Bombardamento ideologico in aiuto al capitale
di Carla Filosa
Ambizione delusa
della debole mente
non avere princìpi,
dei quali ti è concesso
il minimo di uno:
a lui non puoi sfuggire.
Non avere princìpi
chiàmalo propriamente
rendere omaggio a lui,
principio dominante.
Gianfranco Ciabatti, Niente di personale, 1989, Sansoni.
“Nuovo” ritorno al passato remoto
Non sembri inutile riappropriarsi di ciò che è stato perduto nella subdola continuità del processo avvenuto, con la vittoria del sistema sullo spegnimento programmatico della memoria nelle masse subalterne: cancellazione della storia in genere e in particolare dell’identità di classe, ormai estesa a livello mondiale.
Dagli studi storici effettuati su un passato arcaico risulta che la memoria, distinta dall’abitudine, costituisca la progressiva conquista di un passato individuale, con una funzione parallela alla storia sviluppatasi in seguito, che rappresenta la conquista sociale del proprio passato collettivo. Nella notte dei tempi della cultura europea originatasi in Grecia, la funzione mnemonica era stata sacralizzata e mitizzata, in quanto richiedeva sforzo, allenamento ed esercizio che solo pochi riuscivano a sostenere. Gli aedi e i veggenti, molti dei quali tramandati come ciechi alla luce, venivano ispirati dalle divinità per “vedere” le realtà che sfuggivano allo sguardo dell’uomo comune. L’equivalenza del ricordare, sapere, vedere si fondava sulla facoltà di essere presenti al passato. La conoscenza dell’uomo ordinario era infatti “un sapere per sentito dire, fondato sulla testimonianza di altri, su discorsi riferiti” (J.P.Vernant, Mito e pensiero presso i Greci, PBE 1970-8 e 2001). La visione personale diretta, propria del poeta o aedo, consentiva invece, di presenziare alla successione temporale degli eventi, quale rivelazione divina. Ciò implicava preventivamente un addestramento, un apprendistato del suo stato di veggenza, dopo il quale era possibile fissare e quindi trasmettere quelle conoscenze mediante cui il gruppo sociale riusciva a decifrare il proprio passato. Questo veniva così identificato come fonte del presente di cui bisognava comprendere la complessità del divenire, anche se il passato, in un’accezione in cui l’essere e il divino coincidevano, appariva come una dimensione dell’al di là.
Senza soffermaci ancora nelle varie accezioni della rimemorazione e dell’oblio sviluppatesi presso gli antichi, interessa oggi cogliere quanto la tecnologia attuale e gli obiettivi dominanti siano riusciti a riesumare, nei primordiali meccanismi attivati della memoria, il perseguimento dei propri fini dispotici. Oggi la memoria viene gestita, o proprio inventata, non più da una divinità ma ugualmente da chi detiene poteri speciali – think tank, politici, intellettuali o scienziati organici al sistema, ecc. – non più per “vedere”, bensì per far vedere realtà fittizie funzionali al consenso della propria identità individuale e collettiva, da cui l’uomo comune deve essere invece distolto. Il passato serve ormai come pozzo da cui far riemergere eternabili attrezzi delle forme di potere trascorso, per riadattarli a una “modernizzazione” incapace di far fronte alle contraddizioni del presente.
Un solo esempio tra i tanti possibili: quello della “memoria condivisa” nella revisione storica delle vittime delle foibe, recentemente rinverdita nella “Giornata del Ricordo” – o della riabilitazione – del 10 febbraio scorso. Nel settantesimo anniversario della Liberazione sono state infatti assegnate onorificenze a repubblichini, squadristi e criminali di guerra “per aver difeso i confini della Patria”(la Repubblica,17.03.’15). A meno di un mese di distanza, si viene a sapere, “in modo casuale e in mancanza di un elenco pubblicato”, di un numero alto di fascisti o collaboratori nazisti premiati dal sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Graziano Del Rio. Identificare resistenti e fascisti nell’“umanizzato” ruolo di vittime o “martiri”, non solo chiama tutti allo stravolgimento del passato nell’equivalenza degli aggressori con gli aggrediti, ma impone l’impossibilità di schierarsi in un presente di solida collusione tra destra e sinistra, complici nella confusione ideologica per il disarmo delle masse da assoggettare. Partendo da lontano, l’obiettivo di ri-legittimazione della forma storica fascista, nella deliberata ignoranza della Costituzione (Disposizioni transitorie e finali: XII – “È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”), potrà portare gradualmente a tollerare benevolmente – cosa già nelle cronache – pestaggi isolati ma ricorrenti, e poi sempre più strutturati in organizzazioni dalle denominazioni mascherate. Siamo di nuovo di fronte alla violenza fisica per alcuni, come diversivo dal comprendere quale difesa sia possibile dalla violenza governata per i molti.
1. “Nuovo” potere delle parole
Passando alla generalizzazione dell’uso informatico, nel costante abuso dei tweet, ad esempio, è facile sedimentare una comunicazione frantumata, episodica, sloganistica e a predominio di un presente privo di complessità e riferimenti che non siano la sola fascinazione del visibile, o della battuta. La comunicazione, al posto della conoscenza, relegata ad un ristretto qui e ora, non richiede più nessuna cultura o esigenza di apprendimento, ma solo velocità mentale nell’apparire sempre adeguati a ciò che altri si attendono. a) Adeguati all’esecuzione del ruolo affidato dal potere – ormai sovranazionale -, b) adeguati all’aspettativa di masse continuamente mantenute lontane dalla realtà, che non devono vedere, men che mai capire. Il passato collettivo subisce così la distorsione necessaria alla affannosa legittimazione del presente da parte di governi continuamente alla conquista di affidamento politico, sia con le leggi elettorali (dal porcellum all’italicum), sia con promesse roboanti (dal “milione di posti di lavoro” al “job indeterminato”). Serve solo abilità comunicativa – e Renzi ne è padrone – che equivale a persuadere. Il sofista Gorgia, (circa il 480 a.C.), sosteneva che “la parola non coincide con le cose che sono dotate di una reale esistenza; dunque noi comunichiamo agli altri non le cose che esistono, ma la parola”, questa “è un potente sovrano, poiché con un corpo piccolissimo e del tutto invisibile conduce a compimento opere profondamente divine”! La parola genera cioè “persuasione” (Peithó), non dunque un criterio di verità ma lo strumento per imporre la verità: il discorso ben costruito. Persuadere i semplici sulla base dei loro desideri, alla ricerca di una fiducia che neghi il riconoscimento degli interessi contrapposti, significa centrare l’obiettivo di soffocare ogni possibilità di lotta all’impoverimento e alla diseguaglianza in aumento, alla corruzione dilagante, alla barbarie alle porte o forse già tra noi..
L’identità di ricerca fideistica con le forme religiose più ancestrali non viene colto come tale dalla coscienza comune, costantemente costretta invece al timore dalle pressioni xenofobe, razziste, nazionaliste e pseudo patriottiche riesumate. Il mantenimento del privilegio territoriale e di cittadinanza “autoctono”, di contro allo straniero presentato come pericolo, è in auge da almeno ventisei secoli, e sempre riorganizzato come nuovo e attuale. Prova ne sia la manifestazione del 28 febbraio scorso a Roma, in cui la fusione strumentale tra leghisti e nuovi squadristi sotto le bandiere spigate di “Sovranità”, maturate dalle fogne di Casa Pound e altri attrezzi resuscitati dal fascismo che fu, cercava di ribadire lo stop alle immigrazioni forzate, la paura di infiltrazioni terroristiche e la “difesa” del territorio: il 15 marzo Salvini, sempre in primo piano mediatico, ha riaffermato con forza di chiudere con gli sbarchi e di “difendere” le frontiere. Il rigurgito nazionalista che ne è scaturito si è pregiato inoltre di parlare “del presente e del futuro, non del passato”. Saluti romani e dichiarazioni nazionalistiche passati per “contenitore de-ideologizzato”, sono il contrassegno reazionario dell’incultura che proprio non riesce a “vedere” che finanche nelle squadre di calcio italiane – su cui si scaricano spesso, e proprio da parte degli stessi soggetti, bassezza, violenza e razzismo gratuito – i giocatori provengono ormai da tutte le etnie e nazionalità del mondo, con le frontiere spalancate dai miliardi che guadagneranno dirigenti sportivi, imprenditori e proprietari in genere.
2. “Nuovo” potere delle immagini
Infine, non è ancora chiaro se, per la nostra governance, si tratta di un aiuto insperato o predisposto il quadro visibile proveniente prima dai talebani e ora dall’Isis. Le sequenze tv delle statue dei Buddha fatte esplodere, o delle mazze che frantumano statue assire o mesopotamiche offrono uno spettacolo facilmente esecrabile da una sensibilità occidentale moderna. Gli atti vandalici sono poi la coerente prosecuzione degli assassinî brutali passati nei video, in seguito a cui la ripugnanza per la barbarie “musulmana” dovrebbe saldarsi in un senso di superiore civiltà che connota il nostro sentire, per cui a vari livelli sociali si reputa giusto anche un intervento militare quale che sia. La perdita di identità storica e di classe cui siamo stati sottoposti non ha certo avuto i caratteri di rozzezza rapida ed evidente come questo prodotto dell’esportazione politico-militare della nostra superiore “democrazia”. Se però riuscissimo a ricostruire alle nostre spalle gli eventi diluiti nei secoli della nostra “civiltà”, troveremmo roghi religiosi che hanno dimezzato l’Europa del ‘500/’600, torture con ingegnose strumentazioni di sadici, impedimento di libero pensiero, di scienza, di religione, ecc., mediante l’“Indice dei libri proibiti”, censure nelle edizioni e librerie, senza parlare delle stragi (Catari, ecc.) o dell’eliminazione di tradizioni fuori controllo (Vangeli apocrifi, consuetudini pagane, templi antichi, ecc.). Ciò che si vuole ricordare ora è che la barbarie che ci ha caratterizzato è stata accuratamente sepolta nei tempi “dimenticati” del nostro vivere ideologizzato, mentre continua a sopravvivere in tutte le forme di violenza sociale, percepita però solo come eccezione rassicurante.
Dopo questa lunga carrellata sovrastrutturale dovrebbe risultare chiara la persistenza di forme rimodernate del potere dispotico, tramandate anche attraverso modi di produzione diversi, in quanto appannaggio di un potere di classe diversificato ma mai estinto finora. Il rifugio dei poteri finanziari, dietro le effigi mutevoli ma intercambiabili dei burattini politici, non deve ingannare al punto di non saper riconoscere la violenza delle normative giuridiche, o decretazioni governative, nei confronti delle classi lavoratrici. Le leggi, benché risultato di mediazioni sociali, nascondono sempre un risvolto favorevole alle scappatoie dei potenti. L’abbattimento dei diritti in atto, realizzato sotto falso nome, altro non è se non il comando padronale che si inscrive nelle istituzioni quali cristallizzazioni delle leggi dell’accumulazione in crisi. La prima riforma realizzata non a caso è stata quella che centra il rapporto dialettico del capitale col lavoro. Quella in cui gli esseri umani, valorizzati solo in quanto risucchiati all’interno di un capitale variabile al risparmio, sono ora impacchettati entro le “nuove” normative denominate “Jobs-Act”, vecchissimo armamentario di rapina del quasi invisibile salario sociale. Si dovranno vedere le assunzioni drogate nel numero mentre si omette, già entro le righe della legge, la visibilità sulla qualità lavorativa, sulla sua permanenza, sulla dequalificazione in agguato, sulla decurtazione salariale, sull’orario lavorativo fluttuante, sulla normalizzazione del ricatto.
Job e non work
La dominanza mondiale ci impone di usare termini che non appartengono alla nostra lingua, e di cui quindi forniamo subito la traduzione. Il primo si riferisce per lo più a “mansione”, lavoro dato, impiego lavorativo ricevuto, il secondo all’attività svolta, alla fatica oppure anche all’oggetto lavorato, a lavoro eseguito. Ambedue traducono l’unico termine italiano “lavoro”, le cui sfumature linguistiche emergono solo dalle aggettivazioni annesse o dai contesti, da cui poi rilevare i concetti sottesi. Da questa distinzione, molto sommaria, si può però già trarre una distinzione fondamentale: il job riguarda, soprattutto al plurale, il posto di lavoro, il lavoro richiesto dal capitale bisognoso di una normativa che coincida con le sue leggi di funzionamento e le renda operative, mentre il work, o lavoro oggettivato nella creazione di valore, non viene preso in considerazione nell’attuale “riforma”, tanto risulta come sola acquisizione interna al processo di valorizzazione stesso. Perciò nel job ri-normato non si darà più conto: a) della sovrapposizione capitalistica di processo di lavoro (produttore di valori d’uso) distinto invece dal processo di valorizzazione (produttore di valore per l’appropriazione e ripartizione privata dei capitali); b) della specificità, quale unica creatrice di valore, della forza-lavoro abusata nella sua utilizzazione al minimo della sua retribuzione storicamente possibile. Pertanto al punto a) verrà ideologicamente eradicata ogni ipotesi di superamento ed estinzione del sistema di capitale, eternato nella sola produzione di valore e plusvalore, con qualunque costo sociale in ognuna delle sue fasi. Si rafforzerà inoltre la cancellazione di una realtà in movimento verso altri modi di produzione – quale necessità storica – secondata anche dalle forme coscienziali indipendenti. Mentre al punto b) sarà fatto risultare che è il solo capitale ad essere produttivo e che le sue leggi ne riescono a regolare crescita e ripresa, per un benessere sociale atteso cui non si può che adeguarsi. Il tutto conduce a ritenere l’ideologia dominante come la sola cui conformarsi (il cosiddetto pensiero unico), e contro la cui gigantesca e “democratica” potenza è inutile lottare.
Già dal titolo Jobs Act, ricopiato da quello di Obama, appare una specie di rivelazione sulla dipendenza della riforma dalle veline mondiali dominanti. Nell’ambito di uno scontro per bande che sembra essere l’unica consapevolezza dei capitali transnazionali in fuga dalla crisi, anche l’esercito di riserva su territorio italiano doveva essere reso inerme di fronte all’incremento della rapina di plusvalore. Il solito tentativo di “risanare il sistema” passa infatti attraverso il ricorso ai fattori antagonisti alla caduta tendenziale del saggio di profitto, ovvero al rovesciamento in crisi lavorativa con risparmio dei costi salariali, consistenti nel licenziamento a discrezione e nel maggiore sfruttamento degli occupati. Tradotto in normativa da “stato di diritto”, chiamata anche riforma del lavoro, in un linguaggio volutamente ambiguo, appaiono promesse di lavoro, promesse di tutele, promesse di ammortizzatori sociali in caso di difficoltà, promessi di aiuti alle donne, ecc.. A fronte di tanto sperpero di speranze però, statistiche di varia origine e attendibilità continuano a registrare, in particolare nelle zone del sud, un aumento della povertà e dell’immiserimento più disperato. I “sudici” – secondo una dizione più esplicita mutuata dall’ottocento – vincono sui “nordici”i primi posti dell’indigenza, più scientificamente analizzata come pauperismo necessario al ricatto salariale del sistema. Fin qui tutto come sempre: un minor numero di occupati fluttuanti saranno pagati un po’ meno, lavoreranno con maggior intensità di ritmi e meno porosità di pause, godranno di una scuola pubblica culturalmente semplificata o banalizzata nei programmi, prevalentemente interessati a tecnicismi, disporranno di una sanità fatiscente, la pensione in vecchiaia sarà riservata ai soli pochi eletti dalle contribuzioni continuative, a imitazione della salvezza dell’anima calvinista
Ancora Jobs-Act
Ecco dunque che il Jobs Act (cfr. n. 149 di Contraddizione) entra con forza nella frantumazione contrattuale realizzata nelle fasi precedenti – quale scoraggiamento dell’unità di classe avversa – promettendo una nuova riunificazione di chi lavora, in una sorta di collaborativa esultanza egualitaria ripristinabile. Ci si collega qui all’articolo sul Jobs Act del numero precedente, che si concludeva con l’invito al recupero della memoria storica, e alla collocazione critica delle sirene ideologiche in quanto forma necessaria alla mistificazione dei reali rapporti di assoggettamento. Tra queste, ultimamente, le “76mila imprese – che – hanno chiesto sgravi per fare assunzioni stabili”, come titolava la Repubblica del 17 marzo scorso. Dall’1 al 20 febbraio, infatti, la richiesta per le decontribuzioni aziendali, avrebbe raggiunto questo numero – secondo le dichiarazioni di Tito Boeri – anche se l’80% dei casi riguarderebbe la stabilizzazione dei rapporti lavorativi già in essere. Il “segnale incoraggiante” indicato sarebbe in realtà molto debole, dato che le nuove assunzioni riguardano un magro 20% e non c’è da festeggiare la “ripresa consistente” (questo il parere espresso da M. Draghi – per una “crescita di fiducia di imprese e consumatori, e per un aumento di prestiti bancari”). Resta da capire se i consumatori sono produttivi o improduttivi e a chi, a quali condizioni e con quali finalità verranno concessi i prestiti. Se, come affermano pure i guru dell’economia mondiale (P. Krugman, E. Phelps, Larry Summers, Lord Skidelsky, B. Friedman, T. Piketty, ecc.) si è avviata una “stagnazione secolare”, per non dire una diminuzione mondiale stabilizzata dell’accumulazione di capitale, ciò significherà solo un incremento progressivo delle diseguaglianze sociali dovute sia a differenziazione dei redditi sia proprio a mancanza di reddito, da imputare alla non-occupazione creata dall’impossibilità degli investimenti produttivi. Come al solito, i suddetti esperti, tra cui anche i premi Nobel, propongono di modificare la realtà della crisi di capitali con volontaristici antidoti alle diseguaglianze, quali: “rilanciare i diritti sindacali nel settore privato e recuperare una fiscalità progressiva sui patrimoni, aggiungendo una pre-distribuzione, ovvero un eguale accesso all’istruzione di alta qualità per tutti”, senza toccare i rapporti di proprietà e la produzione stessa.
Da tutto ciò risulta evidente che non solo il Jobs Act serve a pagare legalmente con soldi pubblici aree aziendali sopravvissute alla ultima divisione internazionale del lavoro, ma che queste hanno tuttora bisogno di fanfare ottimistiche per dissimulare la fine del mito del “benessere per tutti”. Sembrerebbe pure che il capitale, da sempre in lotta contro i diritti sindacali, ne possa sentire ora la mancanza soffocato com’è dalla liquidità della ricchezza accaparrata nelle mani di pochissimi (un stima dell’Oxfam, di probabile indicazione politica, calcola che l’1% della popolazione mondiale detiene il 50% della ricchezza prodotta, mentre il restante 50% è ripartito in modo non equo in tutto l’altro 99% della popolazione). Anche da questo genere di dati, poi, bisogna guardarsi per non cadere nella suggerita eliminazione della concezione categoriale delle classi, in cui l’ineguaglianza sociale non dipenderebbe più dal ruolo svolto nel processo produttivo, all’interno del rapporto capitale/lavoro, idealisticamente superato questo nella propaganda del post-fordismo, post-industriale, neo-liberismo, ecc..
L’apparente progressivo change, (“cambiamento”) nazionale, privo di illuminante contenuto, riduce in realtà l’ineguaglianza, come fatto senza presupposti, a forme sparse di individualizzazione generica, da indennizzare poi in forma paternalistica nel nuovo ruolo degli stati, che, attraverso i rispettivi governi, faranno sparire la difesa del posto di lavoro (jobs) nella “tutela” dei lavoratori itineranti. Le parole usate devono ora essere colte non nel loro significato assertivo, ma nella valenza negativa di ciò che abrogano: “tutela”, ad esempio, “crescente” o meno, non indica una protezione – come sembra affermare – ma sostituisce il concetto, e la fase storica, secondo cui il soggetto sociale portatore di diritti poteva autonomamente lottare per difendersi dal potere di abuso, di arbitrio e di uso in genere della forza discrezionale. Al crescere del potere multinazionale, e ora transnazionale, corrisponde un crescendo di populismo politico e ideologico. Caratteristica di questo è far risultare la disoccupazione come scissa dal potere economico, ma attinente ad una calamitosa questione sociale di cui lo stato deve interessarsi con forme assicurative, in tandem con quelle caritatevoli religiose a rimorchio. L’abrogazione progressiva della CIG nel 2016 e dell’Istituto di mobilità nel 2017, con l’istituzione dei Fondi di solidarietà per chi è privo di cassa ordinaria (quelli in aziende con meno di 15 dipendenti, che hanno oggi la cassa in deroga), consegnano i lavoratori con continuità lavorativa a sussidi legati ai contributi versati, a carico della fiscalità generale. Il modello europeo del “Welfare condizionato”, in vigore in Germania, Francia, Gran Bretagna, ha destinato ad una Agenzia Nazionale intermediaria l’erogazione di sussidi (ai disoccupati in povertà), unita alla verifica della ricerca lavorativa da parte dei beneficiari, tra cui annoverare anche invalidi purché in grado di lavorare almeno 15 ore settimanali. Chissà da noi. Il lavoratore allora non risulterà più solo dipendente dal sistema economico – da cui proverrebbe la sua invocata e spossessata “dignità” – ma, espulso da questo come superfluo, sarà soggetto anche alla infida elemosina statale, condizionata all’impegno di trovare un nuovo lavoro nei gironi dei jobs dequalificati e occasionali, dei mini contratti a termine con ore frazionate, dei salari precari o saltuari, con una sottoutilizzazione e perdita di valore della sua forza-lavoro senza più pretesa o diritto alcuno.
Modelli europei
Analogamente al Contrat Unique francese, elevato a vessillo della lotta contro la disoccupazione dal ministro Manuel Valls, anche il Jobs-Act vorrebbe cancellare il mercato a due velocità: quello dei contratti a tempo indeterminato e quello precario dei contratti a tempo determinato. A fronte di almeno 38 tipologie di contratti diversi, il contrat unique prevede, in caso di licenziamento, nessun obbligo più di riutilizzo del lavoratore e soprattutto nessuna verifica dell’addotto motivo economico di parte aziendale. Il materiale umano è più a buon mercato e si assicura la corvéabilité (possibilità di lavoro gratuito come dovuto), intesa quale sinonimo di governabilità. La protezione e l’indennità di licenziamento aumentano progressivamente con la durata dell’impiego, così da poter disporre di dipendenti a rotazione, sempre precari. Se viene ridotta la disoccupazione i licenziamenti risultano statisticamente meno frequenti, e a seguire la protezione meno necessaria. La facilitazione all’assunzione e al licenziamento poi risponde al principio d’efficacia, al punto che alcune multinazionali offrono contratti esterni ai loro interni, più facilmente sopprimibili e disponibili alla flessibilità. Questo favorisce una concorrenza permanente tra i lavoratori mondiali livellati verso il basso, per un capitale imperialista, lui sì senza frontiere, che pretende di gestire la classe internazionalizzata da cui estrarre plusvalore senza contraccolpi difensivi.
Mentre però in Italia la sopravvivenza del doppio binario è prevista e rinvigorita per non si sa ancora quanto tempo, il contratto a tempo indeterminato, che dovrebbe costituire la tendenza preferenziale, viene predisposto solo dopo l’eliminazione dell’art. 18, anch’esso con un doppio binario che differenzia vecchie e nuove assunzioni. In altri termini queste ultime potranno godere di 3 anni lavorativi senza protezioni, con soli risarcimenti in denaro in caso di licenziamento, e dal Natale 2015 verranno attivati i contratti a “tutele crescenti”(si riceveranno le indennità calcolate in mesi, da 2 a 24, per ogni anno lavorato). Se continuative, le nuove assunzioni saranno inserite in contratti a tempo indeterminato. Le vecchie invece, in caso di licenziamento otterranno una monetizzazione al posto dell’eventuale reintegro, senza più la presenza terza di un giudice. Il rapporto di forza sotteso diventerà così operante all’interno di una norma che indennizza in base all’anzianità, a sostituzione invisibile della tutela reale. L’interpretazione valoriale del giudice, propria del fatto giuridico, viene così silenziosamente rimpiazzata da un fatto materiale che nasconde nel suo involucro il dominio del comando sul lavoro.
Le ultime novità relative al “boom dei contratti stabili” (titolo da la Repubblica, 27.3.15) confermano le battute in anteprima di Crozza sulla insperata convenienza padronale all’assunzione attuale. Più che l’articolo 18 – si scrive – contano “gli incentivi fiscali (eliminazione del costo del lavoro dalla base imponibile dell’Irap) e l’azzeramento dei contributi previdenziali per tre anni a favore delle assunzioni con contratto a tempo indeterminato realizzate nell’arco del 2015”. A favore delle aziende il risparmio per tre anni sarà di 8.060 euro l’anno per ogni assunzione, inoltre, alcune – nel caso specifico la Novartis, con personale qualificatissimo e di esperienza – sperimentano con i propri dipendenti un articolo 18 resuscitato come “benefit”. La ricompensa octroyée (concessa dall’alto, a mo’ dello Statuto Albertino del 1848! ), generosamente elargita solo se “un individuo vale”, segnala la regressione sociale in cui non solo non s’ha da parlare di unità di classe, ma soprattutto non s’ha più da lottare ché tanto la qualità lavorativa, la professionalità o il merito individualizzato si identifica con l’obbedienza all’azienda.
Questo percorso è stato già indicato dalla Gran Bretagna, Germania e Francia in cui all’alta produttività corrisponde una minor manodopera impiegata, senza dire perché maggiormente torchiata, ma facendo intendere che la caduta occupazionale è da imputare alla legislazione mancante. A questa infatti viene poi demandata la rigidità normativa, mentre la disciplina collettiva corrispondente deve essere caratterizzata con il massimo della flessibilità. All’obiettivo dichiarato di contrasto alla disoccupazione e alla fuoriuscita dalla precarietà viene pertanto a stabilizzarsi l’insicurezza lavorativa e la competitività tra lavoratori a tutti i livelli di differenziazione. Si inscrive il conflitto sociale, anche tra lavoratori, nella legittimazione dell’arbitrio o ius variandi (potere di demansionamento di cui peraltro è fatto divieto all’art. 1103 del C.C., e all’art. 13 dello Statuto dei lavoratori) e nella nuova legalità dei licenziamenti liberi, della monetizzazione della salute e della perdita lavorativa, del controllo a distanza, dell’abbassamento salariale per l’eliminazione delle voci di indennità, della possibilità di cessione delle ferie e quindi della loro ipotizzabile rinuncia, del perduto obbligo dell’apprendistato, della divisione tra pubblico e privato, ecc.. A tutto ciò e altro corrisponde nella realtà una perdita di valore programmata della forza-lavoro soprattutto sul piano salariale, da ottenere con l’induzione al sacrificio, la rinuncia al riposo e all’autonomia esistenziale, l’astinenza, ecc., nell’oscillazione tra frantumazione e riunificazione contrattuale, quale processo di consenso per tappe successive. Se nello sventagliamento contrattuale sono state abbassate le lotte per una remunerazione adeguata al costo della vita, nella riunificazione annunciata, “indeterminata” in ogni senso, tentano di stabilizzare definitivamente il consenso alla governabilità.
Con questa modalità si ottiene la perdita della difendibilità dei diritti lavorativi – magari compensati poi con quelli per i matrimoni gay – e l’inglobamento della precarietà all’interno della contrattazione. È decisamente in quest’ottica che continuano a effettuarsi i contratti a termine, che nel decreto Poletti dovrebbero durare per 3 anni più 5 proroghe. Da alcuni dati risultano essere il 65% di nuove assunzioni, chiamate anche ironicamente stepping stone o dead end, dato che il tasso di trasformazione entro il primo, terzo o quinto anno, rende auspicabile il licenziamento nel primo. Tra il terzo e il quinto anno si ha infatti l’“effetto trappola”, ovvero se si è licenziati è più difficile trovare un nuovo lavoro perché più anziani per un mercato del lavoro intasato per il livello raggiunto. In Spagna continuano i contratti a tempo determinato per il 40% delle assunzioni, data la convenienza dello spezzettamento lavorativo in cui è più facile il ricatto del dipendente. Nell’ultimo dato Istat in Italia per il 2013 si sono contati 413.000 posti di lavoro in meno, senza calcolare la disoccupazione nascosta e il lavoro nero per definizione privi di dati. Lo scorso anno hanno calcolato al 41,6% la disoccupazione giovanile e al 12,7% quella più generale, con una capacità d’acquisto del 40% in meno da parte dei ceti medi. Se questi numeri hanno un senso, e in un contesto europeo molto serrato, è per convincerci che leggere con consapevolezza questo presente è il primo passo, ineludibile, per lottare come classe contro leggi anche orchestrate che però nulla possono contro la crisi reale. I capitali temono la rottura sociale, senza il consenso di chi lavora non hanno futuro.
da: http://www.contraddizione.it/