di Gianni Barbacetto
Breve storia dei rapporti degli ex comunisti con i “padroni”. Dagli Agnelli a Berlusconi, da Gavio ai Benetton, dai “capitani coraggiosi” ai “furbetti del quartierino”.
È il 21 ottobre 1998 quando Massimo D’Alema diventa presidente del Consiglio, al posto di Romano Prodi silurato da Fausto Bertinotti. È il primo post-comunista che entra nella stanza dei bottoni. È da quel momento che cresce ciò che Gad Lerner chiama “ansia da legittimazione”: gli eredi del Pci, fino ad allora esclusi dall’area di governo, quando ci arrivano vogliono dimostrare in tutti i modi di “saper stare a tavola” con i potenti. D’Alema non perde tempo: cinque giorni dopo l’insediamento, ribadisce all’assemblea dei senatori Ds che “Mediaset è un patrimonio produttivo del Paese”; e ricorda la sua visita all’azienda di Silvio Berlusconi compiuta alla vigilia delle elezioni dell’aprile 1996, quelle poi vinte dall’Ulivo di Prodi: “In quell’occasione affermai che la sinistra italiana combatte Berlusconi ma non danneggia le sue imprese, che considera un patrimonio del Paese. Ora, in qualità di presidente del Consiglio, sono ancora più tenuto a tutelare i diritti della libera impresa e a essere garante di questo impegno”.
La lunga storia dell’amore con i “padroni”
Dai palazzinari “calce e martello” ai “furbetti del quartierino”
L’“ansia da legittimazione” dei post-comunisti non riguarda soltanto Berlusconi, ma un po’ tutti i potenti, imprenditori e finanzieri, banchieri e immobiliaristi. I manovratori della Fiat, gli Agnelli, Cesare Romiti, Sergio Marchionne, poi Carlo De Benedetti, fino ai Gavio e ai Benetton, padroni colorati delle autostrade. Di tento in tanto, cercano di aprire nuovi spazi per i “padroni rossi” delle coop, di Unipol e di Montepaschi, non senza puntate ad alto rischio sui nuovi “capitani coraggiosi” e perfino sui “furbetti del quartierino”. Mentre Prodi, dell’altra famiglia che fa nascere prima l’Ulivo e poi il Pd, quella “bianca” ex Dc, porta con sé un pezzo della tecnocrazia di Stato e personaggioni come Angelo Rovati, ben incistati nel mondo italiano degli affari.
In verità, già il Pci aveva un occhio di riguardo per gli imprenditori. Quelli “rossi”, come i Marchini, palazzinari tutti “calce e martello”. Ma anche Berlusconi, fin dai tempi eroici del decreto Craxi contro l’oscuramento delle tv Fininvest da parte dei pretori: sarebbe diventato definitivo il 1 febbraio 1985 e quel giorno la Sinistra indipendente capeggiata da Giuseppe Fiori era riuscita in Senato a tirare in lungo la discussione, fino alle 23.30. “Se quattro comunisti fossero intervenuti a parlare”, scrisse poi Fiori, “sarebbe passata la mezzanotte e il decreto Craxi sarebbe decaduto”, con conseguente oscuramento delle tv. Invece il capogruppo del Partito comunista, Gerardo Chiaromonte, aveva fatto rispettare una ipocrita disciplina di partito: votare contro, ma senza intervenire in aula. Berlusconi si era salvato. E in cambio Bettino Craxi aveva mantenuto la promessa fatta al giovane responsabile Comunicazione del Pci, Walter Veltroni: il Tg3 al Pci.
Anche la Fiat era “un patrimonio del Paese”, visto che già nell’autunno 1980, mentre il segretario del Pci Enrico Berlinguer si schierava dalla parte degli operai in lotta contro 14 mila licenziamenti annunciati, pronti al blocco dei cancelli, il capo del partito torinese Piero Fassino non mancava di rassicurare in privato l’amministratore delegato della Fiat Cesare Romiti. Più recentemente, è toccato a Sergio Chiamparino, prima sindaco di Torino, poi banchiere del Sanpaolo, infine presidente della Regione Piemonte, tenere rapporti stretti con Marchionne, che intanto portava all’estero la Fiat, diventata Fca, tra gli applausi generali.
Per ottenere il salvataggio finanziario del vecchio Pci e dell’Unità, D’Alema e Fassino ebbero rapporti diretti con il banchiere Cesare Geronzi, vecchia scuola andreottiana, che portò a compimento la missione. Ma l’“ansia da legittimazione” trionfa, infine, con l’arrivo dell’ex Pci al governo. Tanto che l’avvocato Guido Rossi, personaggio non certo ostile alla sinistra, nel 1999 conia una definizione destinata a restare nel tempo, quando dice che “a Palazzo Chigi c’è l’unica merchant bank dove non si parla inglese”. Era partita, con la benedizione di D’Alema, la scalata a Telecom da parte dei “capitani coraggiosi” della “rude razza padana” guidati da Roberto Colaninno ed Emilio Gnutti. Fu “la madre di tutte le scalate”, l’opa ostile da 100 mila miliardi di lire che conquistò un’azienda – sana ma debole a causa di una privatizzazione fatta male – caricandola di debiti e vendendo agli stranieri un’altra buona azienda italiana, la Omnitel che era stata creata da Colaninno.
Quanto fossero coraggiosi quei capitani e quanto lungimirante D’Alema si vede poi dalla sorte di Telecom, venduta già nel 2001 alla Pirelli di Marco Tronchetti Provera e alla Edizione Holding dei Benetton. E oggi sfilata dalle mani dei francesi di Vivendi soltanto grazie all’intervento della Cassa depositi e prestiti e del fondo americano Elliott. Gnutti, brillante finanziere bresciano, è l’inventore della “bicamerale della finanza”: nella sua società Hopa riunisce destra e sinistra, mette in affari insieme i “rossi” di Unipol e Montepaschi con la Fininvest di Berlusconi.
Dopo la scalata Telecom, Hopa nell’estate del 2005 mette a punto, con alcuni alleati, un’operazione che diventa essa stessa una “bicamerale della finanza”: con la Banca popolare di Lodi di Gianpero Fiorani (sostenuto dalla Lega) e con la Unipol di Gianni Consorte (sostenuta dagli ex comunisti) lancia le scalate a due banche, Antonveneta e Bnl, e al Corriere della sera. In prima fila i “furbetti del quartierino”, gli immobiliaristi di ultima generazione, da Stefano Ricucci a Danilo Coppola, fino a Giuseppe Statuto. Origini oscure, moltiplicano la loro ricchezza in un gioco illusionistico in cui si scambiano gli immobili come figurine, a valori sempre crescenti, mettendoli poi a bilancio e usandoli come pegno per ottenere soldi veri dalle banche. Eppure gli ex comunisti vanno pazzi per loro, stravedono per la “rude razza mattona”.
D’Alema i “furbetti” li sdogana così: “Se degli oscuri immobiliaristi, dietro ai quali si è finalmente appurato che non ci sono io, spaventano i salotti buoni del capitalismo italiano, evidentemente c’è una fragilità di quegli assetti proprietari che non ha uguali al mondo”. Nella difesa dei “furbetti” lo scavalca Fassino, allora segretario dei Ds: “Incomprensibile la puzza sotto il naso” che circonda i palazzinari, dichiara il 23 giugno 2005. Tenendo fede alla sua fama, quello stesso giorno si apprende che Ricucci e Gnutti sono indagati dalla Procura di Milano per aggiotaggio. Ma pochi giorni dopo, il 7 luglio, Fassino rincara la dose con un’intervista al Sole 24 ore: “Non c’è un’attività imprenditoriale che sia pregiudizialmente migliore o peggiore di un’altra. È tanto nobile costruire automobili o essere concessionario di telefonia, quanto operare nel settore finanziario o immobiliare”.
Il Riformista, di cui era editore Claudio Velardi, braccio destro di D’Alema ai bei tempi della “merchant bank di Palazzo Chigi”, è più esplicito e afferma (in un editoriale del 7 giugno 2005) che “gli outsider, i lanzichenecchi, gli immobiliaristi, i redditieri” non sono un problema per il capitalismo italiano. Anzi, ce ne vorrebbero di più. “Il problema italiano è proprio quello di una certa carestia di outsider; sì, proprio di gente che viene dal nulla e si fa da sola, e mentre si fa da sola produce sviluppo, pil e benessere”. Aggiunge D’Alema: “Gli speculatori fanno plusvalenze. Se rispettano le leggi dello Stato, perché criminalizzarli?”. Ai due leader Ds risponde subito, a distanza, l’ex segretario del partito Achille Occhetto: “La sinistra, invece di impegnarsi per cambiare il modello economico e sociale, si trova a parteggiare nella lotta tra salotto buono e capitani coraggiosi, magari rivestiti di denaro sporco”.
Il culmine è raggiunto con la celebre telefonata tra Fassino e Consorte: “Allora, siamo padroni di una banca?”, chiede il segretario dei Ds nel luglio 2005 al presidente di Unipol che risponde: “È chiusa, sì, è fatta”. Poi Fassino si corregge: “Siete voi i padroni della banca, io non c’entro niente…”. Ma continua a chiedere, vuole sapere come sarà gestito il passaggio di quote dagli immobiliaristi a Unipol, viene informato che Consorte ha già lanciato l’opa obbligatoria, chiede le percentuali delle azioni e i prezzi. Si preoccupa: “Possibili ricorsi in sede giudiziaria?”. Rassicurato, invita infine alla cautela il fumino Consorte, che vorrebbe denunciare chi l’ha osteggiato: “Aspetta, prima portiamo a casa tutto”.
La diffusione dell’intercettazione, segreta e ancora sconosciuta perfino ai magistrati che l’avevano disposta, è illegale e aiuterà Berlusconi (che la farà pubblicare sul suo Giornale di famiglia in campagna elettorale) a ridurre la distanza che lo separava da Prodi, il quale infatti nella primavera 2006 vincerà le elezioni, ma per un soffio. La telefonata però è vera e diventerà la prova provata delle intromissioni della politica (di sinistra) nella finanza. Come se non bastasse, poi Matteo Colaninno, figlio di Roberto, viene premiato con un seggio in Parlamento e posti di rilievo dentro il Pd, responsabile nazionale Sviluppo economico, presidente del Forum Sviluppo del Pd scelto dal segretario nazionale Dario Franceschini, ministro dello Sviluppo economico nel governo ombra del Partito democratico, presidente del Forum Impresa del Pd voluto dal nuovo segretario Bersani.
Bersani è identificato con la “ditta”, nel senso del partito prima della mutazione genetica renziana. Ma erano altre le “ditte” con cui si confrontava. Il gruppo Gavio, per esempio. Dalle intercettazioni telefoniche scopriamo che è Bersani che interviene e passa il contatto diretto con Marcellino Gavio a Filippo Penati, capo del partito a Milano e poi della segreteria Pd. Dopo un “incontro riservato” tra Gavio e Penati, la Provincia di Milano presieduta da Penati compra a caro prezzo da Gavio le azioni dell’autostrada Milano-Serravalle. In cambio Gavio dà una mano a Unipol impegnata a scalare Bnl.
Il viaggio nell’Italia dei distretti finisce nel deserto
Un Giglio magico sulla “merchant bank di Palazzo Chigi”
Un volumetto pubblicato da Donzelli nel 2004, Viaggio nell’economia italiana, di Pierluigi Bersani ed Enrico Letta, entrambi ex ministri dell’Industria, documenta il “viaggio in Italia” dei due leader del centrosinistra alla ricerca di un rapporto con i padroncini dei distretti, piccoli imprenditori e artigiani del made in Italy: tessile, meccanica, alimentare, ceramica, abbigliamento, gioielli, che fanno il 50 per cento dell’export italiano. Viaggio inutile, con il senno di poi: i padroncini si sono rivolti altrove. Forse valeva pena che i due restassero più attaccati al core business della loro “ditta” e parlassero di più, invece che con i padroncini, con i loro dipendenti, lavoratori invece anch’essi ormai elettoralmente perduti.
Quando sulla scena del Pd fa irruzione Matteo Renzi, la tragedia si tramuta in farsa. Dapprima Matteo sembra voler fare piazza pulita delle vecchie pratiche e rottamare i vecchi leader. Peccato che in breve tempo, arrivato anch’egli a Palazzo Chigi, sostituisce la vecchia merchant bank di D’Alema con una nuova dove l’inglese è se possibile ancor più improbabile. Lo parla fluentemente Davide Serra, finanziere renziano con base a Londra, dove ha piantato il suo fondo Algebris, che pure non disdegnava – almeno a detta del compagno di partito Bersani – qualche passaggio per i paradisi fiscali.
L’imprenditore di riferimento però è Marco Carrai, partito ciellino e diventato il gemello diverso di Matteo, che lo voleva perfino mettere al vertice della cybersecurity. Affari d’oro all’Expo gestito dal renziano (poi pentito) Giuseppe Sala sono garantiti per Oscar Farinetti di Eataly, grande sostenitore di Renzi. E un occhio di riguardo per Pier Luigi Boschi, papà di Maria Elena, al vertice di Banca Etruria, e per babbo e mamma propri, coinvolti in affarucci con personaggi che a volte finiscono in cella.
Dopo queste minuzie, per guardare in alto, Renzi tratta da amicone Marchionne, che pure ha ormai sfilato la Fiat all’Italia. E punta a multinazionali del calibro di Ibm, a cui strappa, volato a Boston, la promessa di stabilire a Milano, sull’area Expo, la sua centrale Watson per sviluppare l’intelligenza artificiale. Peccato si dimentichi di dire che in cambio ha promesso di concedere a Ibm (gratis) i preziosissimi dati sanitari degli italiani. L’affare s’incaglia dopo la caduta del suo governo. E la sinistra italiana comincia la sua traversata del deserto, senza mostrare di aver imparato molto dai suoi errori passati.