni – che invece si invocano per giustificare forti poteri di decisione centrali e nazionali – sollecita a percorrere politiche di programmazione democratica e a realizzare sistemi programmatori che dal territorio-sociale devono arrivare agli enti locali, da questi alle Regioni e dalle Regioni agli organismi nazionali e poi alle loro proiezioni internazionali, che permettano di fare rientrare tutte le esigenze, quelle economiche come quelle sociali e ambientali del territorio (che é “luogo di vita e di produzione”), come parte costitutiva delle politiche economiche e di sviluppo che vengono decise nelle sedi nazionali e internazionali.
Altrimenti, all’opposto, verrà legittimato ciò che contro la Costituzione avviene oggi, con scelte che vengono determinate dai centri bancari, finanziari e industriali del capitalismo internazionale, e che poi vengono calate sul governo nazionale (che è così in realtà pure lui ‘”dipendente” come dimostra palesemente il fatto che va a farsi legittimare i suoi provvedimenti dagli organismi internazionali (siano essi il G7, le Commissioni e le Banche europee, il F.M.I.,la Banca Mondiale), da questo sulle Regioni e infine dalle Regioni sui Comuni e sul territorio. Da qui le esigenze della governabilità, della stabilità e del rafforzamento dell’esecutivo di governo di cui abbisognano i centri di potere e i mercati del capitale finanziario che non sono a caso, per l’appunto, sono per il federalismo.
E’ in questo modo si determina la dipendenza dei territori e dei bisogni sociali che in essi vivono, dal carattere aprioristico del sistema di profitto, del sistema di intermediazione finanziaria e dagli interessi privati capitalistici che, oltre a tutto, possono persino non essere produttivi ma solo speculativi.
Se quindi si parte dalle questioni dell”economia e non dai servizi – dal carattere pubblico del sistema di accumulazione e di risparmio e dall’intervento dello stato nell’economia e nella produzione e non solo nello “stato sociale” e nella riproduzione – il problema diventa subito di come si fa a intervenire sulle grandi imprese, sul sistema finanziario e bancario, sulle politiche monetarie e industriali e si vede immediatamente che ciò non é risolvibile nell’ambito della legislazione regionale. Con questa infatti si può intervenire al massimo con politiche di supporto alla piccola e media impresa.
Tenendo invece conto dei processi produttivi si capisce come non è possibile pensare che ogni Regione regoli da sola tali questioni e possa ritagliare porzioni del sistema produttivo, assumendo la territorialità come un criterio per avere una ‘”esclusiva” in materia.
Ecco allora che se non si vuole che tale esclusiva economica resti solo una questione dello Stato-centralee dei poteri economici tutti fortemente accentrati, occorre – non tanto una potestà regionale e un deconcentramento o “autonomismo”regionale – una iniziativa legislativa della Regione non tanto per riformare gli articoli 117 e 118, ecc. della C., ma per riformare e decentrare la Banca d’Italia, le Partecipazioni Statali (che vanno democratizzate e non privatizzate) l’Istat e i sistemi informativi.
Se davvero si è sinceri nella volontà di rompere con il centralismo statalista, come mai nessuno propone questo uovo di Colombo della rottura del vero fondamento centralista del potere di uno stato: il potere monetario, finanziario e industriale, insomma il potere nell’economia.
Tutte cose che invece, quando la contrattazione si richiamava ai “contratti riforma, proprio il sindacato aveva cominciato a strappare con un impegno – poi vanificato perché abbandonato dal sindacato – già assunto dalla Banca d’Italia, per il decentramento dell’Istituto di emissione.
E una iniziativa legislativa e contrattuale che oltre alla riforma della Banca d’Italia, delle PPSS e dell’Istat, realizzi la riforma tributaria e della finanza centrale e decentrata nel contesto del sistema autonomistico costituzionale che esclude che si possa concepire il potere impositivo di regione e comuni come tributi aggiuntivi stante, diversamente dal federalismo, il carattere articolato ma unitario del sistema istituzionale dello stato autonomistico e del suo sistema tributario.
Chi poi ha davvero un sincero interesse ad una rottura dei meccanismi centralistici dello Stato per realizzare un effettivo potere di intervento e di proposta dei poteri locali e sociali non può non proporsi l’abolizione della legge finanziaria che é la forma centralistica di subordinazione di tutta la legislazione economica e sociale ai tetti di Bilancio e di affermazione di una visione tutta aziendalistica e centralistica dello stato.
Riassumendo, le riforme di cui dovrebbe occuparsi un sindacato se si pone davvero il problema di rafforzare i poteri d’intervento dei lavoratori e degli enti locali e regionali nel campo dell’economia e del lavoro e non solo per una gestione residuale e passiva dei servizi, sono:
– Riforma, democratizzazione e decentramento delle istituzioni del sistema bancario, del sistema produttivo e di del sistema informativo pubblico; abrogazione della “dittatura finanziaria” del Centro statale attuata con la legge finanziaria e con il sistema tributario accentrato;
– attuazione degli Statuti regionali (e non una loro controriforma in senso federalista e presidenzialista come è stato proposto da una “Commissione di esperti” della Regione Lombardia coordinata da Onida e come ha riproposto Terzi nella sua relazione), per fare della Regione non la sede del decentramento amministrativo del governo nazionale, ma il soggetto che partecipa alla programmazione economica nazionale;
– riforma della Legge 142 sulle autonomie locali coerente con quanto sopra;
Riallacciandoci con quanto detto all’inizio in merito alla necessità di una analisi di classe delle questioni istituzionali da parte del sindacato, anche questi aspetti non vanno visti come problema istituzionale dei partiti, ma come esigenza di rilanciare il ruolo autonomo e democratico sociale del sindacato di base attraverso il rilancio dei poteri locali territoriali e la riforma dei partiti e del sindacato (anziché la riforma del “sistema politico” ed elettorale) il cui centralismo verticistico è la concausa del fallimento del decentramento.
Come già rivendicato negli anni 60, 70 e una parte degli 80, una grande riforma sotto il profilo istituzionale, deve consistere anzitutto nel trasferire dallo Stato alle Regioni e dalle Regioni agli Enti locali, tutte le attribuzioni e tutte le risorse che lo Stato deve trasferire alle Regioni e da queste tutte quelle che devono essere trasferite ai Comuni, adeguando sia la legislazione nazionale che regionale alle autonomie secondo un principio che deve essere attuato anche per ogni singola legge che si realizza.
Con le proposte federaliste invece si finge di ignorare che la questione vera è quella di una strategia che deve partire da un dato istituzionale e normativo già sancito formalmente sin dall’epoca dell’emanazione dello Statuto regionale e del DPR 616/76 secondo cui la Regione prima che gestire DEVE partecipare alla formazione e poi all’attuazione del programma e delle politiche economiche nazionali.
In questo quadro il decentramento di tutta l’amministrazione attiva alle Regioni e alle autonomie locali, non deve portare a nessuna caduta di linea strategica nel rapporto con lo Stato e con il Mezzogiorno come invece accadrebbe con le separatezze del federalismo.
Bisogna al contrario uscire da un orizzonte politico e ideologico settecentesco che informa la cultura leghista e separatista del Nord – che risale ai tempi degli ‘”illuminati'” sovrani di casa d”Austria e di casa Savoia – andando oltre il vecchio mito ambrosiano della borghesia che spesso porta a chiudersi in se stessi paghi della propria cosiddetta “modernità europeizzante”.
Non è in un gioco di “separatezza” contrapposte, ma sempre all’interne a logiche centralistiche uguali, che si può rispondere agli interrogativi sul mancato superamento del centralismo e declino delle Regioni.
Questo rilancio, al contrario, passa attraverso la modifica del sistema di potere anche delle Regioni e non solo dello stato centrale, non da un suo rafforzamento centralistico federale, per fare veramente e finalmente della Regione quello snodo effettivo della partecipazione delle comunità locali alle decisioni nazionali.
Quelle enunciate sono alcune delle prioritarie modifiche di riforma democratica, per conseguire una incisiva riforma dello Stato e un diverso tipo di sviluppo che interessa prioritariamente i lavoratori e il sindacato. Per fare si che la programmazione, anche di quella regionale, non sia una regionalizzazione delle leggi nazionali, ma bensì siano le leggi nazionali e di programmazione ad essere la sintesi reale (non la sommatoria) dei programmi regionali.
Lo ripetiamo : non é un problema di titolarità speciale.
Il sindacato se davvero vuole contribuire a cambiare il rapporto tra Regione e Centro statale, deve battersi per impegnare la Regione (attuando il confronto con essa sul versante politico e sociale di lotta e non sul versante amministrativo di incontro con gli organi burocratici) a dare battaglia coerente al centralismo cominciando con 1’adeguare lei la sua struttura e la sua iniziativa alle responsabilità e ai poteri che si reclamano.
Cominciando, per fare ancora un ultimo esempio, a rendere coerenti gli interventi nei vari campi che hanno un rapporto con la politica economica e industriale. Esercitando i poteri contenuti già nel DPR 616 (art.67 e 81)e mai attuati, in merito alla possibilità di conoscere i Piani di sviluppo e di investimento delle grandi imprese. Accorpando assessorati come quelli dell”industria, del lavoro e della formazione professionale; accorpando l’Assistenza con la sanità e in generale superando le separazioni e le scomposizioni tra i settori chiave della programmazione regionale.
Eliminando insomma tutte le bardature da ‘”stato centrale” e battendosi per cambiare il potere centrale-statale, organizzando e rappresentando i poteri sociali e istituzionali veri e democratici del proprio territorio.
Si tratta di democratizzare e socializzare tutti i poteri a tutti i livelli, e non di federare i vari e molteplici centralismi. Per fare questo basta dare attuazione alla Costituzione, attuando lo Stato parlamentare e delle autonomie e non cambiando in modo anticostituzionale la forma dello stato democratico con il verticismo e centralismo federalista non previsto e non consentito dalla nostra Costituzione democratica e antifascista.
(*) Relazione introduttiva di Angelo Ruggeri
Seminario regionale di Essere Sindacato, Milano, C.d.L.-Cgil, 19 marzo 93