Riceviamo e pubblichiamo dal maresciallo dei carabinieri Saverio Masi il suo intervento in merito alle accuse contro la polizia da parte del sostituto procuratore generale di Genova Enrico Zucca. “I torturatori del G8 sono ai vertici della nostra polizia. Come possiamo chiedere all’Egitto coloro che hanno torturato Giulio Regeni?” le parole del magistrato, a cui ha risposto il numero uno della polizia Franco Gabrielli, che ha parlato di “accuse infamanti”. Saverio Masi fa parte della scorta del pm antimafia Nino Di Matteo ed ha accusato alcuni alti ufficiali dei carabinieri di aver ostacolato le indagini sulla cattura di Bernardo Provenzano e Matteo Messina Denaro. È stato condannato per falso materiale: aveva cercato di farsi togliere una multa producendo una relazione in cui si attestava  che al momento dell’infrazione stava effettuando un pedinamento  con l’auto privata. 

 

Se nessuno vuol dare retta ad uno stimatissimo ed onesto magistrato, allora ascolterete le parole di un pregiudicato, come me. Mi scuso preventivamente -umilmente e sinceramente- con il sostituto procuratore generale di Genova, Enrico Zucca per quanto sto per dire: non dovrebbe essere un pregiudicato come me a riconoscere le sacrosante verità delle sue affermazioni. Forse dovrebbero farlo le massime cariche dello Stato, quello Stato ove regni una Giustizia sociale che i cittadini con il loro ultimo voto si ostinano ancora a ricercare.

Quello che ho detto è una verità inconfutabile: sono un maresciallo dei carabinieri pregiudicato. Sono stato infatti condannato in via definitiva dalla Cassazione nel 2015 a sei mesi di reclusione per falso materiale relativamente alla vicenda di una firma apposta ad un documento che attestava un fatto vero, cioè che mi trovavo in servizio quando avevo preso una multa alla guida del mio mezzo privato. Purtroppo si trattava di una prassi, all’epoca delle indagini di mafia, dovuta al fatto che vi fosse la necessità di utilizzare mezzi non facilmente individuabili.

D’altronde la mia riportata condanna non è un mistero per nessuno. Quando fui chiamato a testimoniare davanti alla corte d’Assise di Palermo al processo sulla trattativa Stato-mafia, circa quegli ostacoli frapposti nella ricerca dei latitanti ed altre vicende più gravi quali il mancato sequestro del ‘papello’ da parte di altri carabinieri, tutti i giornali hanno correttamente sottolineato che la mia testimonianza era quella di un pregiudicato.

Inoltre, in seguito ad una querela da me sporta per denunciare gli ostacoli che ritenevo e ritengo di aver trovato mentre ero impegnato nelle indagini per la cattura di importanti latitanti, quali Bernardo Provenzano e Matteo Messina Denaro, sono stato anche rinviato a giudizio per calunnia e dovrò affrontare per questo, com’è giusto, un processo a Palermo, al quale non cercherò assolutamente di sottrarmi. Anzi, sarà la sede giusta per far luce su ciò che da troppo tempo un sistema sempre meno oscuro di potere continua a celare.

È giusto così. È giusto così perché ho giurato come carabiniere di “essere fedele alla Repubblica italiana, di osservarne la Costituzione e le leggi e di adempiere con disciplina ed onore tutti i doveri del mio stato per la difesa della Patria e la salvaguardia delle libere istituzioni”.

È perciò corretto e doveroso che, in presenza di una condanna definitiva, da molti anni io non svolga più il lavoro di investigatore, specializzato nella ricerca di latitanti, per condurre il quale avevo perfezionato il mio addestramento e che da allora io non abbia avuto alcuna promozione o gratificazione dall’Istituzione cui appartengo. Sono fermo allo stesso grado che avevo quando emersero per la prima volta queste vicende nel 2009.

Se l’Arma decidesse di esonerarmi dal servizio che sto espletando o di penalizzarmi ulteriormente non potrei che essere d’accordo con una decisione intrinsecamente giusta: i condannati e coloro su cui gravano pesanti sospetti non devono godere di alcun trattamento di riguardo, meno che mai devono progredire in carriera o ricevere qualsiasi forma di benevolenza.

E ciò per l’evidente motivo che coloro che hanno disonorato le Istituzioni – che avevano giurato di servire- hanno messo in discussione la loro credibilità. Tutto ciò almeno fino a quando il processo a loro carico non si sarà concluso.

Ecco perché non posso che concordare con le recenti dichiarazioni esternate dal sostituto procuratore generale presso la corte d’Appello di Genova, dottor Egidio Zucca, che ha dichiarato: “Il Governo deve spiegare perché ha tenuto ai vertici operativi dei condannati…”.  Egli ha ricordato che in occasione del G8 svoltosi a Genova nel luglio del 2001, ci furono episodi di tortura perpetrati da esponenti delle forze dell’ordine, come riconosciuto anche da più sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo.

Per quello che ho detto prima, anche riguardo alla mia posizione processuale, non posso che essere d’accordo con le parole del Dott. Zucca e sulla critica espressa rispetto a quei funzionari di Polizia che sono stati condannati con sentenze definitive dalla giustizia italiana e, a dispetto di ciò, sono incredibilmente rimasti in servizio, addirittura promossi e oggi ricoprono posizioni apicali.

Gilberto Calderozzi, condannato in via definitiva a tre anni e otto mesi per falso (riconosciuto colpevole di aver partecipato alla creazione di false prove dopo le violenze), è vicedirettore della Direzione Investigativa Antimafia, Francesco Troiani, condannato anch’egli definitivamente a tre anni ed otto mesi per falso (per l’accusa aveva detto al suo autista di portare alla Diaz le “famose” molotov prima dell’irruzione e della successiva “macelleria messicana”) è dirigente del Centro operativo autostradale di Roma, Francesco Gratteri, condannato definitivamente a 4 anni sempre per falso è stato promosso Prefetto prima di andare in pensione. L’ex capo della squadra mobile di Viterbo, Salvatore Gava, condannato a 3 anni e 8 mesi per falso (aveva redatto un falso verbale in cui si dichiarava la presenza di molotov all’interno della scuola Diaz), ha potuto continuare senza ostacoli la propria carriera, tant’è che ha indagato pure su quello che mi ostinerò a classificare come l’omicidio del giovane e talentuoso urologo Attilio Manca, in disprezzo della serenità della famiglia dell’ucciso, considerando pure che Gava avrebbe sbagliato ad accertare la verità dei fatti circa la presenza, inesistente, dell’urologo presso l’ospedale dove lavorava mentre nei registri di presenza non vi è traccia alcuna, (I familiari al contrario asseriscono che l’urologo si trovasse in Francia, costretto a curare Provenzano).

E, prima delle condanne, durante i processi, del pari, la loro carriera non ha subito alcuno stop, anzi, incredibilmente, è progredita quanto meno come se esse non fossero mai state pronunziate. Un quadro reso ancor più grave da quanto accertato definitivamente nel caso della incredibile vicenda della prescrizione riconosciuta al generale Giampaolo Ganzer, già comandante del Ros dei carabinieri, dopo la condanna della corte di Appello di Milano a 4 anni e 11 mesi di reclusione “per aver costituito un’associazione per delinquere finalizzata al traffico di droga, al peculato, al falso e ad altri reati, al fine di fare una carriera rapida”. Reati poi prescritti che non portarono ad alcun ostacolo per la sua carriera, che progredì normalmente.

Tutto ciò, a mio modesto parere, non è accettabile. Come minimo un esponente delle forze dell’Ordine su cui gravano pesanti sospetti, non deve avere alcun avanzamento di carriera – semmai il contrario – ed essere tenuto in stand-by finché non dimostri, se è in grado di farlo, senza trucchi o possibilità di dubbio, la propria completa innocenza e la correttezza del suo agire. E senza vittimismi, poiché si tratta di una elementare questione di giustizia e rispetto delle regole.

Le stesse regole che, secondo una sentenza e un rinvio a giudizio, io non avrei rispettato. E per questi comportamenti, se non riuscirò a dimostrare la mia totale innocenza e correttezza e la verità dei fatti da me denunciati, com’è giusto che sia, sono disposto ad assumermi tutte le responsabilità e a pagarne personalmente le conseguenze. Purchè mi seguiate tutti, cari colleghi pregiudicati! Ipotesi fantascientifica, considerato che tra le fila di chi vi nomina, in parlamento, si celano altri pregiudicati. Ecco perché non riesco a sentirmi come Voi, Italiano.

Le parole del dottor Zucca vi suoneranno aspre ed inappropriate, ma altrettanto inappropriato è che tutti restino al loro posto, progredendo nelle loro carriere ed assumendo incarichi di responsabilità maggiori, nonostante condanne e processi in corso se poi un soggetto come me è stato correttamente punito dall’Arma per le sue condotte penali. È una questione di opportunità, di giustizia sociale e non lo sostengo io che sono un pregiudicato, ma l’ha detto chi ha più autorevolezza di me, la stessa persona che ha paradossalmente criticato le parole del dottor Zucca.

Mi riferisco a Franco Gabrielli, che il 19 luglio 2017 in un’intervista a La Repubblica circa la responsabilità politica di Gianni De Gennaro quale capo della polizia ai tempi dei fatti di Genova dichiarò: “Se io fossi stato Gianni De Gennaro mi sarei assunto le mie responsabilità senza se e senza ma. Mi sarei dimesso. Per il bene della Polizia”. Eh già, “per il bene della Polizia!”; invece, per il bene della Giustizia sociale e la coerenza istituzionale, una prece. Anzi due: una anche per umana memoria, almeno quella, di Attilio Manca, Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi e chissà quanti altri.

Gianni De Gennaro non solo non si dimise in seguito ai fatti di Genova, ma rimase al suo posto anche quando venne coinvolto nelle indagini e poi processato per induzione alla falsa testimonianza. Vicenda che poi – va detto – lo vide assolto con sentenza definitiva dalla Cassazione ma che, all’epoca dei fatti non costituì un ostacolo alla sua carriera. Durante il processo non era più capo della polizia, ma ricoprì incarichi di primo piano, come quello di direttore del Dis, quindi a capo dei servizi di informazione e sicurezza.

Con queste parole che rappresentano solo il pensiero di un semplice pregiudicato che ritiene di poter esercitare ancora la sua libertà di espressione, lascio tutti ad una riflessione. Oltre al reato di tortura, sarebbe opportuno consigliare ai nuovi parlamentari di studiare e introdurre anche il reato di incoerenza? Quella istituzionale, “per il bene della Polizia” e perché no, anche per i sacrosanti diritti civili.