di: Andrea Cinquegrani
“La TAV un’opera essenziale, M5s incapaci di intendere”. E’ così titolata una clamorosa intervista rilasciata al Giornale dal nemico “storico” (si fa per dire) di Silvio Berlusconi, ossia l’ex pm e (af)fondatore di Italia dei Valori, Antonio Di Pietro. Che lancia accuse pesantissime nei confronti dei grillini ed in particolare del ministro per le Infrastrutture e i Trasporti, Danilo Toninelli. Una poltrona che Tonino conosce molto bene, avendo guidato quel dicastero per il biennio 2006-2008, sotto i vessilli del governo Prodi.
Ma soprattutto Di Pietro, nel corso dell’intervista concessa al quotidiano diretto da Alessandro Sallusti, tesse uno sperticato elogio a favore dell’Alta Velocità, ottima e abbondante – come suol dire – per l’Italia e la sua sforacchiata economia.
Come si può spiegare l’attacco frontale ai 5 Stelle? E il totale endorsement verso la TAV? Solo perché ha coccolato il progetto quando era ministro? O perché da pm chiuse un occhio o forse tutti e due sulle prime inchieste a proposito di progetti e lavori per l’Alta velocità?
Partiamo da alcune frasi griffate Di Pietro.
IL VERBO DEL SUPER PM
Esordisce, l’ex pm, raccontando il suo ruolo salvifico al ministero per quei due anni: “Durante la mia gestione, unico caso, non è mai stato arrestato nessuno. Sa cosa ho fatto? Ho spostato tutti i funzionari, geograficamente. Quelli di Torino li spedivo a Napoli, quelli di Napoli li trasferivo a Torino. Io lo la capacità di capire l’antropologia dai volti”.
Il Lombroso de noantri ha di tutta evidenza esaminato il volto del suo odierno successore e così lo dipinge: “Toninelli è un uomo incapace di intendere e di volere. Per gestire un ministero ci vogliono uomini competenti. Per avere responsabilità, dice un fondamento del diritto, bisogna avere capacità intellettive. Ma Toninelli non ce la fa. Ripeto: incapace di intendere e di volere”.
Dai mentecatti ai geni il passo è breve: “Io sono quello che ha sbloccato la Gronda di Genova, la Variante di Valico e favorito l’Alta Velocità”.
E rincara: “La TAV va assolutamente fatta: un corridoio che arriva fino a Kiev. Vi sembra normale che arriviamo noi e blocchiamo tutto? E finiamola anche con l’analisi costi-benefici. Quando ero ministro ne avevamo fatte già otto”.
E per far capire cosa dice al popolo bue, ammaestra: “Si sta buttando tutto in caciara e nessuno ha spiegato agli italiani cosa sia la Tav. Io invece ho fatto questo esperimento e ho chiesto a una mia amica: ‘ Ma tu sei a favore della Tav’? Non sapeva neppure cosa fosse”.
Una battuta sugli amici d’un tempo, i grillini: “Gianroberto Casaleggio ha creato il M5s sugli errori dell’Idv. Non a caso mi disse: ‘Antò, io non mi faccio fregare come hai fatto tu. Non mi metto dentro gente che mi sputtana’. Il figlio lo conosco poco”.
Torniamo ad uno dei nostri interrogativi base. La passione dell’ex pm per il Treno ad Alta Velocità, meglio conosciuto come Tav. Una passione che nasce da molto, molto lontano.
E subito “attenzionata” da due grandi inquirenti, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. I quali, sulla scorta del rapporto del Ros “Mafia-Appalti”, diedero il via ad una serie di meticolose indagini sulle collusioni mafia-imprese-politica sul fronte dei grandi lavori pubblici, ed in particolare sulla Tav, allora in fase di decollo. Quelle indagini con ogni probabilità hanno portato alle stragi di Capaci e di via D’Amelio, come da anni sostiene Fiammetta Borsellino, figlia di Paolo, e man mano sta emergendo dalle ultime inchiesta siciliane, finalmente decise, dopo tanti anni di omertà, complicità e depistaggi, ad alzare il velo su quelle connection.
QUELLA CORRUZIONE AD ALTA VELOCITA’
Per districarci nei labirinti giudiziari e capire le non-indagini successive proprio sulla Tav, ci fa da bussola un libro uscito esattamente 20 anni fa, “Corruzione ad Alta Velocità”, scritto dal giudice coraggio Ferdinando Imposimato e dal giornalista d’inchiesta Sandro Provvisionato. Un libro profetico, perché già nel 1999 dettagliava uno scenario da brividi che ancora oggi non è emerso. Mentre invece ci si balocca tra inutili paraventi e pseudo analisi costi-benefici: come guardare la pagliuzza e non la trave.
Un affare, va rammentato, partito da 27 mila miliardi di lire nel ’90, passato a 150 mila nel 1998 ed oggi arrivato a cime altissime, neanche più calcolabili.
Uno dei protagonisti nel libro, e primattore sul palcoscenico di misteri & affari di casa nostra, è Pierfrancesco Pacini Battaglia, detto “Chicchi”. L’Uomo a un passo da Dio, lo definì subito Di Pietro nelle sue vesti di pm, ossia il depositario numero uno non solo dei mega segreti dei fondi neri targati Enimont, la “madre di tutte le tangenti”, ma anche sul fronte dell’Alta velocità. Il finanziere toscano coltivava grossi interessi in Svizzera, a bordo della sua Karfinco, attraverso cui transitarono negli anni ’80 anche capitali libici. Una sigla del suo arcipelago (messa in piedi con il costruttore partenopeo d’area Psi Eugenio Buontempo) dragò anche nei misteriosi fondali di Ustica, a caccia di preziosi pezzi del relitto del DC9 Itavia abbattuto da un missile (sta ora man mano venendo a galla quella tragica verità) lanciato da una portaerei francese.
Passiamo quindi in rapida carrellata alcuni stralci salienti del j’accuse firmato da Imposimato e Provvisionato concernente, in particolare, Non-Inchiesta made in Di Pietro, la totale non-utilizzazione della strategica fonte Pacini Battaglia e l’affondamento giudiziario del caso TAV.
“Tutto comincia nella prima metà del 1993, quando l’ex ministro socialdemocratico Luigi Preti presenta un esposto alla Procura di Roma nel quale vengono censurate le procedure seguite per la costituzione della società Tav spa, amministrata da Ercole Incalza. La denuncia viene affidata al sostituto procuratore Giorgio Castellucci. Ma ecco che accade qualcosa di inusuale. Nel corso di un vertice per chiarire alcune sovrapposizioni di indagini, vertice che si svolge nel palazzo di giustizia della capitale e al quale partecipano diversi sostituti procuratori di Roma e Milano, viene deciso lo sdoppiamento dell’appena nata inchiesta sull’Alta Velocità. Al vertice partecipano tra gli altri anche Giorgio Castellucci e Antonio Di Pietro. E’ stato lo stesso Castellucci, nell’ottobre del 1996, a spiegare come andarono le cose. Il magistrato romano – è bene evidenziarlo – nel 1993 aveva appena aperto il fascicolo sull’Alta Velocità, ma Di Pietro – racconta Castellucci – gli confidò che su quell’argomento aveva cominciato a parlare l’imprenditore Vincenzo Lodigiani, secondo il quale intorno al progetto Tav c’era una vera e propria ‘programmazione tangentizia’. Fu così che a Roma rimase l’inchiesta sulla correttezza delle procedure con cui era stata costituita la Tav spa di Incalza, mentre quella sugli appalti per l’Alta velocità ferroviaria finì a Milano nelle mani di Di Pietro”.
INCHIESTE SCIPPATE
Per cui la “polpa” dell’inchiesta finisce alla procura milanese, sotto gli inflessibili riflettori del pm. Al quale nulla sfugge.
Così prosegue la ricostruzione di Imposimato e Provvisionato, regolarmente ignorata dai media e mai tornata alla ribalta sotto il profilo giudiziario..
“Già nel 1993, quindi, c’è chi indaga sull’Alta velocità. Per la verità esistono ben due inchieste, una milanese e l’altra romana. Ma fino al 1996, q uando interverranno gli ordini d’arresto di La Spezia, non succede nulla. Come mai? La tranche d’inchiesta presa in carico da Di Pietro a tutt’oggi (siamo nel 1999, ndr) non si sa che fine abbia fatto. Di Pietro se ne spoglia quando nel 1994 abbandona la toga”.
Seguono, a Roma, una serie di richieste di archiviazione, avanzate sia da Castellucci che dal gip Augusta Iannini, consorte di Bruno Vespa. Poi cala il solito sipario nello storico “porto delle nebbie”.
Ma resta in piedi una trance dell’inchiesta che passa ad un altro pm, Giuseppa Geremia, la quale vuole vederci chiaro in quella strana spartizione di atti giudiziari avvenuta nel 1993 tra Castellucci e Di Pietro. Alla Geremia non era scappato un particolare: non era la prima volta che Di Pietro si appropriava di un’inchiesta nata a Roma. Era già successo con l’inchiesta sui soldi spariti della cooperazione di cui era titolare il sostituto procuratore di Roma Vittorio Paraggio”.
Un’inchiesta bollente che puntava i riflettori sui giganteschi flussi miliardari di soldi pubblici per la (finta) cooperazione: un filone d’indagine che balzò subito all’attenzione di Ilaria Alpi e la condusse al tragico viaggio in Somalia. Costato la vita sia a lei che al reporter Rai Miran Hrovatin: un altro buco nero della nostra storia sul quale la procura di Roma capeggiata da Giuseppe Pignatone vuole oggi mandare per sempre in naftalina via archiviazione.
Quelle indagini d’inizio anni ’90 sui soldi alla cooperazione (per un totale di circa 50 mila miliardi di lire) arrivavano fino ai piani alti della politica, in particolare ai craxiani d’un tempo e al faccendiere in odore di garofano Ferdinando Mach di Palmenstein. Proprio come i traffici di armi & rifiuti su cui indagava di Ilaria Alpi toccavano anche imprese molto vicine ai palazzi del potere, per fare un solo esempio la Techint che faceva e fa capo al gruppo Rocca, a fine anni ’80 guidata dall’amico Paolo Scaroni, cugino della socialista Margherita Boniver e futuro vertice prima di Enel e poi di Eni (oggi uomo del colosso Usa Elliot e presidente del Milan).
L’UOMO A UN PASSO DA DIO
A proposito dell’inchiesta di Paraggio che solleticava molto Di Pietro, così continua ‘Corruzione ad Alta Velocità’: “l’11 giugno 1993 Paraggio aveva ricevuto un fax da Di Pietro nel quale lo invitava a trasmettergli gli atti relativi alla posizione di Pierfrancesco Pacini Battaglia, che Paraggio aveva iscritto nel registro degli indagati. (…) Paraggio aveva indagato Pacini Battaglia a proposito di un progetto di cooperazione che si sarebbe dovuto realizzare in Africa e di cui si occupava l’imprenditore Paolo Caccia, titolare della CTP (altra azienda all’epoca super chiacchierata, ndr)- Ma nel fax – stando alla versione di Paraggio – Di Pietro insisteva per avere le carte relative al banchiere italo-svizzero. Il motivo: Pacini Battaglia, indagato anche a Milano nell’ambito del processo Enimont, stava collaborando. Quindi era opportuno evitare qualsiasi forma di sovrapposizione”.
Così commentano Imposimato e Provvisionato: “Basterebbe questa nuova invasione di campo di Di Pietro per far drizzare le orecchie a chiunque. Prima la faccenda sull’Alta velocità in cui Pacini aveva avuto un ruolo determinante, poi quella della cooperazione dove il pubblico ministero punta la sua attenzione proprio su di lui, sul tanto discusso banchiere. Se una coincidenza è una coincidenza, due diventano un indizio. Almeno così ragionava Di Pietro quando faceva il magistrato”.
“Ma c’è molto di più. Che Roma stesse indagando su Pacini Battaglia fin dal 1993 lo scoprirono i magistrati di La Spezia Alberto Cardino e Silvio Franz. Sono loro a chiedersi che fine avrà fatto quell’inchiesta. Prendono quindi contatto con la Procura di Roma, scoprendo che quegli atti sono stati inviati da Paraggio a Milano. Cercano allora i colleghi di Milano. Di Pietro non è più da tempo in magistratura, è vero, ma quelle carte su Pacini dove sono mai finite? I magistrati di Milano cadono dalle nuvole. Qui da noi sul faccendiere e su suoi affari con la cooperazione non c’è proprio nulla. Si scopre così che quegli atti, quelle carte sono scomparsi. Spariti. Ma ci sono anche altri atti spariti. A Roma non si trovano più alcuni documenti sequestrati a Mach di Palmenstein. Già, proprio così, alcuni documenti facenti parte del dossier in cui si parla ancora di lui: di Antonio Di Pietro”.
Nel libro vengono ricostruiti altri dettagli inquietanti sul fascicolo bollente dei soldi alla cooperazione. Con un Di Pietro che cerca in tutti i modi di smentire Paraggio, negando che a lui fosse “mai stato trasmesso un fascicolo processuale riguardante la posizione di Pacini. Tutta la documentazione sequestrata a Parigi nell’abitazione di Mach di Palmenstein è stata ritirata personalmente, direttamente ed esclusivamente dal pm Paraggio”.
L’AMICO AVVOCATO
E’ così – scrivono Imposimato e Provvisionato – che “Paraggio finisce nei guai. Sarà indagato dalla procura di Perugia e la sua posizione sarà archiviata solo nel 1999. I sospetti su Di Pietro finiranno a Brescia. Archiviazione anche per lui. A scoprire l’arcano sono i pm di Perugia che scrivono: ‘’gli atti relativi a Pacini (in tema di cooperazione, nda) sono stati effettivamente trasmessi a Milano’ dopo che, su istanza dell’avvocato Giuseppe Lucibello, il pm Di Pietro chiese al collega Paraggio di non svolgere indagini su Pacini”.
Ancora, tornando all’altra fonte fondamentale, il mattonaro milanese Vincenzo Lodigiani: “Sarebbe bastato indagare a fondo su Vincenzo Lodigiani per arrivare agli affari sporchi che Pacini Battaglia aveva messo in campo nel settore dell’Alta velocità. Ma al lettore manca un particolare illuminate. Perché l’indagine mancata su Lodigiani risaliva anche questa – come quella sulla Tav spartita tra Castellucci e Di Pietro – al 1993, cioè a ben cinque anni prima. E, guarda caso, anche l’inchiesta sugli affari di Lodigiani condotta a Roma dal sostituto procuratore Antonino Vinci era finita a Milano. Dove, guarda caso, era stata affossata”.
E, guarda ancora caso, chi è mai l’avvocato che difende Chicchi Pacini Battaglia? Con tutti i soldi che ha, il finanziere italo elvetico può permettersi qualunque principe del foro. E invece a chi dà l’incarico? Ad un signor nessuno, un avvocaticchio di provincia, arrivato dal Sud e subito diventato, nei salotti della “Milano da bere”, grande amico di Antonio Di Pietro. Si chiama Giuseppe Lucibello. Il quale riesce nel “miracolo” di far ammorbidire il pubblico ministero che ha sotto inchiesta il cliente “eccellente”. Il solito pugno di ferro utilizzato dal super pm con i suoi imputati stavolta prodigiosamente si trasforma in un guanto di velluto. Niente galera, per l’Uomo a un Passo da Dio. Tutto sepolto, tutto in gloria.
E la grande abboffata per i fiumi miliardari dell’Alta velocità può continuare. Più felice ed impunita che mai.
25 Febbraio 2019