Antonio D’Alì
Il gruppo di investigatori che sta lavorando alla cattura di Matteo Messina Denaro, l’ultimo latitante del gruppo dirigente dei “Corleonesi” che pianificò ed eseguì l’attacco stragista allo Stato (1992-1993), ha intercettato due anni fa il senatore Antonio D’Alì con un mafioso, Girolamo Scandariato, che discutevano l’affitto di 22 ettari di terreno in contrada Chinea, a Trapani. È impressionante che a distanza di un quarto di secolo dalla stagione stragista, sopravviva un mondo che sembrava finito. Fino al marzo scorso senatore, Antonio D’Alì ha sempre negato i rapporti con Cosa nostra anche se dagli inizi degli anni Novanta era finito sotto inchiesta dell’antimafia.
Dentro il “feudo”
Perché i D’Alì possedevano una banca, la Banca sicula, e sconfinati terreni in provincia di Trapani, e avevano la famiglia Messina Denaro a servizio. Il padre di Matteo, don Ciccio, Francesco Messina Denaro, era un capomafia e nello stesso tempo il “campiere” dei possedimenti dei D’Alì, il custode, il sorvegliante dei terreni. Un fratello di Matteo, Salvatore, era stato assunto in banca. E Antonio, era il “politico” della famiglia D’Alì. La provincia di Trapani ha sempre rappresentato quel lato oscuro della mela dove sopravvivono i rapporti tra mafia e politica cementati da massonerie e imprenditoria mafiosa. Una mafia che si è piegata ai Corleonesi ma che era potente prima e lo è ridiventata dopo. Ieri, in un’aula della Corte d’Appello di Palermo, a porte chiuse, perché celebrato con il rito abbreviato, è iniziato il processo d’appello bis – dopo che la Cassazione aveva contestato le conclusioni dei giudici palermitani che avevano salvato l’imputato con la prescrizione e l’archiviazione – che vede sul banco degli imputati proprio Antonio D’Alì, dal 1994 esponente politico di Forza Italia, senatore ed ex sottosegretario di Stato.
Il politico e i boss
La Cassazione, ricorda il procuratore generale Nico Gozzo, dando ragione all’accusa che ha presentato ricorso, «ha ritenuto fondata l’erronea valutazione degli appoggi elettorali goduti nel 1994 e 2001 da Cosa nostra». L’imputato è accusato di avere rapporti con Cosa Nostra della provincia di Trapani. Rapporti con Matteo Messina Denaro, con Vincenzo Virga, con Antonio Birrittella e altri uomini d’onore di Cosa nostra. E la Cassazione ha deciso di riaprire il processo ordinando ai giudici dell’Appello di procedere con una rinnovata «istruttoria dibattimentale». Dunque, con l’acquisizione di nuove prove. Nella sua memoria depositata al processo, il procuratore generale Nico Gozzo, in 22 pagine ha riassunto le novità. Insistendo che i rapporti dell’imputato con Cosa nostra non si sono interrotti nel 1994, ovvero sono dimostrati anche dopo e fino ai giorni nostri.
Le “risorse”
Sembravano, quelli di D’Alì, rapporti antichi, quasi casuali, con gli uomini d’onore. Nel caso poi di Messina Denaro, rapporti ereditati dalla famiglia. Per l’accusa, Antonino D’Alì invece ha messo a disposizione di Cosa nostra risorse economiche, il suo ruolo di senatore e di sottosegretario. Sin dai primi anni ‘90, anche per procacciare voti, l’imputato ha avuto rapporti diretti con Matteo Messina Denaro, con Vincenzo Virga, con Antonino Birrittella. Quest’ultimo adesso pentito, che il procuratore generale Gozzo vuole chiamare a testimoniare. «Non può escludersi a priori – si legge nella memoria dell’accusa depositata al processo bis – che l’emersione di rapporti tra D’Alì e personaggi mafiosi diversi da quelli già accertati per la fase ante 1994 possa implicare una revisione circa la natura del rapporto dell’imputato con Cosa nostra anche nel periodo successivo».
Parlano i testimoni
Giovanni Ingrasciotta è un testimone eccellente che può svelare i rapporti inconfessabili tra il senatore e Cosa nostra. Un suo cugino, il capomafia Vito Panicola e suo figlio Vincenzo, che ha sposato Anna Patria, sorella di Matteo Messina Denaro, gli hanno detto che D’Alì «è un soggetto completamente a disposizione della famiglia mafiosa di Castelvetrano e di Matteo Messina Denaro e prima ancora del padre Francesco». Ingrasciotta sa anche di cene a fine vendemmia in Contrada Zangara «con D’Alì, Matteo Messina Denaro, Vito, Vincenzo e Giuseppe Panicola, Filippo Guttadauro, Giuseppe Grigoli e una volta anche Andrea Mangiaracina». Proprio sugli appoggi elettorali nel 1994, il pentito Birrittella sostiene che Panicola disse a D’Alī che «salendo lui si risolvono tanti problemi, perché lui è un uomo che appartiene a noi». E ai festeggiamenti per l’elezione del 1994, c’erano anche «Filippo Guttadauro, Giuseppe Grigoli, i cugini di Matteo Messina Denaro, i fratelli Filardo, Vito e Vincenzo Panicola».
Quegli uomini dello Stato scomodi
Ma per l’accusa sono molto importanti gli episodi in cui D’Alì si mette a disposizione di Cosa nostra seguendo «le pratiche di finanziamenti pubblici nel settore dell’uva e dell’olio». Oppure si impegna a far revocare dei contratti a un’azienda ex mafiosa per farli invece assegnare a azienda mafiosa. Nel processo saranno approfonditi i diversi episodi con cui D’Alí si impegna a far trasferire il prefetto di Trapani, Sodano, e il capo della Mobile Giuseppe Linares. Due servitori dello Stato che non si volevano piegare alle richieste della mafia. Mette a verbale monsignor Antonino Treppiedi nell’agosto del 2013: «In più occasioni il senatore e la moglie mi riferirono di avere attivato delle iniziative che potessero consentire di ottenere il loro trasferimento».