di Gerardo Coco
Il governo americano cerca di stimolare artificialmente l’economia attraverso una devastante politica espansiva del debito pubblico che mina sempre più il valore del dollaro
Appena insediata, la nuova amministrazione aveva riconosciuto che il problema del paese era quello di un’economia basata sul debito ed ora vuole risanarla con altro debito! Ma questa è la regola: più le politiche economiche sono fallimentari più si ricorre alla spesa pubblica nell’illusione che stampando denaro in continuazione, alla fine, le cose si mettano a posto.
Lo scenario prossimo venturo è, quindi, quello di una stagflazione, ma molto peggiore di quella degli anni 70: inflazione, disoccupazione e un drastico abbassamento del tenore di vita caratterizzeranno il paesaggio economico americano.
Il motivo per cui ciò avverrà è che il sistema industriale, cioè il vero ed unico luogo di formazione dei valori economici, si sta sempre più deteriorando e l’espansione della spesa pubblica aggrava la situazione.
L’enorme massa monetaria creata dal deficit e dai vari salvataggi di aziende pubbliche e private inefficienti, in un contesto di riduzione di risorse industriali, abbassa drasticamente il potere d’acquisto del dollaro all’interno ed all’esterno. I paesi partners degli USA si stanno accorgendo che, ridottasi la base industriale, l’America non può far altro che indebitarsi per acquistare beni che non è più in grado di produrre. Ma il problema che si paventa è che non sarà più neppure in grado di restituire i debiti contratti per acquistare i prodotti che consuma.Nessuno vorrà più essere creditore degli Stati Uniti e pertanto è attendibile l’ipotesi che il dollaro cessi di essere la valuta internazionale di riferimento.
Con la fine della dollarizzazione del mondo, le materie prime non sarebbero più quotate in dollari ma in altra valuta, probabilmente quella del paese riconosciuto come leader industriale mondiale. Al G20 è stato richiesto di sviluppare i Diritti Speciali di Prelievo come nuova moneta di riserva internazionale, il che in realtà sarebbe il primo passo verso la nuova rivoluzione finanziaria: la creazione di una moneta unica mondiale. Questa naturalmente sarebbe un scelta folle perché, qualunque sia l’organismo emittente, Fondo Monetario o Banca Mondiale, è prevedibile che non agirebbe in modo politicamente neutrale e le sue decisioni andrebbero a favorire alcune nazioni a spese di altre.
Ma il peggio sarebbe che l’istituto di emissione, non avendo remore a stampar denaro oltre ogni limite, farebbe della nuova valuta uno strumento di propagazione di inflazione mondiale. Pertanto, nell’ipotesi di declassamento del dollaro, che ogni paese sia libero, di scegliersi la valuta di riserva che gli aggrada senza imposizioni di burocrazie sopranazionali e che le rispettive monete competano liberamente fra di loro. Solo così si potrà salvaguardare l’economia ed il commercio mondiale. Comunque sia, tutte le proposte di risanamento che cercano di trovare soluzioni nell’ambito monetario od in quello dell’intervento statale, ignorano il problema fondamentale: le economie sane si basano sui processi industriali e non sui deficit spending o sui processi monetari. Questi ultimi, poi, sono solo il riflesso di ciò che avviene a livello produttivo.
Il valore del dollaro
Da dove trae origine la forza di una valuta? Fondamentalmente, dalla competitività ed efficienza del sistema industriale di cui essa è espressione. La valuta è il mezzo di pagamento per acquisire beni e servizi di un paese ed il suo valore, in un sistema di cambi fluttuanti, è determinato, come qualsiasi altro bene, dalla domanda ed offerta: maggiore l’offerta, minore è il suo valore, maggiore la domanda, più elevato è il suo valore.
Se un paese ha un sistema produttivo efficiente, in grado di offrire, a prezzi competitivi, beni e servizi che altri paesi desiderano acquistare, la domanda della sua valuta aumenterà rispetto ad altre valute facendone salire il prezzo: il tasso di cambio. Quest’ultimo, è, in ultima analisi, determinato dal potere d’acquisto dell’unità monetaria ed i tassi di cambio rispecchiano i relativi poteri d’acquisto delle valute. La domanda di una valuta significa, essenzialmente, domanda di potere d’acquisto ed è per questo che ci si vuole sganciare dal dollaro.
Il potere d’acquisto origina dai processi industriali da cui dipende la ricchezza e la competitività di una nazione che è espressa, appunto, dal potere d’acquisto della sua valuta e non dalle politiche monetarie e dalla spesa statale che, al contrario, ne minano il valore. La valuta del paese la cui massa monetaria cresce più velocemente rispetto a altri paesi si svaluta perché stimoli artificiali, spese statali, sussidi, salvataggi di industrie inefficienti e credito facile inflazionano l’economia, indebolendone la competitività e distorcono, fino a distruggerla, la sua base industriale. Quando, per risanare l’economia, il governo americano punta sulla politica dideficit spending, che significa spendere più di quanto percepisca in tasse, indebitandosi per la differenza, provoca un aumento del tasso di interesse. Poiché la Banca Centrale coordina l’espansione monetaria con riferimento ad un particolare tasso di interesse (target rate), essa, per far scendere il tasso, è costretta ad espandere sempre di più la massa monetaria di dollari. In questo modo l’indebitamento dello Stato incoraggia la creazione artificiale del credito fino ad inondare l’economia di dollari con l’effetto di diluirne il valore in termini di beni acquistabili. Inoltre la spesa pubblica, sottraendo in maniera arbitraria risorse e capitale alla economia privata, crea sovrapproduzioni in alcuni settori industriali e sottoproduzioni in altri, squilibrando l’economia e distorcendone la struttura dei prezzi, come è accaduto quando il governo americano ha incoraggiato artificialmente il settore immobiliare innescando un boom seguito dal crollo di tutta l’economia.
In una economia di mercato gli eccessi produttivi verrebbero eliminati automaticamente dalla caduta dei prezzi e dall’aumento dei costi e la conseguente contrazione della produzione in eccesso libererebbe risorse per quei settori economici la cui produzione è scarsa. Solo il libero mercato è in grado di creare quel mix della produzione di beni in grado di soddisfare in modo equilibrato la domanda ed eliminare le speculazioni.
Il valore del dollaro e dunque il destino dell’America, dipende dal rilancio della sua base industriale e dalla drastica riduzione del debito pubblico, cioè esattamente il contrario di quello che l’amministrazione Obama sta facendo.
La Fede nel mercato
Contrariamente a quanto si pensa, dopo il secondo conflitto mondiale le economie tedesca, italiana e francese si svilupparono indipendentemente dagli aiuti del piano Marshall che andarono per la maggior parte all’Austria ed alla Grecia. In particolare, il miracolo della Germania dell’Ovest, rasa al suolo dal conflitto, fu dovuto quasi completamente alla liberalizzazione del mercato e non agli aiuti del piano Marshall che rappresentarono solo una piccola percentuale del prodotto nazionale e che andarono a compensare il pagamento per le “riparazioni” di guerra. A partire dal 1948, la Germania promosse un radicale programma di privatizzazioni e di deregulation smantellando il sistema fiscale e di controlli imposto dal Nazional Socialismo del regime hitleriano.
Il Giappone, paese anch’esso devastato dalla guerra e privo di risorse naturali si ricostruì senza interferenze statali: riduzione delle tasse al minimo e alti tassi di accumulazione di risparmio attivarono uno sviluppo industriale formidabile durato fino alla fine degli anni 70. Quando questo paese, successivamente, seguì il dogma degli “stimoli” (espansione del credito ed interventi pubblici) che sulle economie hanno gli stessi effetti che gli steroidi hanno sul corpo di un individuo, imboccò la strada del declino industriale.
Si potrebbero citare altri esempi di sviluppi industriali non stimolati dall’interventismo statale, come quelli della Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong e Singapore. Non si tratta di casi speciali ma di una regola: solo l’economia privata è fonte dello sviluppo e della ricchezza sociale: la politica economica dello stato può solo tentare di ridistribuirla.
Ma abbiamo visto a quale prezzo. Non ci fu nessun miracolo nella Germania e nel Giappone del dopoguerra.
“Miracolo” è un termine che suggerisce che il sistema economico dipenda da qualche forza che và oltre la comprensione umana, ma altro non è che la conseguenza del libero operare delle energie imprenditoriali, le sole capaci di risanare le economie.
La forza del dollaro dipende dunque da ciò che l’azione dello stato americano sta ora soffocando: quello spirito di impresa che nel passato ha pervaso tutta la sua cultura facendone la più grande democrazia del mondo.