di MOWA
Vile e codarda l’aggressione, a Roma, al giornalista Federico Marconi ed al fotografo Paolo Marchetti de l’Espresso, da parte di una squadraccia fascista di Avanguardia nazionale durante la commemorazione per Acca Larentia.
Azione imperdonabile quella accaduta, l’altro giorno, a Roma ai giornalisti e che deve essere perseguita con la forza delle leggi di questa Repubblica che ha nel proprio dna i valori dell’antifascismo e non può tollerare nequitose bugie da parte di chicchessia per non condannare tali brutali azioni.
Detto ciò (e solidarizzando con i malcapitati giornalisti), ci chiediamo quale altro tipo di responsabilità possa avere, invece, la proprietà del gruppo editoriale (dove lavorano i due percossi lavoratori) che, pur di far passare il principio di non accettare la visione comunista del mondo, è stato (ed è) disposto a tollerare i reazionari (infatti per loro ha lavorato, anche, Giampaolo Pansa che ha infangato, in modo inqualificabile, la Memoria dei Partigiani che hanno dato la vita per questo Paese) costribuendo, in questo modo, a costruire una cultura revisionista nel nostro paese.
I vari Pansa, di quel gruppo editoriale, sono, solo, stati uno dei vari passaggi per indurre la popolazione ad abbandonare valori sociali importanti di solidarietà dal basso verso un verticistico gruppo élitario e, infatti, tempo fa scrivevamo che
“Carlo De Benedetti, imprenditore e finanziere molto vicino al PD, dal 2008 è membro del consiglio di sorveglianza della Compagnie financière Edmond de Rothschild Banque di Parigi e socio d’affari nel Gruppo Espresso-La Repubblica con Caracciolo, che nel 2007 è diventato secondo azionista del quotidiano Liberation, il cui primo azionista è il Gruppo Rothschild. La saga degli intrecci societari e famigliari di cui è composto il potere, dai Caracciolo ci porta direttamente agli Agnelli-Elkann, attraverso la nonna di John Elkann – Marella Caracciolo-Agnelli – i proprietari de La Stampa che hanno acquisito una parentela secolare con i Rothschild, tramite la famiglia Elkann. Che non potevano stare fuori da quei giochi societari che portano al controllo di importanti media: eccoli creare una bella “integrazione” tra il gruppo L’Espresso–Repubblica e Itedi, editore de La Stampa e de Il Secolo XIX. Per questi massocapitalisti questa sarebbe la vera libertà di stampa. Facciamo presente che i Rothschild sono al vertice di quelle disastrose, per noi proletari, politiche di privatizzazione avvenute nel nostro paese, che altro non sono che la svendita a costoro, o a membri della stessa oligarchia, di tutte quelle ricchezze del nostro paese che erano le industrie di Stato, i servizi pubblici e le infrastrutture come le autostrade.”[1]
Scrivevamo, anche, nel 2013, sul ruolo della proprietà del gruppo di quei poveri malmenati giornalisti
“…Questi liberali in prima fila nel voler cambiare la Costituzione, voluta soprattutto dai comunisti, prendono a pretesto il caso Berlusconi ma nei fatti colpiscono, in accordo con il frodatore di Arcore, una delle figure che hanno fatto parte dell’Assemblea costituente. Uno dei padri della nostra Costituzione. E’ evidente che per modificare la Costituzione in modo definitivo e renderla funzionale agli interessi dei capitalisti, da Berlusconi a De Benedetti, ai Rothschild-Caracciolo-Elkann e loro sottoprodotti, occorre eliminare dall’immaginario collettivo il ruolo dei comunisti nella Resistenza e soprattutto di quali valori essi sono portatori: l’eguaglianza tra gli uomini soprattutto e che la proprietà privata dei mezzi di produzione è un furto, la base di un sistema criminale…” [2]
Realizzando, così, la volontà più volte espressa di Gianni Agnelli di vedere la sparizione del Partito Comunista…
Infatti, sostenevamo anche che la descrizione della strategia padronale la si deve a Cesare Roccati e al suo libro Umberto & C. Gli anni caldi della Fiat (Vallecchi, 1977)
«Carlo De Benedetti, leader degli industriali piemontesi, pupillo dell’Avvocato ed ex compagno di scuola di Umberto, lanciò la “sfida imprenditoriale al Pci”. La tesi era suggestiva e partiva da un preciso presupposto. “Non sappiamo se credere più nel rinnovamento della dc o nel revisionismo del pci”, aveva detto poco prima l’Avvocato interpretando il disorientamento che serpeggiava nell’armata industriale. La Confindustria, insomma, prendeva ufficialmente le distanze dal mondo politico tradizionale, condannava in blocco la dc e prendeva atto che il “vuoto di potere” che si era determinato non poteva essere colmato “dai logori schemi” in cui si muovevano gli alleati dello scudo crociato: i repubblicani e i socialisti. Di qui la conclusione piuttosto suggestiva di De Benedetti: è tempo, scrisse, che gli industriali si pongano “come ispiratori di una politica economica generale, di un consenso che vada ben oltre la sola classe imprenditoriale”. Ed ancora: è tempo che “leader riconosciuti del mondo imprenditoriale e manageriale siano corresponsabilizzati nella gestione vitale per la ricostruzione del Paese”».
[…]
Sempre in questo libro viene analizzato cosa c’era dietro la proposta di De Benedetti (massone della loggia Cavour del Grande Oriente a Torino, con il brevetto n. 21272 di maestro dal 18 marzo 1975):
«Gli osservatori, allora si interrogarono a lungo. E tutti concordarono su un punto: era finito il tradizionale collateralismo con la dc ed iniziava per gli industriali l’era di un “impegno diretto”, come “ministri” di un governo “tecnico”, o addirittura come “partito”».
Questo progetto maturato negli studi ovattati della Fondazione Agnelli, il maggior laboratorio culturale d’Italia – e identico nella sostanza al Piano di rinascita democratica della P2 – è il canovaccio per far “scendere in campo” gli imprenditori in politica: compito di cui Berlusconi (tessera P2 1816) si farà carico. Con alcune caratteristiche peculiari al ruolo subalterno di esecutore di volontà altrui, secondo i valori gerarchici della massoneria, come ribadisce Gianni Agnelli durante la campagna elettorale del 1994, che ha portato Berlusconi al governo: «Se vince Berlusconi vinciamo tutti. Se perde, perde da solo». [3]
Certi comportamenti di ingiustificata tolleranza ad un sistema iniquo promosso dalla proprietà non possono che produrre devianze culturali che inducono, inevitabilmente, a mettere alla berlina gli stessi lavoratori di quelle testate se non si stabilisce, prima, che vanno tutelate le libertà di informazione assolutamente al riparo dalle ingerenze economiche dei proprietari, dando dimostrazione di non avere un cappio intorno al collo come potrebbe essere l’espulsione dal processo produttivo (licenziamento) in quanto non allineati; in questo modo, invece, si corre il rischio di vedere giornalisti, in buona fede, che, malmenati, cercheranno di fare il loro lavoro con onestà e spirito democratico…