Foto: Il luogo in cui è stato freddato Rocco Molè
I rapporti del giovane boss con le “barbe finte”. Un legame mal tollerato dai Piromalli e dal patriarca del clan Molè. Gli incroci tra il secondo Stato (mafioso) della Piana, Andreotti e le logge in cui si incontrava il potere italiano. E nei giorni del delitto, nell’area del Porto c’era anche un Casamonica
REGGIO CALABRIA Che barbe finte di ogni nazione abbiano avuto un interesse specifico sul e nel porto di Gioia Tauro non è dato nuovo. Ma che la loro presenza – sostanzialmente solo evocata dalle inchieste del passato – possa aver influito sulle dinamiche, criminali e no, del maggiore scalo della Calabria rimane pista tutta da esplorare. Oggi inquirenti e investigatori reggini sembrano però intenzionati a percorrerla per tentare di risolvere – o quanto meno spiegare – un delitto che ha segnato uno spartiacque nella storia della Piana di Gioia Tauro. Si tratta dell’omicidio di Rocco Molè, giovane e rampante boss di Gioia Tauro, cresciuto all’ombra dei Piromalli, ma nel tempo diventato sempre più intraprendente.
ROCCO L’AUDACE Capo del clan cui per lungo tempo hanno affidato la gestione operativa e militare su Gioia Tauro, probabilmente anche per mettere al riparo parenti e congiunti dal radar investigativo, nel tempo Rocco Molè aveva iniziato a sgomitare. Traffici di armi, autonome iniziative fuori regione, pretese su affari e uomini da sempre considerati “cosa dei Piromalli”. Roba che non passa inosservata e che potrebbe averlo condannato. Il primo febbraio del 2008 il boss 42enne è stato freddato mentre era alla guida della sua auto: un agguato in puro stile mafioso. A nove anni di distanza, il suo omicidio è ancora senza colpevoli, sebbene a Gioia Tauro siano in tanti a mormorare che nessuno avrebbe potuto farlo senza quanto meno l’assenso dei Piromalli. Una verità che iniziano a raccontare anche alcuni pentiti.
CERCATE FRA I PIROMALLI Lo dice Pietro Mesiani Mazzacuva, braccio economico e finanziario dei Molè, secondo il quale il pensiero dominante all’interno del suo clan è che per quel delitto ci sia stata stata «se non la partecipazione, diciamo, il mandato diretto, ma sicuro il lavarsi le mani di Pino Piromalli e di suo figlio Antonio, se non direttamente». I suoi lo dicono, ma non hanno certezze. «La mano sul fuoco non ce la mettono, perché a momenti dicono «sì, sì» e a momenti dicono «non so», neanche loro riescono a definirsi». Però aggiunge, in famiglia si dice anche «”se non li hanno mandati loro direttamente, sicuro si sono lavati le mani, non si poteva ammazzare mio zio, dicevano loro, senza che qualcuno avesse, quantomeno fatto come Ponzio Pilato”». Ancor più preciso è Lino Furfaro, altro uomo dei Molè, anche lui pentito. Al pm Roberto Di Palma che lo interroga sull’omicidio del boss dice chiaro «Pino Piromalli… Facciazza, faccia… papà di Antonino… mandante dell’omicidio di Rocco Molè». Per adesso però sono solo parole.
LA DISTRUZIONE DEI MOLÈ FIRMATA PIROMALLI Fatto riscontrabile è invece la progressiva distruzione – fisica ed economica – della famiglia Molè seguita all’omicidio del suo capo. Nel giro di poco tempo, raccontano le innumerevoli conversazioni intercettate nell’indagine Mediterraneo, il clan sposta il proprio baricentro altrove. L’ordine arriva direttamente da don Mommo Piromalli, il patriarca detenuto. «Erano tutti piccolini… hanno preso e sono andati via – dice ai familiari il boss come se parlasse di storie antiche e quasi dimenticate – hanno deciso di andare a Roma hanno preso una casa… nascosti in campagna. Ogni tanto scendevamo io… e mio fratello Nino… io e mio fratello… poi abbiamo cominciato a uno… uno ed abbiamo fatto una cosa (…) Hai visto? Le cose purtroppo ci vuole tempo». È lucido il boss, sa che da uno scontro con i Piromalli la sua famiglia uscirebbe pesantemente sconfitta, per questo invita alla calma e a spostare tutte le attività in un altro territorio, dove recuperare forze e quattrini. Una strategia confermata anche dal pentito Mesiani Mazzacuva, che tuttavia ha fornito un altro dato, forse fondamentale, per gli inquirenti.
IL FLIRT DI ROCCO MOLÈ CON I SERVIZI È stato lui a parlare di uno degli ultimi affari che ha tenuto impegnato Rocco Molè. Un affare sporco, ovviamente, ma inedito. Tra la fine del 2007 e l’inizio del 2008, il boss era riuscito a mettere le mani su un carico di armi proveniente dall’Albania e “ritirato” a Bari. Un gentile omaggio delle barbe finte – non si sa al momento di quale Paese – in cambio di un “servizio di vigilanza” sul porto di Gioia Tauro. «Loro (i Servizi, ndr) – spiega Mesiani Mazzacuva – cercavano un riferimento, questo è poco ma è sicuro e penso che pure ad altri poi gli fu proposto, all’interno del porto di Gioia Tauro loro volevano un referente là dentro, qualcuno che tenesse l’ordine e che gestisse qualcosa per conto loro all’interno del porto di Gioia Tauro».
IL SECONDO STATO DICE NO Una notizia che, al netto della riservatezza che ha sempre contraddistinto il giovane boss, potrebbe essere arrivata all’orecchio dei Piromalli. Che potrebbero non aver gradito. Per niente. Il clan che il pentito Antonio Russo definisce «il secondo Stato», come uno Stato ha sempre curato i rapporti con il “territorio ospitante” le sue istituzioni e i suoi apparati: parlamento e governo italiano, magistratura calabrese e no, servizi. Relazioni sviluppate in ambito massonico, ha iniziato a rivelare oggi il processo Gotha, ma di cui si trova traccia in diversi atti giudiziari. Prima fra tutte, le motivazioni della sentenza di primo grado del processo Andreotti.
LA RICHIESTA DI ANDREOTTI È in quella sede che vengono riportate (ma non valorizzate) le parole del dichiarante Antonino Mammoliti, figlio di Francesco, capobastone di Castellace e fratello di Saverio, detto “don Saro”, che dal padre ha ereditato il comando della consorteria. È lui a parlare per la prima volta dei rapporti fra Andreotti e i Piromalli, inizialmente mediati dai palermitani di Stefano Bontate. Per conto del “divo Giulio” il boss avrebbe chiesto a don Mommo Piromalli di far cessare le pressioni estorsive sul petroliere romano Bruno Nardini, divenuto oggetto di minacce dopo aver impiantato alcuni depositi di carburante a Vibo Marina. Tutte richieste che – avrebbero informato i servizi, a detta di Mammoliti – arrivavano dalla zona di Palmi. Detto, fatto, assicura l’ex capoclan di Castellace.
NUMERO DIRETTO Più di recente invece, altri pentiti hanno raccontato di rapporti diretti fra i Piromalli e lo storico politico democristiano. «Don Gioacchino era l’unico che aveva il numero della segreteria privata di Andreotti – ha messo di recente a verbale il pentito Antonio Russo – e loro chiamavano dal numero dell’Agip 0966.51070, che era un numero a gettoni, chiamavano le varie segreterie politiche».
LA TERRA DI MEZZO Rapporti poi utilizzati nella preparazione della poi naufragata candidatura di Licio Gelli in Calabria, in cui a detta dei pentiti Andreotti avrebbe avuto un ruolo? Allo stato, non è dato sapere. Certo è però che un possibile punto di contatto fra Gelli, Andreotti e Piromalli emerge dall’incrocio delle dichiarazioni nel tempo utilizzate in diversi procedimenti. Per il faccendiere Elio Ciolini – divenuto noto per il suo presunto coinvolgimento nelle indagini sulla strage di Bologna – c’erano uomini legati ai clan della Piana nella loggia riservata “Montecarlo”, «un potentato economico – si legge nella relazione conclusiva della commissione d’inchiesta sulla strage di Bologna – dominato dalle personalità di Andreotti, Agnelli, Calvi, Monti, Ortolani, Gelli e dal capo del gruppo editoriale Rizzoli e vari altri distinti fratelli fondatori, esecutivi e attivi».
LA RETE DEL GRAN MAESTRO UGOLINI Una loggia segreta, riservata cui – dice Ciolini – aveva accesso, ad esempio, il “comandante” Giorgio Hugo Balestrieri, controverso personaggio in bilico fra ‘ndrine, logge e servizi di intelligence nazionali e internazionali, oggi sotto processo per i suoi rapporti con il clan Molè. Una loggia, completa il pentito Cosimo Virgiglio, anche conosciuta come Titano e diretta dall’ambasciatore di San Marino, Giacomo Maria Ugolini, fra i “muratori” che hanno costruito quella terra di mezzo in cui ‘ndrangheta, politica e massoneria e che «aveva in mano il Sismi, il Sisde». In quell’ambiente, gravitava un altro personaggio legato alla potentissima ‘ndrangheta della Piana di Gioia Tauro. Si tratta – spiega il collaboratore – di Luigi Sorridente, nipote di Peppino Piromalli, che proprio da lui – dice Virgiglio – «aveva ricevuto un fee di ingresso a Villa Wanda», quartier generale del potere di Gelli.
«NOI E I SERVIZI, MAI» Per fare cosa, con che finalità non è dato sapere. A differenza dei Molè, nella famiglia Piromalli allo stato non ci sono pentiti in grado di spiegarlo. Ma dai collaboratori che hanno fatto parte di quella che per decenni è stata la loro costola, per poi convertirsi nel loro peggior nemico, qualche dettaglio viene fuori. Come l’ordine che, a detta di Mesiani Mazzacuva, don Mommo Molè avrebbe impartito dal carcere. «Non gli piaceva – racconta il pentito ai magistrati – che Rocco avesse a che fare con i servizi dice “noi queste cose non le abbiamo mai fatte, questi vogliono sempre qualcosa in cambio”, quindi in cambio o un’infamità, consegnare qualcuno oppure fare qualcosa insomma… sempre fermo restando che poi se va bene ci paghi solo tu ma loro non ci pagano mai”».
UN TENTATIVO PERICOLOSO? Sarà proprio questo tentativo di “golpe” nel rapporto con i servizi a condannare Rocco Molè? Al momento non è dato sapere. Però c’è un dato, emerso nell’inchiesta Provvidenza e registrato in un’informativa dei primi anni Duemila della Mobile di Roma, che potrebbe indicare che quel delitto sia stato deciso in un luogo altro rispetto alla Piana di Gioia Tauro. L’omicidio di Rocco Molè avviene infatti proprio nei giorni in cui in Calabria ci sono l’imprenditore romano Pietro D’Ardes, oggi condannato in via definitiva a undici anni di reclusione, ma dal 2006 al 2009 libero di agire indisturbato. E di mettere le mani, grazie a cordiali rapporti intrecciati prima con il clan Alvaro, quindi con i potentissimi Piromalli, sulla All Services, importante cooperativa di transhipment attiva nel porto d Gioia Tauro.
L’OMBRA DEI CASAMONICA Un affare che si conclude dopo l’omicidio di Rocco, ma soprattutto dopo la rapida trasferta di D’Ardes a Gioia Tauro. In quell’occasione però l’imprenditore non era solo. Con lui c’era anche Rocco Casamonica, uomo di punta del clan di ex nomadi, che dopo esser divenuti stanziali a Roma sono diventati noti per il grilletto facile e i metodi spicci. Formalmente Casamonica figurava fra i detenuti in affidamento in prova in una delle aziende di D’Ardes, ma in realtà non svolgeva mansione alcuna. Se non – lasciano intendere alcune conversazioni intercettate – quella di probabile socio dell’imprenditore nell’affare All service. Nel corso di quell’unica trasferta calabrese ha forse avuto un ruolo nell’omicidio Molè?
IL FANTASMA Un’ipotesi affiorata in uno dei filoni d’indagine del procedimento Cent’anni di storia, riferibile alle connessioni dei Piromalli con le amministrazioni locali e comunemente noto come “sindaci”, ma mai potuta esplorare. Ma quando le acquisizioni romane vengono trasferite ai pm reggini, era passato troppo tempo per disporre accertamenti mirati sui contatti dell’imprenditore e di Casamonica. E Rocco – «per questioni di competenza naturale» – non è stato mai sentito né indagato.
A CACCIA L’ipotesi che abbia avuto un ruolo nell’omicidio di Molè – come logista o come esecutore materiale – è stata più volte presa in considerazione, ma quando gli atti sono arrivati a Reggio la pista era ormai troppo fredda perché si potessero disporre accertamenti. E il ruolo di Casamonica è rimasto un mistero, sebbene – anche in sede giudicante – i magistrati abbiano affermato l’esistenza di una relazione fra l’acquisizione della cooperativa All Services e quell’omicidio eccellente. Tutti fili che, insieme a quelli emersi dalle dichiarazioni dei pentiti, la Dda sta cercando di riannodare.
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it
17 Marzo 2017