Giorgio Bongiovanni
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Interesse americano, verità indicibile
La storia giudiziaria del Paese, grazie a indagini e processi, ha sufficientemente provato che dietro molti delitti eccellenti e stragi che hanno destabilizzato il Paese vi era la presenza di servizi segreti.
Tracce sulla presenza di certi apparati negli ambiti delle stragi, come abbiamo scritto in più occasioni, è dimostrata da molteplici prove.
Dai guanti di lattice, con tracce di Dna femminile a Capaci, al ritrovamento nei pressi del cratere di un bigliettino con un numero riferito ai servizi. Dalle dichiarazioni di Spatuzza sulla presenza di un uomo che “non era di Cosa nostra” durante le fasi di caricamento dell’esplosivo per la strage di Borsellino, alle testimonianze sulla presenza di donne nelle stragi di Firenze e Milano.
Nel libro “Le donne delle stragi” (ed. Chiarelettere) scritto dal giornalista di SkyTg24 Massimiliano Giannantoni e dal criminologo Federico Carbone viene rivelata l’esistenza di un documento secondo il quale “nel 1993 cinque donne facevano parte della VII divisione del SISMI i cui componenti erano molti di più di quei 16 conosciuti attraverso la cosiddetta lista Fulci”.
“Le donne – si legge nel libro – sono nella stessa lista dei militari sospettati e mai indagati per l’indagine sulla Falange armata”. Addirittura, secondo una fonte riservata, “di queste cinque agenti, oggi almeno tre sarebbero ancora in servizio”.
“Anche se non conosciamo con certezza i nomi di tutte, sappiamo che si tratta di donne pericolose – scrivono gli autori – A lungo si sono nascoste dietro false identità e vite solo all’apparenza normali. Le indagini sui crimini in cui sarebbero state coinvolte, sebbene in parte archiviate, dopo tre decenni non sono ancora concluse”.
Sempre il criminologo Federico Carbone, in un’intervista a Il Giornale, aveva raccontato di aver saputo in via confidenziale da una fonte (un generale dell’esercito USA di stanza a Camp Darby, una donna vicina alla Cia) di un coinvolgimento proprio della Cia nella strage di Capaci (“In una delle nostre conversazioni mi fece capire che anche a Capaci erano coinvolti loro. Non so in quali termini precisi, ma l’ha fatto intendere. Quando parlo di loro parlo della struttura, quindi della Cia”).
Un’ombra inquietante che avvolge tutte le stragi del nostro Paese.
Basti pensare che sin dal 1948, dopo la netta vittoria alle elezioni della Democrazia Cristiana (foraggiata con sovvenzioni da Washington) viene confermata la posizione atlantista dell’Italia che già era stata “preparata” con l’operazione Huasky e lo sbarco in Sicilia, nel luglio 1943.
Il simbolo della Central Intelligence Agency
Quella manovra militare contò sul supporto logistico ed operativo offerto dalla mafia.
“La mafia – affermò l’agente della CIA Victor Marchetti – per il suo carattere anticomunista è uno degli elementi che la CIA usa per controllare l’Italia”.
L’altro “braccio” era rappresentato dagli esponenti dell’estrema destra, che abbandonato il fascismo trovano nella lotta anti-comunista una nuova collocazione.
Va anche ricordato che, durante il primo mandato politico della DC, in concomitanza con l’adesione alla NATO, venne istituito il Servizio Informazioni Forze Armate (SIFAR), ovvero il primo servizio segreto italiano nel dopoguerra. Controllato dal Ministero della Difesa, era a tutti gli effetti gestito in collaborazione con l’americana CIA, che come avveniva in altri Stati dettava le linee operative.
E’ da allora che la Cia è stata protagonista della nostra storia, fino ad arrivare ai tempi più recenti.
Quindi, se è vero che nella strage di Via D’Amelio, nella strage di Capaci, nelle stragi del 1993 c’erano i servizi segreti italiani, significa che c’era la CIA che controllava o dirigeva o in qualche modo era presente a questi attentati.
Che i nostri servizi di sicurezza siano alle dipendenze dirette di quello americano è stato dimostrato anche recentemente nel processo sul caso Abu Omar, con l’operazione di extraordinary rendition effettuata a Milano nel febbraio 2003.
Non è semplice mettere insieme i pezzi, ma pian piano la verità sta emergendo con più chiarezza.
Le ultime indagini sulla strage di Brescia hanno fatto emergere il coinvolgimento di esponenti dei servizi segreti dell’esercito americano, nel corso della strategia della tensione.
E’ certo che sapevano quel che sarebbe avvenuto. A volte sono intervenuti in prima persona. Altre sono rimasti a guardare.
E’ un dato di fatto che tra i condannati come responsabili della strage di Piazza Fontana vi sia Carlo Digilio, ovvero un esponente italiano collegato alla Cia.
A lungo i servizi segreti americani hanno appoggiato l’estremismo di destra e la mafia perché ritenute due anticorpi contro la possibile ascesa delle forze di sinistra nell’area di governo.
Ecco il nervo scoperto di questo governo fascista che cerca in tutti i modi di deviare da questa pista l’attenzione del popolo, degli intellettuali, dei magistrati e delle forze dell’ordine.
I depistaggi sono il minimo comun denominatore di tutte le stragi terroristiche di matrice neofascista degli anni di piombo a quelle di mafia del 1992-1993.
Un solco tracciato che viene percorso ancora oggi, pur di allontanare dalla verità.
Si cerca disperatamente di negare, insabbiare e cancellare ogni possibile coinvolgimento della destra eversiva in queste faccende.
Elementi di contatto tra eversione nera e mafie (Cosa nostra e ‘Ndrangheta) sono emersi su fatti che partono dagli anni Settanta e si sviluppano fino alle stragi degli anni Novanta.
(foto) Paolo Bellini
La condanna all’ergastolo di Paolo Bellini per la strage di Bologna del 2 agosto, confermata in appello, rappresenta un grande problema in questo senso.
Ex Avanguardia Nazionale, Bellini è stato un killer di ‘Ndrangheta e a lungo ha usato il nome falso di Roberto Da Silva. Nel 1992 è stato protagonista della cosiddetta “seconda trattativa”, quella per recuperare le opere d’arte rubate dalla mafia in cambio di benefici carcerari ai boss detenuti, ed oggi si trova a essere indagato anche per le stragi degli anni Novanta.
Ed è un dato raccolto nei processi che l’idea delle stragi contro il patrimonio storico e architettonico in Continente si sia formata nei dialoghi tra Paolo Bellini ed Antonino Gioè (morto in circostanze misteriose mentre si trovava in carcere a Rebibbia).
Ancora si dovrebbe ricordare che l’artificiere della strage di Capaci era Pietro Rampulla, mafioso della provincia di Messina, ex fascista vicino a Ordine nuovo esperto di esplosivi. Doveva essere lui ad azionare il telecomando, ma adducendo un “impegno” non si presentò il giorno della strage.
La “Pista nera” prenderebbe nuova forma in recenti indagini delle Procure partendo da alcuni verbali in cui testimoni riferiscono della presenza dell’estremista di destra Stefano Delle Chiaie a Capaci, un mese prima della strage in cui Giovanni Falcone, assieme alla moglie Francesca Morvillo e gli agenti di scorta, perse la vita.
E che dire degli strettissimi legami che l’estrema destra ha avuto anche con la ‘Ndrangheta, a partire dalla fine degli anni Sessanta?
Il processo ‘Ndrangheta stragista, condotto dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo, ha messo in evidenza questi rapporti.
Ci riferiamo al summit del 26 ottobre del 1969, quando un pattuglione della squadra mobile reggina sorprese un centinaio di ‘ndranghetisti in pieno Aspromonte, a due passi dal Santuario della Madonna della Montagna di Polsi, intenti a discutere la riorganizzazione della criminalità reggina.
Un evento a cui parteciparono uomini di ‘Ndrangheta, su tutti il boss Paolo De Stefano, ma anche soggetti appartenenti all’eversione nera come il principe Junio Valerio Borghese, il marchese Felice Zerbi, Bruno Di Luia, Stefano Delle Chiaie, o Pierluigi Concutelli (anche se alcuni documenti dimostrerebbero che il giorno prima aveva iniziato la propria detenzione nel carcere di Palermo, ndr) che non furono arrestati.
Altra figura centrale a cui si fa riferimento nelle sentenze del processo calabrese è quella dell’avvocato Paolo Romeo, ex parlamentare del Psdi, piduista, cresciuto nelle file di Avanguardia nazionale (già condannato in via definitiva nel processo “Olimpia” per concorso esterno e di recente condannato nel processo Gotha), per sua stessa ammissione responsabile della latitanza del terrorista nero Franco Freda.
Per decenni uno dei massimi riferimenti della cosiddetta “Reggio bene”, secondo i giudici intraneo alla famiglia criminale dei De Stefano con un ruolo di vertice, ma allo stesso tempo membro “della massoneria segreta o componente riservata della ‘Ndrangheta unitaria”. Una figura capace di muoversi su più livelli.
(foto) Stefano Delle Chiaie
Nel segno di Falcone
All’esistenza di “ibridi connubi” aveva accennato proprio Giovanni Falcone parlando di delitti eccellenti.
Quando il 22 giugno 1990 fu sentito dalla Commissione parlamentare antimafia sul delitto di Piersanti Mattarella, quindicesimo presidente della Regione siciliana ucciso il 6 gennaio del 1980, Falcone si disse convinto che vi erano “mandanti sicuramente all’interno della mafia, oltreché altri mandanti evidentemente esterni”. Secondo Falcone, fermo restando che per compiere l’omicidio era necessario il benestare di Cosa nostra, “sotto il profilo delle risultanze emergenti dalle indagini sul terrorismo nero, le modalità dell’omicidio Mattarella sono sicuramente compatibili; sotto il profilo della compatibilità fra l’omicidio mafioso affidato a personaggi che non avrebbero dovuto avere collegamenti con la mafia, è emersa una realtà interessante e inquietante”.
Oggi sappiamo che Falcone avrebbe voluto indagare sull’organizzazione paramilitare Gladio, che si scoprirà essere stata manovrata dalla CIA.
E’ scritto nei suoi diari.
In un appunto, datato 18 dicembre del 1990, Falcone parla del procuratore Giammanco: “Dopo che, ieri pomeriggio, si è deciso di riunire i processi Reina, Mattarella e La Torre, stamattina gli ho ricordato che vi è l’istanza della parte civile nel processo La Torre (Pci) di svolgere indagini sulla Gladio. Ho suggerito, quindi, di richiedere al G.I. di compiere noi le indagini in questione, incompatibile col vecchio rito, acquisendo copia dell’istanza in questione. Invece sia egli sia Pignatone (attuale procuratore capo di Roma, ndr) insistono per richiedere al G.I. soltanto la riunione riservandosi di adottare una decisione soltanto in sede di requisitoria finale. Un modo come un altro per prendere tempo”. E il giorno successivo Falcone scrive: “Non ha più telefonato a Giudiceandrea (il procuratore capo di Roma del tempo, ndr) e così viene meno la possibilità di incontrare i colleghi romani che si occupano della Gladio”.
E’ noto che alcuni documenti su Gladio sono spariti dai supporti informatici di Falcone (un personal computer Olivetti che si trovava presso il suo ufficio del Ministero di Grazia e Giustizia e l’agenda elettronica Casio SF 9000).
La possibilità che Giovanni Falcone stesse indagando su Gladio ancor prima del 1990 è emersa anche nell’ambito dell’inchiesta che la Procura di Palermo ha svolto sulla scomparsa dell’agente Antonino Agostino, ucciso assieme alla moglie Ida Castelluccio il 5 agosto del 1989.
Sono stati recuperati gli atti di interrogatorio con l’ex estremista di destra, Alberto Volo, che tra il 28 marzo ed il 18 maggio, venne interrogato in gran segreto in Procura proprio da Falcone.
Sappiamo poi che Paolo Borsellino, come disse il 25 giugno nel suo discorso a Casa Professa, aveva dichiarato di aver ricevuto diverse confidenze da Falcone.
“Sono testimone – disse – perché, avendo vissuto a lungo la mia esperienza di lavoro accanto a Giovanni Falcone, avendo raccolto, non voglio dire più di ogni altro, perché non voglio imbarcarmi in questa gara che purtroppo vedo fare in questi giorni per ristabilire chi era più amico di Giovanni Falcone, ma avendo raccolto comunque più o meno di altri, come amico di Giovanni Falcone, tante sue confidenze, prima di parlare in pubblico anche delle opinioni, anche delle convinzioni che io mi sono fatte raccogliendo tali confidenze, questi elementi che io porto dentro di me, debbo per prima cosa assemblarli e riferirli all’autorità giudiziaria, che è l’unica in grado di valutare quanto queste cose che io so possono essere utili alla ricostruzione dell’evento che ha posto fine alla vita di Giovanni Falcone, e che soprattutto, nell’immediatezza di questa tragedia, ha fatto pensare a me, e non soltanto a me, che era finita una parte della mia e della nostra vita”.
Possibile che Borsellino, ucciso 57 giorni dopo Capaci, fosse al corrente anche delle indagini su Gladio? Anche questo è un elemento da seguire.
In questi anni quei magistrati che hanno raccolto il testimone di Falcone e Borsellino e che hanno fatto parte del pool di Gian Carlo Caselli, fino ad arrivare a quelli del pool trattativa, che ha avuto come pm di punta Nino Di Matteo, hanno seguito questa pista di verità che lega le stragi fasciste alle stragi di mafia, con l’inquietante partecipazione dei servizi segreti.
Un filo nero da sciogliere che porta allo Stato-mafia. Non solo di ieri, ma anche di oggi.
Ecco spiegato il motivo per cui magistrati come Nino Di Matteo danno fastidio al sistema vigente di questo Paese. Perché si ha la consapevolezza che, qualsiasi funzione di potere possa avere, metterebbe a rischio il sistema criminale di questo Paese.
Al contempo, per giungere alla verità sulle stragi, è necessario non perdere più tempo dietro a piste marginali come diversamente sta facendo la Procura di Caltanissetta.
In questo momento storico, con questo governo fascista che cerca di mettere sotto scacco la magistratura con l’intento di controllarne le azioni, purtroppo vediamo che ci sono alcune Procure, come ad esempio la Procura di Caltanissetta, che si stanno già lasciando distrarre da piste marginali, come mafia-appalti, mentre andrebbero approfondite ben altre vicende.
Purtroppo, però, sulla ricerca dei “mandanti esterni” vediamo un grave immobilismo.
Nel lungo speciale “Via d’Amelio: la nostra verità”, ponendo una serie di “domande non richieste” ai magistrati nisseni, abbiamo messo in evidenza tutte quelle zone d’ombra su cui va fatta luce ripartendo da quel lavoro che fu compiuto da magistrati indomiti come Nino Di Matteo e Luca Tescaroli. Il primo fu titolare assieme ad Anna Maria Palma del cosiddetto “Borsellino Ter”. Il secondo condusse in primo grado e in appello il processo sulla strage di Capaci. Entrambi ottennero le condanne di mandanti ed esecutori di Cosa nostra.
Come abbiamo ricordato più volte in questi anni proprio il Borsellino Ter aprì sulle stragi uno squarcio importantissimo per la ricerca della verità.
Con la deposizione del collaboratore di giustizia Giovanni Brusca emerse lo sviluppo, in quei 57 giorni che separano la strage di Capaci da quella di via d’Amelio, della cosiddetta trattativa Stato-Mafia, (la cui esistenza è confermata anche nella sentenza d’appello di Palermo, nonostante l’assoluzione dei soggetti istituzionali).
Nelle motivazioni della sentenza si parla delle piste che portano al possibile collegamento tra l’accelerazione della strage di via d’Amelio e la trattativa Ciancimino-Ros dei Carabinieri.
Ed è sempre nel Borsellino Ter che venne fatto riferimento (così come raccontato dall’ex boss della Commissione provinciale Totò Cancemi) al dato per cui Riina citava Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri come soggetti da appoggiare “ora e in futuro di più” aggiungendo che nella strategia stragista “Riina è stato ‘preso per la manina’”.
Sulla scorta di quelle dichiarazioni Di Matteo, assieme al collega Luca Tescaroli, negli anni successivi proseguì la ricerca della verità sui mandanti esterni nelle stragi con le indagini su “Alfa e Beta” (ovvero Berlusconi e Dell’Utri).
In pochi ricordano che nell’inchiesta nei confronti dell’ex senatore e l’ex premier Di Matteo e Tescaroli furono lasciati soli con uno scollamento di fatto con il resto della procura di Caltanissetta.
Di Matteo, a Palermo, è andato avanti nel percorso di ricerca della verità fino ad arrivare al processo Trattativa Stato-mafia che di fatto gli è costato la condanna a morte di Totò Riina e Matteo Messina Denaro.
L’attentato in quel momento fu sventato grazie alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Vito Galatolo, ma come scritto nella richiesta di archiviazione dell’indagine della Procura di Caltanissetta, quel progetto di morte resta “certamente operativo per gli uomini di Cosa nostra”.
Galatolo disse anche che a volere morto Di Matteo erano mandanti esterni (“Gli stessi di Borsellino”). Un elemento che non è stato sufficientemente approfondito.
Sempre nel processo trattativa un ulteriore elemento investigativo è giunto nel 2017, con le intercettazioni in carcere tra Giuseppe Graviano e il compagno d’ora d’aria Umberto Adinolfi, che hanno successivamente permesso di riaprire le indagini sulle stragi del 1993 con l’iscrizione nel registro degli indagati dalla procura di Firenze per concorso nelle stragi dei “soliti” Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri.
Un’inchiesta, quest’ultima, condotta proprio da Luca Tescaroli, che si è conclusa solo per l’ex Cavaliere.
Con tutto il rispetto per le indagini sul depistaggio della strage di via d’Amelio o quella su mafia-appalti, è evidente che non è in quella direzione che si deve guardare per far luce su complicità e convergenze di interessi che si nascondono dietro le “stragi di Stato”.
Sul punto prendiamo atto del silenzio della Procura nissena che alle nostre “domande non richieste”. Speriamo vivamente che non sia per cattiva fede.
Lo ribadiamo. I nostri quesiti non sono un esercizio di stile, ma una richiesta di verità che viene dal popolo e da tanti cittadini che meritano una risposta.
Ovviamente a noi non interessa sapere dettagli delle indagini in corso, ma quantomeno capire se ci si sta muovendo anche su quei fronti che mettono in evidenza quel filo nero tra mafia, estrema destra e servizi.
Così non fosse sarebbe il segno che il progetto occulto del governo fascista sta andando pienamente in porto.
(Fine)