di MOWA
«I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela.» (Enrico Berlinguer)
Una Repubblica che si definisca democratica deve necessariamente rispondere ad alcuni requisiti minimi per sopravvivere come tale. Il primo, sicuramente, è quello di non accettare organizzazioni che portino nel proprio programma se non, addirittura, nel DNA (cultura) ambizioni autoritarie tanto da soffocare le stesse regole autenticamente partecipative dell’esrcizio del voto, si è visto con l’esperienza storica del movimento fascista che ha fatto scuola in tal senso, saliti con il voto, una volta insediatisi nel sistema hanno cambiato le regole abolendo le elezioni. Altra condizione minima è quella di rifarsi alla Costituzione antifascista vigente senza pretendere di modificarla con la scusa dell’“aggiornamento” perché alcune forze vorrebbero un presidenzialismo che limiterebbe l’esercizio della delega ai rappresentanti eletti ed al popolo stesso.
Cose che, in parte, alcune forze politiche hanno già parzialmente ottenuto – grazie alla ingenuità degli italiani – perché, nel tempo, sono stati erosi diritti e valori della prima Carta dei cittadini dando vita ad un abominio che è iniziato con lo stravolgimento del Titolo V sino ad arrivare alla riduzione degli esponenti parlamentari e senatori passando per la modifica dell’art. 81 che ha portato nella Carta Costituzionale il pareggio di bilancio (come se i conti potessero essere il fondamemnto di uno Stato) e poi a seguire con i vari “mattarellum”, “porcellum” e, infine, “rosatellum” che “incasinano” le regole per presentare alle elezioni le varie organizzazioni sociali, rendendo tutto più difficile e di fatto privilegiando gli intrallazzi di poltrona.
Un pateracchio voluto, probabilmente, per lasciare al palo tutte quelle forze che ambirebbero a cambiamenti economico-sociali consistenti a favore degli ultimi, invece viene dato un evidente vantaggio a quei “poteri forti” che lavorano nel sottobosco e nei gangli istituzionali. “Poteri forti” che sono riusciti, persino, a sconvolgere quelle regole etico-morali che riguardano la separazione tra i doveri dello Stato arrivando a favorire, persino, accordi con la criminalità organizzata (leggasi: mafia) come sentenziato di recente nelle aule di tribunale. In barba ai servitori dello Stato morti per contrastare la malavita.
Un “potere” tanto forte da aver fatto, addirittura, diventare Presidenti della Repubblica propri esponenti, [1] benché nella Costituzione sia vietata l’appartenenza a tali associazioni segrete (art. 18) reputate illegali,
Leggi che hanno prodotto, persino, processi ad personam, o ingiustizie ad ogni livello e che hanno sviluppato/sdoganato, invece di bloccare, il malcostume e la corruzione vanificando il lavoro di quei tutori dell’ordine che credono, ancora, nella giustizia come valore fondante il processo democratico di un paese che si definisce civile ed evoluto.
NOTE
[1] Ferruccio Pinotti in Potere massonico – La «fratellanza» che comanda l’Italia: politica, finanza, industria, mass media, magistratura, crimine organizzato – ed. Chiarelettere – pagg. 140
«…Ciampi fu iniziato nella loggia Hermes di Collesalvetti (dove prima della dittatura operava una loggia intitolata a F.D. Guerazzi) in provincia di Livorno. La loggia Hermes è parte del Rito filosofico italiano all’obbedienza del Grande oriente d’Italia, prospera tutt’ora e compare nell’elenco ufficiale delle logge toscane appartenenti al Goi. L’affiliazione di Ciampi mi è stata confermata da diverse fonti, la più autorevole delle quali è l’wx gran maestrodel Goi Di Bernardo, il quale nell’ambito dell’intervista rilasciatami per «Fratelli d’Italia» nel 2007 confermò l’appartenenza massonica di Ciampi, il quale non smentì e non querelò. Che Ciampi fosse massone mi è stato indicato anche da Licio Gelli in persona. Come pure dalla vedova di Roberto Calvi, Clara Canetti Calvi, che con il figlio Carlo ha numerose vicende connesse, di carattere massonico – attraverso la Kroll Investigations. Con Clara Canetti Calvi , a Montreal nell’autunno del 2004, avevamo affrontato il tema dei rapporti pregressi di suo marito con il governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi e con Lamberto Dini, il direttore generale. La signora Calvi aveva affermato con decisione che i vertici di Bankitalia dell’epoca Calvi avevano gli elementi per prevenire la grave crisi del Banco ambrosiano che scoppiò nella primavera del 1982, ma che non lo fecero in virtù di pressioni ricevute dai «poteri forti» dell’epoca…»