Intervista all’Ambasciatrice della Palestina in Italia, H.E. Abeer Odeh
Cristina Mirra
La Corte Penale Internazionale riconosce la giurisdizione dei giudici dell’ Aja sui territori Palestinesi occupati da Israele riconoscendo quindi lo Stato di Palestina. Che significato ha per lei questa decisione?
La Pre-Trial Chamber, una sorta di Tribunale Preliminare della Corte Penale Internazionale, ha riconosciuto la Palestina come Stato per quanto riguarda lo Statuto di Roma, per il semplice fatto che ne è Stato Parte. Di conseguenza, la Corte ha giustamente confermato la propria giurisdizione sul territorio dello Stato di Palestina, composto dalla Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, e dalla Striscia di Gaza.
Questa decisione non ha a che fare con la soluzione del conflitto con Israele. Ha a che fare con la possibilità di ottenere giustizia e individuare i colpevoli, cose entrambe cruciali per risolvere il conflitto in modo giusto e pacifico.
Si tratta di un’importante pietra miliare in un lungo e accidentato cammino, perché la situazione in Palestina è caratterizzata dall’impossibilità di rintracciare e far pagare le conseguenze delle proprie azioni ai responsabili di crimini orrendi. Fino ad oggi, i colpevoli dei crimini più gravi hanno potuto agire impunemente senza conseguenze, certi di non doverne rispondere a nessuno, rafforzati nell’idea che la giustizia e il diritto internazionale sono irrilevanti, e incoraggiati a proseguire sulla strada dell’impunità. E’ dunque molto importante che la Corte abbia deciso di far rispettare la propria giurisdizione, aprendo la strada all’individuazione delle responsabilità di chi ha commesso questi crimini. Ciò crea un importante deterrente per crimini futuri.
Il Tribunale con questa decisione ha mostrato rispetto per il proprio mandato e per la propria indipendenza, impegno verso i valori e i principi della responsabilità penale racchiusa nello Statuto di Roma, e coraggio di fronte ad ostilità e intimidazioni senza precedenti.
In base a questa decisione del Tribunale, la Corte può ora procedure rapidamente con le indagini, i procedimenti e le punizioni di qualsiasi crimine sotto la propria giurisdizione. Questi crimini includono tutti e ciascuno dei crimini di guerra e contro l’umanità presentati alla Corte dalla Palestina. Ciò significa che ogni palestinese che soffre le conseguenze dell’occupazione – che possono facilmente comportare la demolizione della sua casa o l’uccisione immotivata di un suo familiare – può adesso citare in giudizio i funzionari del governo israeliano, i politici o i militari responsabili di tali azioni.
L’affermazione della giurisdizione in merito ai crimini commessi in regime di occupazione dalla potenza occupante è coerente con il diritto riconosciuto del popolo palestinese all’auto-determinazione nel territorio occupato da Israele nel 1967.
Questa decisione è conforme al diritto internazionale e alla rappresentazione del territorio dello Stato di Palestina così come riconosciuto internazionalmente. Essa conferma che l’opinione della comunità internazionale sul diritto del popolo palestinese all’auto-determinazione sul territorio dello Stato di Palestina non deve essere considerate una mera espressione di intenti, ma un’obiettiva condizione giuridica, che è stata riconosciuta da numerose entità competenti, non ultima la Corte Internazionale di Giustizia, il più alto organo giudiziario delle Nazioni Unite.
Da parte sua, la Palestina continuerà a cooperare con la Corte Penale Internazionale e attende con ansia l’inizio ufficiale delle indagini.
Ci può dare un quadro sulla situazione nei territori occupati?
La cosa più importante da dire è che viviamo sotto un’occupazione illegale senza fine dal 1967. Non solo l’occupazione militare avrebbe dovuto concludersi molto tempo fa, ma continua a calpestare il diritto internazionale che dovrebbe regolarla, visto che Israele viola tutti i doveri e le responsabilità che ha in qualità di potenza occupante. Non stiamo dicendo nulla di controverso. Per il diritto internazionale, l’occupazione coloniale israeliana non solo è illegale, ma rappresenta un crimine di guerra in base allo Statuto di Roma. Quando parliamo dell’impresa degli insediamenti, non ci riferiamo solo alle case dei coloni, ma ad un intero sistema di controllo e dominio, che include il Muro dell’Annessione, o dell’Apartheid, dichiarato illegale già nel 2004 dalla Corte Internazionale di Giustizia, così come centinaia di restrizioni ai movimenti dei cittadini e dei beni palestinesi, mentre gli affari degli insediamenti possono muoversi tranquillamente anche nei mercati europei.
Quali gli aspetti più drammatici per il popolo Palestinese?
Bisogna ricordare che Israele ha piena autorità sul registro della nostra popolazione, a cui impone un sistema di controllo fatto di violenza e di leggi draconiane che hanno l’obiettivo di rendere la vita impossibile nello Stato di Palestina. Questa politica include aggressioni quotidiane contro gli abitanti della Cisgiordania e di Gerusalemme Est entrambe occupate, uccisioni immotivate, detenzioni “amministrative” arbitrarie, demolizioni di case, trasferimenti forzati, revoca dei documenti di identità e di residenza, proibizione razzista dei ricongiungimenti familiari, mentre gli ebrei di tutto il mondo, compresa l’Italia, sono incentivati a spostarsi nei Territori Palestinesi Occupati, e l’assedio di Gaza, caratterizzato dalla privazione di risorse e da bombardamenti ricorrenti. Uno di questi bombardamenti, denominato da Israele “Operazione Margine Protettivo”, è durato diverse settimane nel 2014, causando la morte di almeno 2.300 palestinesi, di cui 551 bambini, il ferimento di circa 11.000, e la distruzione di decine di migliaia di abitazioni e infrastrutture civili. La Corte sarà finalmente in grado di giudicare cosa è successo allora.
Qual è la condizione dei detenuti palestinesi? Ci sono bambini nelle galere israeliane.
Dall’occupazione israeliana del territorio palestinese nel 1967, circa 850.000 palestinesi sono stati detenuti per ordine delle autorità militari della potenza occupante. Questo numero rappresenta circa il 20% della nostra popolazione totale e il 40% della popolazione palestinese maschile. Tra il 1993 e il 2001 (gli anni del processo di pace di Oslo), Israele ha arrestato più di 13.000 palestinesi, a cui vanno aggiunti i 50.000 detenuti tra l’inizio della Seconda Intifada nel settembre del 2000 e il 2014. Dopodiché, solo nell’autunno del 2015 sono stati arrestati 2.400 palestinesi, di cui 1.200 minorenni. Ogni anno, circa 700 ragazzi palestinesi tra i 12 e i 17 anni vengono arrestati, sottoposti a interrogatorio e detenuti dall’esercito, dagli agenti di sicurezza o dalla polizia israeliana. Alla fine di settembre del 2020, i palestinesi detenuti nelle caserme o nelle strutture del Servizio Carcerario Israeliano (IPS) erano 4.184, compresi 254 provenienti da Gaza e 157 minori. I prigionieri politici dovrebbero essere liberati da Israele, facendo fede a nostri accordi precedenti. Israele ha utilizzato il proprio potere di arrestare e detenere, come strumento per controllare la popolazione palestinese e punire qualsiasi attività volta a contrastare l’occupazione, violando dunque i principi e le norme fondamentali dei diritti umani. Perfino i palestinesi che manifestano pacificamente contro la confisca della loro terra sono soggetti ad arresto e detenzione.
Le condizioni di vita dei prigionieri politici arabi e palestinesi sono ben al di sotto degli standard previsti dal diritto internazionale umanitario (IHL) e dalle regole per il trattamento dei prigionieri stabilite dalle Nazioni Unite. In particolare, dal 2002-2003 queste condizioni sono visibilmente peggiorate, con abusi e proibizioni quali il divieto di ricevere visite dai familiari o di stabilire qualsiasi contatto fisico durante queste visite, la riduzione o negazione dell’ora d’aria, l’impossibilità di vedersi tra prigionieri, la detenzione in celle d’isolamento, nonché la mancanza di comunicazione e di accesso a beni provenienti dall’esterno.
Poche questioni raccolgono il consenso unanime e il sostegno incondizionato della società palestinese come quella dei prigionieri. Qualsiasi processo di pace genuino e significativo deve tenerne conto, provvedendo al rilascio immediato dei nostri prigionieri politici detenuti a causa del conflitto israelo-palestinese. Un accordo permanente dovrebbe garantirlo. Nel frattempo, è necessario un netto miglioramento delle loro condizioni di vita.
Un anno fa Netanyahu ha annunciato l’annessione della Cisgiordania. Cosa sta accadendo esattamente?
Non c’era bisogno che Netanyahu annunciasse ulteriori annessioni. Israele, la potenza occupante, non ha fatto che consolidare la propria annessione del territorio occupato dello Stato di Palestina, imponendo intenzionalmente cambiamenti irreversibili e politiche illegali proibite dal diritto internazionale umanitario. L’idea è quella di pretendere la maggior parte di territorio palestinese possibile, comprese le sue risorse naturali, costringendo gli abitanti palestinesi a un trasferimento forzato.
Per quel che ci riguarda, l’annessione distrugge la prospettiva di una soluzione negoziata. Rifiutiamo il principio dell’annessione perché rappresenta una minaccia a un ordine mondiale basato sulla legalità. Tuttavia, l’annessione è già sotto i nostri occhi, perché è arrivata insieme all’occupazione delle nostre terre.
Tecnicamente, per annessione si intende l’acquisizione forzata di un territorio da parte di uno Stato a spese di un altro Stato. L’illegalità dell’annessione, sia essa De facto o De jure, è un principio ben stabilito nel diritto internazionale. La sua proibizione è considerata una norma inderogabile e si basa su due principi fondamentali nel diritto internazionale: l’appropriazione di terra con la forza e il diritto all’auto-determinazione.
L’uso della forza è tassativamente proibito dal diritto internazionale. Si tratta di una proibizione contenuta esplicitamente nella Carta delle Nazioni Unite e universalmente riconosciuta dal diritto consuetudinario come Jus cogens, inderogabile, appunto. Inoltre, l’annessione costituisce un’aperta violazione del diritto inalienabile del popolo colpito all’auto-determinazione, un diritto affermato dal diritto internazionale e dalla Carta delle Nazioni Unite in particolare.
Purtroppo, l’annessione è esattamente quello che sta succedendo.
Qual è l’obiettivo finale di Israele?
Non possiamo parlare per un altro Stato. Possiamo però descrivere quello che vediamo, e quello che vediamo è una Nakba che va avanti da anni e dev’essere ancora fermata: quello che è successo nel 1948, con 531 villaggi distrutti e 800.000 palestinesi espulsi, continua ancora oggi con la demolizione da parte di Israele delle case palestinesi, il trasferimento forzato dei loro proprietari e l’espansione degli insediamenti coloniali. Date le circostanze, è davvero difficile credere che questa politica sia volta o possa condurre alla soluzione dei due Stati. Piuttosto, sembra riflettere la realtà di uno Stato con due sistemi: l’Apartheid. L’annessione può essere compresa solo in questa prospettiva.
Il popolo Palestinese ha ancora speranza e fiducia nella giustizia?
Certo che sì, e quest’ultima decisione della Corte Penale Internazionale ci incoraggia in questa direzione. I palestinesi hanno sempre rispettato gli accordi sottoscritti con Israele. Abbiamo anche rispettato tutte le risoluzioni ONU rilevanti. Adesso speriamo che sia Israele sia la comunità internazionale facciano in modo che noi otteniamo la nostra parte dell’accordo: il nostro Stato per il nostro popolo, perché non ci può essere una soluzione a due Stati senza uno Stato di Palestina. Nel frattempo, continueremo ad agire in linea con il diritto internazionale, cooperando con tutti gli Stati che condividono i nostri valori per difendere la validità e la rilevanza del diritto internazionale e di un ordine internazionale fondato sulle regole.
Ci speravate in un decorso positivo della procedura preliminare e dell’avvio ufficiale del procedimento di indagine?
Il 20 dicembre del 2019, la Procuratrice della Corte Penale Internazionale, Fatou Bensouda, ha annunciato la conclusione di un’indagine preliminare sulla “Situazione nello Stato di Palestina”. In seguito ad “una valutazione accurata, indipendente e oggettiva”, la Procuratrice ha stabilito che tutti i criteri previsti dallo Statuto di Roma per aprire un’indagine erano stati soddisfatti, e ha dunque dichiarato che intendeva aprire un’indagine formale sui presunti crimini di guerra commessi in Palestina. “Sono persuasa che c’è un ragionevole fondamento per procedere con un’indagine sulla Situazione in Palestina”, ha detto. Sostenendo che “crimini di guerra sono stati o sono commessi in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, e nella Striscia di Gaza”, Bensouda ha ritenuto che “siano ammissibili casi potenziali derivanti da questa situazione”, e che “non ci siano ragioni per credere che un’indagine non faccia giustizia”. Questa per noi è stata un’ottima notizia. Tuttavia, considerando “le questioni legali e fattuali eccezionali e controverse” che caratterizzano la situazione, e cioè “il territorio in cui l’indagine deve essere condotta”, la Procuratrice ha ritenuto necessario invocare l’Art. 19(3) dello Statuto di Roma per risolvere questa questione specifica, richiedendo una decisione in merito alla giurisdizione territoriale della Corte sulla “Situazione nello Stato di Palestina”. Siamo molto contenti che la decisione sia stata positiva. Con questa decisione, la Corte ha dimostrato che il suo impegno verso lo stato di diritto e i valori e principi che obbligano a rispondere dei propri atti supera tutte le minacce e misure coercitive scatenate nei suoi confronti dall’esterno, ivi comprese le sanzioni imposte dall’Amministrazione Trump.
C’è qualcosa che vorrebbe dire alla politica italiana, all’informazione e più in generale allo Show Biz che con fermezza in Italia tace sulle atrocità commesse al popolo Palestinese?
Siamo d’accordo sul fatto che i media dovrebbero essere più attenti a ciò che succede in Palestina e alle conseguenze dell’occupazione. Soprattutto, dovrebbero essere più rispettosi dello status giuridico della Palestina, che si riflette nella posizione ufficiale con cui l’Italia aderisce al diritto internazionale. Invece vediamo ad esempio troppo spesso, nei media italiani, la Città Vecchia di Gerusalemme Est presentata come se fosse parte di Israele. Questo non dovrebbe succedere, considerando che l’Italia non è un’estranea in Palestina e che Gerusalemme è il centro della presenza italiana prevista dall’Accordo sullo Status Quo dei Luoghi Sacri del 1878.
La nostra posizione è chiara: Israele pretende che Gerusalemme sia la capitale esclusiva degli ebrei israeliani, definendola “la capitale eterna e indivisa del popolo ebraico”, mentre la Palestina chiede semplicemente di applicare il diritto internazionale, il quale prevede: la fine dell’occupazione israeliana di Gerusalemme Est, la libertà di accesso ai Luoghi Sacri, il rispetto dello status quo, e la possibilità di avere una città aperta che sia capitale di entrambi gli Stati. Questa è la posizione delle Nazioni Unite, dell’Unione Europea e dell’Italia. I media dovrebbero tenerlo in considerazione.
Per quanto riguarda il governo italiano, consideriamo che il ruolo dell’Italia vada ben oltre il posto in prima fila del Console Generale al Santo Sepolcro o alla Basilica della Natività. Il suo è anche un ruolo di protezione della presenza cristiana così duramente colpita dalla politica coloniale israeliana e dai trasferimenti forzati. Ma è, innanzitutto, un ruolo di garante del diritto internazionale.
In pratica, la UE e i suoi Membri dovrebbero rivedere i loro accordi con Israele. In particolare, chiediamo apertamente di sospendere l’Accordo di Associazione, che viola chiaramente l’Art. 2 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani; ma ci sono anche altri accordi e programmi che andrebbero interrotti, come ad esempio Horizon 2020.
Inoltre, tutti i prodotti e i servizi degli insediamenti illegali dovrebbero essere banditi: non si tratta di boicottaggio, ma di un obbligo legale. Nel frattempo, la decisione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea di etichettare i prodotti delle colonie come tali dovrebbe essere rispettata.
Chiediamo inoltre di imporre sanzioni e di rendere completamente effettive le risoluzioni dell’ONU, compresa la Risoluzione 478 del Consiglio di Sicurezza che dal 1980 richiede a tutti i Paesi che abbiano aperto una missione diplomatica a Gerusalemme di chiuderla, e la Risoluzione del Consiglio di Sicurezza 2334 che dal 2016 intima di differenziare totalmente ciò che è Israele da ciò che sono i territori che occupa.
Infine, reiteriamo il nostro appello all’Italia di riconoscere lo Stato di Palestina, in linea con la sua posizione.
Tutto ciò che chiediamo non è un favore alla Palestina ma una responsabilità internazionale a sostegno di un ordine mondiale basato sulla legalità, e questo è il minimo che si possa fare.