di Anna Zagatti
Il sistema dell’alternanza scuola-lavoro non genera, come dovrebbe, proteste e rifiuto da parte degli studenti e dei genitori.
Una prima spiegazione risiede, probabilmente, nella strategia di “mitigazione”, di “riduzione del danno” che le scuole hanno in molti casi cercato di attuare per depotenziare gli effetti di questa “alternanza” sulla didattica.
Da parte degli insegnanti, almeno quando ne parlano tra loro, tali effetti sono generalmente definiti “devastanti”: i consigli di classe sono costretti a trasformarsi in improvvisate agenzie di collocamento, l’attività didattica viene erosa dagli impegni extrascolastici mattutini e pomeridiani degli allievi, programmare con qualche razionalità le verifiche (ricordando che la valutazione è componente indisponibile della funzione docente) diviene un esasperante rompicapo. Lo sforzo meritorio di molti professori diviene allora quello di adagiarsi sul letto di Procuste per cercare di trasformare gli stage lavorativi obbligatori in attività coerenti con la formazione scolastica1, ad esempio collaborando con teatri, cineteche, biblioteche o redazioni editoriali (così almeno qualche libro può essere visto e preso in mano). Ma si tratta di casi particolari, esito, appunto, dello sforzo strenuo di docenti pronti a ogni sacrificio pur di salvaguardare il senso del proprio lavoro.
Ciò che qui voglio chiamare in causa è l’alternanza scuola-lavoro per quello che è propriamente: sostituzione di attività didattica e formativa con attività lavorative gratuite nel corso del triennio della scuola superiore. La domanda si ripropone: perché questo particolare aspetto della legge 107 non è stato (se non debolmente) contestato?
La ragione profonda è legata al fatto, io credo, che siano stati ormai profondamente e forse irreversibilmente introiettati dalla società italiana due slogan fallaci, sui quali da decenni tutti i media hanno incessantemente battuto. Il primo slogan è stato introdotto negli anni Ottanta (copyright Thatcher) e afferma che «la colpa della disoccupazione è del singolo disoccupato, troppo pigro, inetto e irresponsabile per impiegarsi» (ricordo la battuta di un ministro dell’epoca, un certo De Michelis, che diceva: «I giovani non trovano lavoro? ma che se lo inventino!»). Più recentemente, con la crescita vertiginosa della disoccupazione giovanile, questo slogan ha cominciato a diventare impopolare, perciò è stato sostituito dal secondo, perfetto perché scarica la “colpa” della disoccupazione di massa su un’istituzione impersonale, la scuola. Dunque: «la colpa della disoccupazione non è esclusivamente del disoccupato ma della sua formazione scolastica, che con la sua arretratezza gli impedisce di trovare un impiego» (all’inizio di quest’anno 2017 il ministro Poletti ha appunto spiegato, commentando dati Istat, che se la ripresa dell’occupazione giovanile non è così brillante come era stato annunciato, ciò dipende dalla “inadeguatezza” del sistema scolastico italiano rispetto alle “richieste del mercato del lavoro”).
Com’è noto, ripetere infinite volte delle sciocchezze trasforma le sciocchezze in senso comune, ma ciò non toglie che restino tali. Di fatto, ciascuno sa che maggiori o minori tassi di occupazione dipendono da variabili economiche ed economico-politiche strutturali o congiunturali. Che la disoccupazione sia il prodotto della “non-congruità” tra scuola e mondo del lavoro, invece, è indimostrato e indimostrabile.
In primo luogo, infatti, che cosa significa che le scuole debbano dare risposte alle “richieste” del mondo del lavoro? Quali sono queste così teatralmente evocate richieste? Queste richieste che il mondo del lavoro avanza trovando la scuola e la classe insegnante così protervamente sorde? L’industriale tessile richiede che gli aspiranti tessili sappiano tutto di trame e di ordito? l’industriale chimico che sappiano tutto di colle e vernici?…
Prevedo la replica: queste obiezioni sono ingenue, perché l’alternanza scuola-lavoro non è un vero e proprio apprendistato e non è attraverso di essa che “si impara un mestiere”. Vi si imparerebbe invece a “calarsi” nella dimensione lavorativa, ad “acquisire spirito imprenditoriale”, a “entrare in sintonia con le realtà produttive”. Queste, però, non sono risposte argomentate ma formulazioni indeterminate e inconsistenti. Oppure, se si vuole essere così generosi da considerarle argomenti, sono argomenti a cui è impossibile opporsi perché sconfinano direttamente nel misticismo; se ne possono occupare teologi e badesse, o ancor meglio i sacerdoti della fede neoliberista, ispirati dal loro profeta Milton Friedman (per il quale le leggi del capitale equivalgono a leggi di natura e il capitale in definitiva coincide con Dio stesso), ma esulano dal mondo empirico (di cui scuola e studenti fanno parte).
In buona sostanza, dunque, a che cosa serve l’alternanza scuola-lavoro?
È chiaro che la scuola in quanto tale o le 200-400 ore di alternanza scuola-lavoro non possono preparare (nel senso di “istruire”) gli allievi all’infinita variabilità delle attività professionali. È altrettanto insostenibile l’idea che spedire gruppetti di ragazzi in quell’ufficio o in quella azienda (sottraendo loro nel triennio delle superiori ore e ore di didattica, di studio e di tempo libero) possa renderli sic et simpliciter “più adatti” all’attuale mercato del lavoro. In realtà — come sempre è stato — le professioni si imparano esercitandole. I lavoratori attivi di oggi e di ieri non hanno avuto alcun bisogno di una stravagante iniziazione pre-lavorativa in epoca scolastica, ma si sono avviati e “addestrati” alle loro professioni nel momento in cui, dietro retribuzione, hanno effettivamente cominciato a lavorare.
In tal senso l’alternanza scuola-lavoro non prepara i giovani a un “futuro lavorativo”, ma — essendo non retribuita e obbligatoria — prepara ad adeguarsi a una condizione, quella di lavoratore coatto (vulgo, “schiavo”).
Diamo uno sguardo al passato recente: l’Italia ha conosciuto un’epoca di piena (o quasi piena) occupazione, il boom industriale degli anni Sessanta. Se decidessimo di prendere per buono l’argomento di Poletti (v. sopra), ne dovremmo dedurre che in quegli anni la formazione scolastica dei giovani era più adeguata al mondo del lavoro, e ciò garantiva o concorreva all’alto tasso di occupazione. Dunque negli anni Sessanta le grandi masse giovanili che, avendo a mala pena concluso le scuole elementari, emigravano dalle aree depresse del Paese nelle città industriali, trovavano lavoro grazie al loro “efficace percorso formativo”? Oppure le scuole medie inferiori e superiori dell’epoca erano così avant-guarde che i diplomati erano infallibilmente aggiornati in tutti i possibili campi dell’operosità umana? A chi fosse propenso a rispondere affermativamente a queste domande potrei solo dire, come Don Alfonso in Così fan tutte, «Cara semplicità, quanto mi piaci!»2
In breve, credo che non sfugga a nessuno che fosse il complesso del sistema produttivo italiano e dell’organizzazione sociale interna — e non il sistema scolastico! — a creare posti di lavoro.
Ma, si dirà, l’alternanza scuola-lavoro costituisce pur sempre un’esperienza, è qualche cosa di nuovo per i ragazzi, dà la possibilità di mettersi alla prova in un ambiente diverso da quello domestico o scolastico. Cercando di sfuggire al semplicismo dei luoghi comuni, io credo sia opportuno sottoporre a un esame più attento e più critico questo concetto di esperienza, a cui ci riferisce così spesso attribuendogli una connotazione immancabilmente positiva.
In primo luogo, si dovrà considerare che esistono esperienze positive, fruttuose ed effettivamente formative, ma che si dànno anche esperienze anodine, insignificanti (che in altri termini non restituiscono nulla, non lasciano tracce o ricordi) o in senso stretto negative (o anche distruttive).
Non si può stabilire a priori che collocare uno studente in un luogo fisicamente per lui insolito (ad esempio un ufficio) a svolgere un’attività per lui inconsueta (ad es. ordinare formulari o fare fotocopie) affiancandosi a persone sconosciute (ad es. i dipendenti di un ente pubblico o privato con cui i giovani devono collaborano o sotto la cui supervisione lavorano) costituisca per lui un’esperienza formativa, un mezzo per conseguire un grado maggiore di maturità, oppure un metodo infallibile (in quanto pratico) per capire “che cosa significhi lavorare”. È altrettanto possibile che il giovane stagista, osservato con preoccupazione dagli adulti, venga semplicemente tenuto in disparte ad annoiarsi e/o a svolgere mansioni ripetitive, controllato più che altro per evitare che combini guai o intralci l’attività dei lavoratori “veri”.
Si può affermare con certezza, per converso, che al giovane stagista, nel momento in cui sia alle prese con le dinamiche dell’ufficio, dell’agenzia o della fabbrica, sarà preclusa l’esperienza dello studio, della lettura, dell’ozio, del dialogo su temi culturali3 in una cerchia che includa interlocutori adulti (gli insegnanti) e coetanei (i compagni). Anche l’apprendimento, infatti, è esperienza e non si tratta di un’esperienza uniforme, ripetitiva, sempre uguale.
Altra cosa (cioè esperienza) è leggere la scialba pagina di un manuale di storia, altra cosa (cioè esperienza) è ascoltare la relazione che nella vivacità dell’oralità e del dialogo un insegnante può proporre sul medesimo argomento. Una cosa (cioè esperienza) è leggere una tragedia di Euripide in traduzione, tutt’altra cosa (esperienza) è leggerla nell’originale.
E ancora: o si nega completamente alla tradizione culturale (nelle sue più diverse forme) ogni valore e capacità di trasmettere saperi e di annodare i fili delle conoscenze tra le generazioni, oppure si dovrà riconoscere che si può imparare molto anche sul mondo del lavoro e sulle realtà produttive leggendo Defoe o Balzac, Volponi o Zola, Bianciardi o Gogol’, Steinbeck o Naomi Klein, oppure guardando Rosetta dei Dardenne o Tempi moderni di Chaplin.
Naturalmente non intendo negare che una ricca e piena formazione umana (intellettuale, sociale, politica) possa essere acquisita anche attraverso l’esperienza del lavoro, o comunque attraverso esperienze che limitano od escludono la formazione scolastica. Intendo dire che un obiettivo come quello indicato (conseguire cioè una ricca e piena formazione umana) sia molto più difficile da raggiungere quando si riducono le chance universali di accesso alla cultura, e depauperare la scuola o descolarizzare la società sono appunto la vie maestre per ridimensionare tali chance.
Prendiamo un esempio-limite. Nell’Appendice del 1976 a Se questo è un uomo Primo Levi riferisce le parole di una sua amica, anch’essa reduce dalla deportazione: «il campo è stata la [mia] Università». In altri termini: «dopo aver vissuto in quel laboratorio socio-antropologico estremo che era la macchina di sterminio nazista (così Levi intendeva l’universo concentrazionario) non avevo più nulla da imparare». È ben vero, dunque, che persino un’esperienza così radicalmente straniante (nel senso del disumano) come quella del lager può essere formativa. Ma è altrettanto vero che qui siamo di fronte un paradosso, che il caso dell’amica di Levi e di Levi stesso sono in senso stretto eccezioni: ancora Levi ha scritto che tra i deportati i pochi che non sono stati annientati fisicamente, per lo più lo sono stati mentalmente e psicologicamente, ammutoliti e in molti casi resi incapaci di superare il trauma fino alla fine della loro vita. Levi e la sua amica sono sopravvissuti e hanno tratto insegnamenti dal lager, dunque, ma questo non vuol dire che una società possa sostituire l’università con il lager e ottenere gli stessi risultati.
Analogamente, quando Gorkij dà al racconto della sua difficile giovinezza il titolo Le mie università, non intende dire che sopravvivere da ragazzi vagabondando ed esercitando i più vari mestieri equivalga ad andare all’università, intende dire che proprio l’esempio della sua adolescenza travagliata dimostra quanto sia importante che bambini e ragazzi possano condurre una vita normale, andando a scuola e all’università. Una società non può sostituire l’università con il vagabondaggio e il lavoro precario e occasionale e ottenere gli stessi risultati.
Venendo alle conclusioni, diremo che se in singoli casi un’esperienza extrascolastica lavorativa o di volontariato o simili può rivelarsi effettivamente formativa (cioè capace di produrre una crescita cognitiva e psicologica), questa eventualità non può essere generalizzata ed eretta per così dire a sistema. Nel mondo attuale, di fatto, un corretto e ricco percorso culturale mediato dalla scuola è l’unico strumento che le società mettono a disposizione dell’universalità dei giovani per costruirsi una consapevolezza critica e una maturità intellettuale utili a rendere veramente fecondo il futuro di ciascuno, sia dentro sia fuori del mondo del lavoro (perché si lavora per vivere, e non viceversa).
Per venire ad argomenti più rozzi, infine, i genitori che accolgono senza batter ciglio l’idea che, invece di stare a scuola a imparare matematica, italiano o storia, i propri figli vadano a lavorare gratuitamente, dovrebbero chiedersi se i soloni dei media mainstream, che tutti i giorni dalle colonne del Corriere della sera o della Stampa predicano l’inutilità della scuola per i giovani perdigiorno italiani, si siano regolati di conseguenza con la propria prole, spedendola fin dalla fanciullezza dietro le greggi o negli opifici, o se invece non l’abbiano occhiutamente collocata nella classica “buona sezione” del “buon liceo” cittadino, onde avviarla a una “buona facoltà” (invariabilmente seguita da master e dottorati all’estero ecc. ecc.)
Il miglior futuro per l’alternanza scuola-lavoro è la sua rapida liquidazione. Potrà essere messa in campo come risorsa occasionale, nei casi di disagio sociale e conseguente avviamento precoce al lavoro, per ovviare o prevenire la dispersione scolastica (in tali circostanze, ovviamente, l’alternanza sarebbe tra scuola e lavoro reale, contrattualizzato e retribuito).
Le ragazze e i ragazzi che durante gli anni di scuola desiderano (o piuttosto, sfortunatamente, hanno bisogno di) lavorare, devono poterlo fare in presenza di adeguate tutele e adeguato compenso, nei periodi di sospensione delle lezioni e con modalità che non intralcino il loro percorso scolastico. D’altro lato, deve essere abrogato il principio arbitrario e illegittimo, che subordina il conseguimento del diploma di scuola superiore alla prestazione d’opera obbligatoria e gratuita.
1 La legge 107 pretende per l’appunto che gli allievi svolgano attività lavorative «coerenti con il loro percorso formativo», ma questa è una contraddizione in termini. La formazione scolastica nelle secondarie di secondo grado – a prescindere dalla distinzione tra istituti tecnici e professionali e licei – ha come scopi quello di sviluppare negli allievi il senso critico, la consapevolezza della complessità del reale, nonché l’acquisizione di concetti astratti e conoscenze di base che li mettano in condizione di affrontare gli studi universitari. Ora, non si vede come tali obiettivi possano essere conseguiti al di fuori di un percorso culturale, e come possa contribuirvi invece un percorso lavorativo. Quando Céleste Albaret entrò al servizio di Marcel Proust era una ragazza di 21 anni così ignorante, che pensava che Napoleone e Bonaparte fossero due persone diverse. Dopo aver vissuto dieci anni con lui rifacendogli il letto, preparandogli il caffè e ascoltando i suoi racconti, avrebbe potuto insegnare lettere alla Sorbona. Il caso della signora Albaret è tuttavia piuttosto insolito.
2 Oppure, con Gramsci, in modo meno arguto ma calzante: «Buaggine, tu sola sei immortale!»
3 Uso questo aggettivo in senso ampio, naturalmente. Anche l’attualità può e deve essere discussa nelle classi. È questa del resto, per gli studenti, una della poche occasioni nelle quali gli argomenti d’attualità possono uscire dalla piatta dimensione della notiziola di cronaca per acquistare uno spessore storico, sociale, politico.
Foto di jarmoluk / 1463