Il “problema” dell’articolo 11 della nostra Costituzione, è che in fondo, come avviene un po’ in tutto il diritto, ma soprattutto nelle sue propaggini più “internazionali”, non c’è un’interpretazione universalmente accettata.
Come si diceva a proposito del TNP, dove “circostanze straordinarie” capaci di mettere a repentaglio i “supremi interessi” di un Paese possono anche far recedere dal trattato in tre mesi senza che nessuno degli altri partecipanti possa mettere in discussione l’opinabilità di questa decisione (come sempre avviene per gli interessi “supremi” e “sovrani” di uno Stato), anche in questo caso ci troviamo di fronte a qualcosa che ha, se così si può definire, una “scappatoia”.
Innanzitutto, leggiamo bene cosa dice questo articolo, e per “leggiamo bene” intendo “leggiamolo tutto”:
L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa della libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.
Ora, senza fare per forza un’esegesi, né completa né parziale, di questo articolo, quello che interessa rilevare è che esso è il prodotto del tempo in cui fu elaborato. Illuminante in questo senso è la Relazione del Presidente della Commissione per la Costituzione Meuccio Ruini che accompagna il Progetto di Costituzione della Repubblica italiana, nel 1947, che in merito all’art. 11 così si esprime:
Rinnegando recisamente la sciagurata parentesi fascista l’Italia rinuncia alla guerra come strumento di conquista e di offesa alla libertà degli altri popoli. Stato indipendente e libero, l’Italia non consente, in linea di principio, altre limitazioni alla sua sovranità, ma si dichiara pronta, in condizioni di reciprocità e di eguaglianza, a quelle necessarie per organizzare la solidarietà e la giusta pace fra i popoli. Contro ogni minaccia di rinascente nazionalismo, la nostra costituzione si riallaccia a ciò che rappresenta non soltanto le più pure tradizioni ma anche lo storico e concreto interesse dell’Italia: il rispetto dei valori internazionali.
Quindi, sembrerebbe tutto chiaro, a prima vista: il primo comma prescrive il ripudio alla guerra, il secondo consente limitazioni di sovranità necessarie ad assicurare pace e giustizia tra gli Stati, e il terzo esprime l’impegno a promuovere le organizzazioni internazionali che hanno proprio lo scopo di assicurare pace e giustizia. Tutto molto bello, avrebbe detto Pizzul.
Eppure, qualcosa non torna. E a suggerirci cosa non torna è proprio il finale della relazione di Meuccio Ruini: “il rispetto dei valori internazionali”. Un’espressione tanto generica, che pare avere un significato scontato, ma non lo possiede affatto. Inoltre, fa il paio con un’altra disposizione della nostra Carta costituzionale, quella del primo comma dell’art. 10, secondo il quale “l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute”.
E tra le “norme del diritto internazionale generalmente riconosciute” ci sono, guarda caso, quelle che disciplinano i modi di fare la guerra.
Non è un caso che, secondo gli studiosi italiani del diritto internazionale, queste disposizioni appena citate (l’art 10 comma 1 e l’art. 11) siano quelle che devono essere considerate per determinare se l’Italia possa ricorrere legittimamente o meno all’uso della forza armata.
Ed è proprio qui la scappatoia, anzi, sta proprio nell’art. 11, nascosta in bella vista.
Mi si obietterà: “ma come? L’Italia ripudia la guerra! Lo dice chiaro la Costituzione!”. Vero, ma solo in parte: innanzitutto, l’Italia ripudia la guerra come “strumento di offesa”. Cioè ripudia tutte quelle azioni considerate militari volte a offendere la libertà degli altri popoli o a conquistare altri territori. E fino a qui ci sarebbe comunque da ringraziare i nostri Padri Costituenti, che con questa formulazione vollero appunto prendere nettamente le distanze dalla “parentesi fascista” e dalla guerra di aggressione fatta insieme alla Germania nazista. Non è un caso che si usi il verbo “ripudiare”: è il ripudio verso il proprio passato scomodo, per essere finalmente accettati di nuovo nel novero delle Potenze “civili”. Ma qui si deve già deludere i pacifisti “senza se e senza ma”: il ripudio è verso una guerra di aggressione, non verso una guerra che sia difensiva o condotta nel quadro, ad esempio, delle Nazioni Unite. Secondo certe interpretazioni, sarebbe consentita anche una “legittima difesa” non solo dopo che un attacco da parte di un altro Paese sia stato sferrato contro il territorio nazionale (o quello di un altro Paese aggredito), ma anche prima, qualora il pericolo di attacco sia imminente.
Come se non bastasse, anche il secondo e terzo comma dell’art. 11 allargano la “breccia” del possibile utilizzo della forza da parte dell’Italia. In parte si è già accennato: dal momento che l’Italia fa parte dell’ONU, è chiamata a partecipare a tutte le operazioni volte al “mantenimento della pace” autorizzate da questa organizzazione. Questo avviene perché l’Italia consente “in condizioni di parità con gli altri Stati alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni”, vale a dire che consente che altri decidano anche per il nostro Paese ciò che è necessario fare per avere “pace e giustizia tra le Nazioni”. Che questo avvenga “in condizioni di parità” è palesemente falso: il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, come ben sappiamo, vede tra i suoi partecipanti cinque Potenze che vi siedono non solo a titolo permanente ma anche con diritto di veto.
Il terzo comma, di fatto, è ciò che serviva all’Italia proprio per entrare nell’ONU, dal momento che per aderire ad essa era necessario che lo Stato si dichiarasse “amante della pace“. Successivamente, stante l’assenza di una disposizione ad hoc, questo comma è diventato il fondamento anche dell’adesione italiana alla CECA, alla CEE ed infine anche alla UE, secondo una lettura avallata dalla stessa Corte Costituzionale a più riprese.
Quindi, forse è il caso di smettere di parlare dell’articolo 11 come di quello che dovrebbe tenere al riparo l’Italia da qualsiasi guerra. Si tratta di una interpretazione che puntualmente cozza contro la realtà, ma che fa a pugni anche con tutta la serie di scappatoie che proprio l’art. 11 individua per consentire all’Italia di partecipare ad azioni di guerra.
Si dirà che in ogni caso l’Italia, a norma dell’art. 11, ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. Però, a norma del primo comma dell’art. 10 l’ordinamento italiano si conforma a quello internazionale. E l’ordinamento internazionale disciplina tutta una serie di meccanismi di risoluzione delle controversie, l’ultimo dei quali è la guerra. Dato che sappiamo come va il mondo, sappiamo anche che per qualcuno è più facile far soldi dalle commesse di guerra piuttosto che dagli accordi che possono (eventualmente, ma molto raramente) nascere dopo un arbitrato che abbia pacificamente risolto una controversia tra due o più Stati.
Senza considerare, inoltre, che la prescrizione di non ricorso alla guerra va letta nel quadro generale dei valori che l’art. 11 esprime, che non sono solo quelli del ripudio alla guerra, ma anche quelli del mantenimento della pace, e quindi della sicurezza. Si può pensare che all’epoca della redazione della nostra Carta si immaginasse l’ONU come una vera “casa comune” in cui tutti i conflitti sarebbero stati scongiurati, ma si sarebbe trattato in ogni caso di una illusione, che già la realtà della Guerra fredda andava rapidamente cancellando. Il fatto che si possa consentire ad un Paese di reagire ad una aggressione subita è sicuramente logico, così come si può intuire che, appena usciti dal secondo conflitto mondiale, a tutti potesse risultare ovvio dover partecipare prima o poi ad un intervento che potesse scongiurare il ripetersi di un conflitto di quelle proporzioni o addirittura peggiore. Il problema è: come definire una guerra “giusta”, che era in fondo il compito dell’ONU?
Non è un caso, infatti, che durante la guerra fredda il Consiglio di Sicurezza dell’ONU si sia ritrovato praticamente immobilizzato dal potere di veto, in occasioni di conflitti come la guerra di Corea o la guerra del Vietnam. Spetta al Consiglio, infatti, stabilire che cosa sia un atto di aggressione, una minaccia o una violazione della pace (art. 39 della Carta ONU) e adottare di conseguenza misure implicanti o meno l’uso della forza armata (a norma degli articoli racchiusi nel capitolo VII della Carta ONU). Tali decisioni rientrano tra quelle contemplate dall’art 27 comma 3 della Carta delle Nazioni Unite, dove si configura il potere di veto dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza.
Guarda caso, l’immobilismo è finito quando l’URSS ha cessato di essere una superpotenza, impegnata come era invece nel proprio fatale esito. Proprio in quel momento il Consiglio di Sicurezza ha ritrovato la sua “unanimità” e ha potuto votare ben 13 risoluzioni contro l’Iraq di Saddam Hussein nel 1990-91.
Un discorso non molto diverso si può fare per tutti quei conflitti in cui l’Italia è intervenuta sotto l’egida Nato. Si tratta di conflitti che comunque hanno ricevuto, o prima o dopo (o almeno durante) l’avallo ONU con apposite risoluzioni: è in questo quadro che dobbiamo inserire le varie missioni IFOR , KFOR e ISAF. Senza entrare nei tecnicismi delle varie risoluzioni, si è trovato sempre il modo di qualificare questi interventi come risposte a minacce alla pace e alla sicurezza internazionale.
Tutto questo excursus a cosa dovrebbe servire? Sostanzialmente dovrebbe farci capire, ancora una volta, che non ci si deve fidare del diritto, che per quanto scritto non è scevro da interpretazioni di parte. La nostra Costituzione è bella, ma non è esente da difetti. E configura, proprio all’art. 11, un’Italia tutt’altro che neutrale (militarmente parlando) rispetto a quello che avviene nel mondo.
Uno degli errori che abbiamo sempre fatto a sinistra è pensare che l’Italia avesse una Costituzione che la salvasse dal rischio di entrare in guerra, che la ponesse al sicuro nel novero dei “pacifisti”. Quando alle manifestazioni contro la guerra e gli armamenti vedevo gli striscioni che citavano solo la prima fase (peraltro non in modo completo) dell’art. 11, mi chiedevo se qualcuno sapesse effettivamente quello che stava dicendo.
Mi chiedo spesso che cosa abbia pensato Togliatti, all’epoca. Se il PCI è stato capace di comprendere, nelle pieghe degli inevitabili compromessi che sono stati fatti nella redazione della Costituzione, le “trappole” insite in quell’articolo.
E mi chiedo anche cosa ne abbia mai pensato Berlinguer, per il quale “se l’Italia facesse parte del Patto di Varsavia, e non della Nato, evidentemente non potremmo realizzare il socialismo così come lo pensiamo noi”. Aggiungeva anche: “Ciò non vuol dire che qui, sotto l’ombrello della Nato, nell’ambito del Patto Atlantico”, ci si voglia far realizzare il socialismo”. Però viene da chiedersi: avrà mai immaginato Berlinguer, i pericoli insiti anche nelle pieghe della nostra Costituzione? Delle molte cose che ha detto, e che ho avuto modo di studiare, questa forse è una delle più controverse, nonostante la lucidità dell’analisi.
A mio modesto avviso, non è possibile realizzare alcunché sotto la Nato, se non il volere degli USA. Figuriamoci il socialismo, e senza dubbio lo sapeva anche lui.
Ma è anche “grazie” all’art. 11 che siamo dentro alla Nato. Non esiste, nella nostra Costituzione, qualcosa che ci impedisca davvero di entrarci, perché tutto quello che mantiene “la pace e la sicurezza”, a norma del diritto internazionale, viene recepito o comunque trova possibilità di essere accolto nel nostro ordinamento giuridico. In altre parole, il diritto internazionale difende lo status quo di un sistema che fa di tutto per non rinunciare alla forza armata. Il capitale prospera in tempo di pace, ma prospera ancora meglio in tempo di guerra. La nostra Carta Costituzionale lascia a questo sistema “esterno” una bella porta aperta sul nostro sistema “interno”, proprio tramite l’art. 11 e il 10.
Per questo, la “commemorazione” di quell’articolo, ha senso solo se di quell’articolo diamo un’interpretazione molto riduttiva. E, va detto, sbagliata.
Fabio Paffetti