Storia e teoria nell’imperialismo della globalizzazione (osservazioni a margine su chi si riempie la bocca di “globalizzazione”)
di Angelo Ruggeri
“L’età degli estremi” (“Age of Extremes” è il titolo originale dato da Hobsbawm), impropriamente detto “secolo breve” (i secoli sono una oscillante tradizione romana derivata da cosmologiche ideazioni e superstizioni etrusche, diceva Antonio Labriola), “piaccia o meno è stato dominato dalla sua volontà e idee” (H. C. D’Encausse, Lenin, TEA). Anche chi gli è ferocemente contro riconosce che “Lenin ha dominato la storia del novecento” (R. Service, Mondadori).
Pur se la pietra tombale di cui a ragione parlava De Biase a proposito di Marx e ancor più calata su Lenin – il più grande marxista del 900 assieme a Gramsci. Calata ad opera soprattutto della “sinistra” di varie specie che ha persino esternizzato con lo sciopero generale la rinuncia alla lotta di classe (“Confindustria e sindacati uniti nella lotta”, vanta D’Alema). E che si crede “moderna” perché si riempie ogni giorno la bocca con la parola “globalizzazione”. Senza immaginare che Marx già si confrontava con essa 150 anni prima della nascita di Bill Gates, delle “città del silicio” Usa e delle economie delle c.d. “tigri asiatiche”. Mentre per questo Marx è pur stato salutato dai suoi stessi nemici capitalisti, ad es. su un numero speciale del “New Yorker”, come “genio” e “prossimo grande pensatore” del Tremila, uno che sa tutto di monopoli, alienazione, disuguaglianze, mercati globali: “un grande studioso del capitalismo”; che “aveva assolutamente ragione” dicono gli stessi facoltosi titolari di banca d’affari frequentatori di Wall Street; aggiungendo di essere assolutamente convinti che “l’impostazione di Marx sia il miglior angolo visuale da cui osservare il capitalismo”. Ma a tutti questi riconoscimenti si accompagna un “ma”: “ma lasciamo perdere le sciocchezze sul comunismo”. Figuriamoci Lenin che ha provato a “farlo”. Lasciar perdere le “sciocchezze di Marx sul comunismo” non è del resto certo un problema, visto che i primi a lasciarlo perdere sono tutti, ma proprio tutti quelli di “sinistra” e partiti anche quelli che – Bertinotti in testa – nel nome si dicono “comunista”, che per sbrigarsela meglio e fare più in fretta ad andare al governo tralasciano del tutto anche ogni analisi di Marx, archiviandolo per togliersi il senso di colpa di non averlo letto e non farsi più il cruccio di studiarlo e capirlo, potendo così dedicarsi a tempo pieno alle beghe di palazzo e alle lotte di potere personale.
Per tutto ciò in termine di chiacchiere generiche sul divario nel mondo tra ricchi e poveri Marx in fondo viene svilito ma persino usato per le chiacchiere di innocui No global e “sinistre”. Ma Lenin no, perché è uno che ci ha provato e che non è usabile ne per chiacchiere ne per generiche operazioni massmediatiche. Donde che è per ciò odiato dai nemici. Non usabile da chi l’ha celebrato con ortodossia stalinista e poi è passato ad altrettanta acritica ortodossia liberista. Incompreso da pacifisti e No global – allo stesso tempo neo-riformisti e massimalisti, confusionari e individualisti – che, da buoni estranei ad ogni esperienza di organizzazione del lavoro più che alle “buone maniere del proletario” – cioè all’organizzazione e all’”intellettuale collettivo” del partito – pensa a generiche “moltitudini” che assaltano l’Impero che non c’è (e ora pare riconoscerlo anche chi se lo è inventato), senza la “tenaglia” del sociale organizzato e del partito. Preferendo l’individualismo di leader e leaderismo anche di serie B e C, mai potrebbero riconoscersi nella perfetta organizzazione dell’insurrezione del ‘17, nei visi seri e anonimi di centinaia di migliaia di lavoratori-cittadini che nella notte si muovono in silenzio alla luce delle torce, ognuna sapendo dove andare e cosa fare. Ne possono riconoscersi in Lenin che di quella insurrezione è l’espressione storica della dialettica (cioè la cosa più di buon senso che esista spiegava Hegel al panteista Goethe) e della “forma” che sempre prevale sul “caos”.
Ciò nonostante per l’indissolubilità di rapporti tra passato e presente (che non è attribuire a Cristo i roghi dell’inquisizione, a Lenin, Stalin e a Marx la Cina d’oggi) non si può fare a meno di parlarne. Interpretando anche “marxismo” e “leninismo” secondo le cadenze dei processi storici e i passaggi di fase “sociali”, quindi anche dello stato.< Considerando i suoi sviluppi, in particolare ad opera di Gramsci, a cui del resto ci invita lo stesso Lenin che ha fatto la rivoluzione contro i canoni di Marx. Non applicando ma vivendo “il marxismo”, contrapponendo al libresco e dottrinario marxismo dei Menscevichi e a chi lo definiva blanquista, anarchico, e bakunista, un marxismo vivo “che non inventa le forme di lotta ma si limita a generalizzarle e organizzarle introducendo la consapevolezza rivoluzionario nelle lotte che nascono spontaneamente nel corso del movimento (quello che appunto anche oggi dovrebbero fare le forze che si dicono o chiamano comuniste rispetto ai movimenti più, vari, pacifisti o no global che siano, nota mia). Irriducibilmente ostile ad ogni formula astratta, a ogni ricetta dottrinale, il marxismo…impara, per così dire, dall’esperienza delle masse, ed è alieno dal pretendere di insegnare alle masse forme di lotta escogitate a tavolino…”. “Il marxismo esige categoricamente un esame storico…fuori dalla situazione storica concreta significa non capirne l’abbiccì…in momenti diversi dell’evoluzione economica, a secondo delle diverse condizioni politiche, culturali-nazionali, sociali, ecc. differenti sono le forme di lotta che si pongono…”, scrive già nel 1906.
Un modello di dialettica e una introduzione alla rivoluzione d’ottobre, ma in fieri anche già l’indicazione della possibilità o necessità di derubricare la pregiudizialità della “conquista del potere nelle forme che hanno caratterizzato la rivoluzione “Russa” e “del 17”, considerando e valorizzando la varietà delle esperienze dei comuniste nelle diverse realtà dello scacchiere imperialista del mondo e, quindi, la diversità delle strategie di lotta impostate sia in Europa che nel mondo nelle diverse fasi di passaggio della storia.
Così Lenin trionfò. Col rigoroso “esame storico delle forme di lotta” e delle “diverse condizioni politiche culturali-nazionali, sociali” Mentre “chi l’accusava di ‘utopismo’ esaltando il proprio ‘realismo’ fu travolto dalla storia” (Gramsci, Il nostro Marx, Einaudi)
La storia, dunque, questa scienza oggi più che mai chiamate ad unificare la conoscenza e l’autocoscienza umana cimentandosi la dove le singole discipline, e la tecnica, non possono giungere. Per lungo tempo abbiamo chiamato “storia mondiale” quella europea con le sue dipendenze europee”(osserva Gramsci). L’età contemporanea inizia appunto quando la storia per successive acquisizioni assume la presente dimensione mondiale. Si distingue perché la frattura dialettica che tende a rovesciare il meccanismo economico e sociale del capitalismo diventa potenzialmente estesa in ogni parte del mondo. Con la dialettica socialismo-imperialismo. Proprio con Lenin e la Rivoluzione d’Ottobre. Forzando si potrebbe dire che con Lenin e la prima grande “rivoluzione dal basso” della storia, dopo la grande e “dall’alto” francese finisce la storia europea e inizia la storia dl mondo.
Più che il secondo, dopo Marx, Lenin é il primo “globalizzatore”. Con la sua teoria dell’imperialismo, supera del tutto l’eurocentrismo ch’era per forza anche in Marx. L’uso forzato di categorie quali “terzo mondo”, “Nord/Sud”, “Centro/Periferia”, “sviluppo/sottosviluppo” sono cascami, riflessi speculari di un “eurocentrismo” che sopravvive anche in c.d. sinistra radicale e movimenti no-global, che in altro modo ripropongono una visione frammentaria e tutto sommato economicistica del mondo e delle questioni, privilegiando questo o quel particolare dato del processo storico, anziché l’universalità del mondo contemporaneo. Invece con la c.d. “globalizzazione”, oggi si conferma ancor più valida la teoria dell’imperialismo di Lenin, la cui ultima tappa coglie – ben più di quella realista (nazionalista) e pluralista (liberale), le altre due scuole dei rapporti internazionali – il fenomeno dell’internazionalizzazione del capitale, attraverso il diffondersi di imprese-transnazionali che – con radici e rapporto coi propri stati nazionali d’origine totalmente al loro servizio – esportano lo stesso “modo di produzione”, oltre a merci e capitale, che porta a riprodurre ex novo i rapporti sociali capitalistici la dove non esistevano, tramite l’insediamento delle filiali di imprese transnazionali.
Con ciò “l’imperialismo” coglie quel che unifica un reale “globale” che non separa né contrappone affatto una parte all’altra del mondo ma divide in sfruttati e sfruttatori di ogni parte del mondo, mostrando quanto sono comuni gli interessi, gli scopi e gli obbiettivi di lotta dei lavoratori e poveri del Nord e del Sud. Smascherando l’empirica categoria della “modernizzazione” che continua a non riferirsi all’umanità nel suo complesso bensì soltanto ai popoli principali che la compongono trattati separatamente, finanche con la storiografica accademica finendo col rivolgersi più ai problemi settorialmente intesi e meno alla cronologia fino a giungere anche a privilegiare nettamente l’idea dell’evoluzione tecnologica come asse portante ed esclusivo della storia mondiale. Ponendola anziché come aspetto come centro dell’interpretazione storica incapace di puntualizzare i momenti, gli aspetti e i contrasti peculiari dell’età contemporanea. Tralasciando che modernizzazione vuol dire tutto e niente e che con essa si portano in primo piano aspetti troppo evidentemente ispirata al momento tecnologico-sociologico del capitalismo più avanzato e al suo impatto con economie,, società e ambienti precapitalistici, facendone di fatto una storiografia di regime, del capitalismo. Ignorando del tutto i conflitti più remoti e recenti che l’unificazione mondiale del sistema capitalistico di scambio e di produzione ha dato e da luogo, i conflitti tipicamente interimperialisti e le profonde lacerazioni di classe che produce ogni dove. Tranciando del tutto che dal grembo del mercato unico mondiale sono cresciute nelle coscienze e non solo nella realtà, le forze antagonistiche del sistema capitalistico e dell’imperialismo che nella dialettica socialismo-imperialismo, su cui si è innestata la stessa crisi o tramonto del crollo del sistema coloniale classico, ha contribuito a trasformare l’economia e la politica mondiale. Segnando per sempre, nella realtà e nelle coscienze, il carattere della trasformazione e del passaggio dall’economia mondo Occidentale all’economia mondiale, al di la del fatto che si cerchi di leggere oggi tali contraddizioni e i conflitti e le guerre come contraddizioni e conflitti di civiltà anzitutto religiosa, cercando di leggere e interpretare ad esempio il mondo mussulmano attraverso il Corano che sarebbe come se degli orientali o dei giapponesi leggessero la Bibbia per interpretare il mondo occidentale. Subiscono l’egemonia di questa idea e cultura della modernizzazione e della storia come prevalentemente storia dell’evoluzione tecnologica, tutte quelle categorie frammentarie ed economicistiche a cui si rifanno quelle sopracitate e forze e movimenti che per ripudiare la teoria dell’imperialismo l’hanno persino sostituito con quella dell’Impero, finendo col dividere il mondo o tra parti geografiche o tra un capitalismo che non vive più conflitti intercapitalistici e che quindi come tale non sarebbe più nemmeno capitalismo e generiche moltitudini di sottomessi impotenti che altro non possono che produrre ribellioni fine a se stesse e invocare una pace pacifisticamente imbelle – che separa la guerra da capitalismo e imperialismo, cioè da forme di produzione e di riproduzione e dalle forme storico-istituzional e del potere e dello stato e delle istituzioni in generale – , senza capire la radice e il meccanismo di accumulazione e le forme di produzione che la producono nel rapporto tipicamente imperialistico che nella globalizzazione si produce tra capitale industrial-finanziario e stati-nazione: diventati veri e propri “comitati d’affari” delle imprese multinazionali e trasnazionali, impegnati a gestire e a difendere per loro conto il controllo delle risorse mondiali e a combattere e a reprimere sempre per loro conto i conflitti e le ribellioni che si producono.
La “globalizzazione” cosi detta, è’ “teoria dell’imperialismo” all’ennesima potenza, la sola teoria capace di esprimere la reale “rifondazione” dell’universalità del mondo contemporaneo che tutte le altre citate categorie esprimono solo parzialmente, e di indicare il carattere e la natura sia strutturale che sovrastrutturale su cui si fonda, che per l’appunto affatto supera gli stati-nazione ma li rende soggetti di uno “statalismo liberista” e di politiche “liberal-stataliste”, sia sul piano interno che internazionale, dotate di proiezioni sovranazionali delle strutture nazional-statali sia istituzionali che economiche.
3-12-2004