Luigi Grimaldi
E’ di mercoledì scorso l’interrogatorio, da parte dei pm della Dda di Palermo, a Roma, dell’ex ministro della Giustizia Giovanni Conso. Ed è di pochi giorni fa l’interrogatorio di Nicolò Amato, l’ex direttore del Dipartimento amministrazione penitenziaria che nel ’93, nel pieno di una, o forse due trattative parallele tra mafia e pezzi dello Stato, chiese la revoca del carcere duro, il 41 bis, per i detenuti mafiosi. Amato è stato ascoltato dal procuratore aggiunto Antonio Ingroia e dai pm Antonino Di Matteo e Paolo Guido.
Sia Amato, che Conso, hanno da tempo rivendicato la paternità esclusiva delle rispettive decisioni in merito al 41 bis, escludendo l’esistenza di suggeritori. Ma Amato ha precisato che: «Della trattativa tra Stato e mafia non so nulla. Il fatto che l’allora ministro Conso non rinnovò 140 decreti di 41 bis nel novembre ’93 l’ho appreso solo in questi giorni».
All’insaputa del ministro
Insomma l ‘annullamento del carcere duro, richiesto da Cosa Nostra e non solo, a suon di bombe, sarebbe stato concesso a ridosso della mancata e mai ripetuta strage allo stadio Olimpico di Roma, da protagonisti che erano all’oscuro della richiesta di Cosa avanzata proprio in materia di carcere duro.
Conso ha infatti sostenuto, davanti alla commissione Antimafia che il suo intervento avrebbe evitato nuove stragi mafiose, riferendosi al fallito e mai ripetuto attentato dell’Olimpico, la cui data è incerta (a fine ottobre 93 o a gennaio 94) ma sempre in coincidenza con partite nella capitale dell’Udinese: a ottobre contro la Lazio o a gennaio contro la Roma. Una autobomba approntata in via dei Gladiatori, per fare strage tra i Carabinieri del servizio d’ordine pubblico. Carabinieri, Udine, Gladiatori, strage. Un accostamento denso di richiami, quasi una citazione delle vicende legate alla strage di Peteano del 1972, alla vicenda Gladio: fatti, nel ’93, di esplosiva attualità in relazione alla vicenda Gladio e alle indagini del Pm veneziano Felice Casson. Fatti che con la mafia non sembrerebbero avere niente e che fare.
In una recente intervista rilasciata a chi scrive e a Luciano Scalettari, il Sostituto procuratore di Caltanissetta Luca Tescaroli, attualmente sostituto procuratore a Roma, ha sostenuto che l’obiettivo «era di colpire soprattutto i carabinieri e di uccidere il più possibile. L’attentato non va a buon fine…: l’autobomba doveva esplodere di domenica, al termine della partita di calcio. Venne piazzata nel punto di concentramento degli appartenenti dell’Arma di servizio allo stadio, in occasione dell’incontro di calcio Lazio-Udinese».
Una strage predisposta in via dei Gladiatori, un dettaglio interessante per ricordare l’attenzione posta nell’inviare messaggi anche attraverso le cosiddette rivendicazioni ambientali della Falange armata.
«Sì, in via dei Gladiatori. L’attentato era stato corredato dall’invio di lettere anonime. Faceva verosimilmente parte della strategia correlata alla trattativa».
L’Ombra di Gladio, all’insaputa..
Il fatto è che Giovanni Conso, negli anni ’70 venne incaricato dal Generale dei Carabinieri Giuseppe Palumbo di coordinare una pattuglia di avvocati di primo piano incaricati di rappresentare i familiari dei carabinieri uccisi nella strage del 31 maggio 1972, a Peteano, in provincia di Gorizia. Di fatto una azione di supporto giuridico delle accuse rivolte, per volontà del Servizio segreto militare, a 6 giovani goriziani innocenti. Un depistaggio ordito, anche allora all’insaputa di Conso, messo in atto da altissimi ufficiali dei Carabinieri e dai servizi segreti per impedire che indagini sulla strage rivelassero l’esistenza di Gladio. Condannati per azioni depistatorie furono anche il colonnello Dino Mingarelli Comandante della Legione di Udine (confermata in Cassazione nel 1992) e, per il reato di favoreggiamento aggravato, l’allora segretario dell’MSI Giorgio Almirante (poi amnistiato). Anche il generale Giovanbattista Palumbo (comandante della divisione Pastrengo di Milano) aveva partecipato al depistaggio per attribuire l’attentato ai gruppi di estrema sinistra, evitare che venissero individuati i neofascisti udinesi (gli ordinovisti Cicuttini, Vinciguerra e Boccaccio), autori della strage dei carabinieri, e cicatrizzare la falla apertasi nella segretezza della Gladio. Operazione fallita. Gladio venne alla luce e il Generale Palumbo, se non fosse deceduto alcuni anni prima del processo, avrebbe dovuto sedere sul banco degli imputati accanto a Mingarelli e ai molti altri che sono stati condannati. Proprio Palumbo è colui che “incarica” Giovanni Conso di “coordinare” l’attività di tutte le parti civili sia in primo grado che in appello. Lo affermano le testimonianze di alcuni legali (rese nel quadro delle indagini sui depistaggi), risalenti al 1987, tra cui l’Avvocato Fabio Dean, indicato a Palumbo da Conso, e noto come difensore, in quegli anni, di Licio Gelli e del bombardiere nero Gianni Nardi (protagonista delle rivelazioni calunniose e spettacolari, ancorché inspiegabili, di Donatella di Rosa proprio nell’autunno del 1993). Si scopre così che vi sarebbero state diverse riunioni a Milano tra Carabinieri e avvocati, presenti lo stesso Dean, Giovanni Conso e i depistatori: il Colonnello Mingarelli e il Generale Palumbo.
La Falange Armata
Ma tutta questa storia si avvita su se stessa come una spirale. Chi non ricorda la misteriosa e allarmante presenza, asfissiante fino al 1994, della Falange Armata? Un nucleo di guerra psicologica attivato da professionisti della destabilizzazione. Dei vari 007 coinvolti dalle indagini uno solo è morto in circostanze misteriose: Vincenzo Li Causi, il responsabile del centro Gladio di Trapani, assassinato in Somalia nel 1993. Il fatto è che le indagini sulla Falange hanno percorso due strade parallele (entrambe non hanno portato a nulla): da una parte la famosa “lista” degli uomini di punta di Gladio (formalmente allontanati dal servizio) e dall’altra l’individuazione di due presunti telefonisti (uno arrestato e poi scagionato, l’altro, udinese, coinvolto nelle indagini su Unabomber, testimone nelle indagini sulla strage di Ustica e collegato alla Falange, e alle rivendicazioni del ’93, da una perizia fonica). Dei due il primo, Carmelo Scalone, educatore carcerario, è stato indicato da più fonti come uno dei più stretti collaboratori proprio di Nicolò Amato (che però smentisce). Sia Amato che Scalone furono oggetto ricorrente, nel 1993 e 94, delle minacce della “Falange”, tanto che a Scalone era stata assegnata una scorta. Ma alla fine Scalone è stato prosciolto da ogni accusa, il sospetto Unabomber non è mai andato a processo, Li Causi è deceduto e Amato, così come avvenuto per Conso in relazione alla strage di Peteano, non è stato sfiorato dalle indagini sulla Falange.
Un intreccio pazzesco
Ma oggi tutto acquista un altro sapore: per ora, infatti, si indaga sulle bombe e l’annullamento del 41 bis e sulla trattativa tra mafia e Stato, in cui sarebbero stati protagonisti il Sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino, che in uno dei suoi famosi pizzini sosteneva di essere di Gladio (come membro di Gladio è stato indicato dai magistrati il suo predecessore , il Sindaco Giuseppe Insalaco), e il Generale dei Carabinieri Mario Mori. Massimo Ciancimino, il figlio di Don Vito Ciancimino, è tornato nei giorni scorsi sulla vicenda rivelando che la nomina di Amato come difensore del padre avvenne ” su spinta di rappresentanti delle istituzioni”…”, ci fu suggerito da Mario Mori (…). «Nel giugno del ’93 – ha raccontato – io e l’avvocato Giorgio Ghiron andammo a Roma dove Mori ci suggerì il nome di Amato come difensore di mio padre che all’epoca era già detenuto». I misteri d’Italia: un pozzo senza fondo.
27/11/2010