«Il padrino si è fatto la plastica in Bulgaria, sia al volto sia ai polpastrelli. Ha problemi di salute: non ci vede quasi più ed è in dialisi». Parla l’uomo che ha conosciuto il boss ricercato da 25 anni
Durante il viaggio che Gino compie da Viareggio a Palermo, alla guida della sua auto, ripassa nella mente tutto quello che deve fare una volta giunto a destinazione. I modi che deve usare, le parole da misurare e il rispetto da mostrare per la persona “importante” che si troverà davanti. Per tutto il tragitto Gino (la cui vera identità L’Espresso ha deciso di non svelare) si è chiesto che faccia avrebbe mai potuto avere la persona che lo aspetta a Palermo. Lui, toscano di 45 anni con qualche disavventura giudiziaria e vecchie amicizie con siciliani legati a Cosa nostra e calabresi di clan della ’ndrangheta, è impaziente e in fondo eccitato per quell’incontro. Nella sua testa ronza un interrogativo: è davvero così come lo descrivono i giornali attraverso l’identikit o, forse, assomiglia più al ragazzo ritratto nelle rare foto in cui sorride spavaldo? E poi, come lo deve chiamare? deve rivolgersi a lui dandogli del voi?
Gino durante la notte trascorsa nella cabina della nave sulla quale ha imbarcato l’auto per raggiungere il capoluogo siciliano, tiene stretto la valigetta di colore scuro che gli è stata affidata. Ha una missione, consegnarla, una volta giunto a destinazione, a lui, a Matteo. O come lo chiamano in Toscana i suoi amici: “lo Zio”. All’anagrafe, “lo Zio” è Matteo Messina Denaro, nato a Castelvetrano, in provincia di Trapani, il 26 aprile 1962, capo della mafia trapanese, ricercato da oltre 25 anni.
Sono in pochi quelli che possono dimostrare di averlo visto e incontrato. Ancor meno quelli che con lui hanno parlato. Il toscano Gino è uno di questi e lo racconta, e L’Espresso ve lo propone in esclusiva. «Ho conosciuto Matteo Messina Denaro di persona tra il 2005 e il 2006. Ci siamo visti la prima volta al cancello di uscita del porto di Palermo. All’incontro erano presenti, oltre allo “Zio”, tre persone, due siciliani e un calabrese. Questi ultimi li conosco da diverso tempo. Ma è stato il siciliano, tre giorni prima dell’appuntamento fissato a Palermo, a contattarmi offrendomi di lavorare con lui. Ho accettato. Ci siamo visti ai bungalow del carnevale di Viareggio e qui mi ha consegnato una valigetta che conteneva denaro contante che dovevo portare in Sicilia. E così sono partito per questo viaggio che mi ha portato al cospetto del capo della mafia».
Il racconto di Gino è minuzioso, riporta sempre circostanze che possono essere riscontrate. A distanza di anni, la scena di quella mattina al porto di Palermo è come se fosse un’immagine stampata davanti ai suoi occhi: «Sono sbarcato dalla nave e mi sono diretto al punto del porto in cui il siciliano mi ha indicato per incontrarci, e qui l’ho trovato in piedi accanto ad un’automobile. Dentro ho visto una persona seduta, era Matteo Messina Denaro. È sceso e mi ha salutato con un cenno della mano. Avevo ripassato tante volte nella mia testa quel momento e stando lì davanti allo “Zio” adesso non mi venivano fuori le parole, sembravo quasi paralizzato, la bocca cucita. Immobile per pochi secondi. È bastato un piccolo cenno del siciliano ed ho consegnato la valigetta al calabrese che l’ha passata allo “Zio”». Gino ricorda la fatica di quel momento nel rispettare tutte le raccomandazioni che gli sono state fatte a Viareggio prima di intraprendere il viaggio. «Mi hanno avvisato che avrei incontrato una persona importante e che avrei dovuto essere rispettoso» racconta Gino. «E così ho fatto!».
L’immagine del primo incontro del toscano con “lo Zio” è nitida. E lo descrive così: «Matteo Messina Denaro quando l’ho visto era fisicamente robusto, di carnagione scura, i capelli mori tirati all’indietro e portava occhiali scuri». Per tentare di spiegare meglio il volto del boss a Gino viene mostrato l’identikit che la polizia di Stato ha realizzato alcuni anni fa. Il testimone dell’incontro guarda l’immagine e afferma subito che «la faccia dello “Zio” è diversa rispetto alla foto che mi fate vedere». E quindi svela altri particolari, tende a descrivere con le dita che passa sulla foto la nuova fisionomia del viso, ricalcando i lineamenti, sottolineando fra le altre cose che: «Il naso è diverso, perché è più affusolato rispetto all’identikit».
Le dichiarazioni di Gino sono piene di dati importanti che svelano un mondo di complicità diverse da quelle che fino adesso è emerso dalle indagini sviluppate in Sicilia. Si scopre una rete di fiancheggiatori e complici lontana da quella trapanese. A partire dal fatto che il boss ha spostato diversi suoi interessi economici e criminali in Toscana, che ha soggiornato di frequente nella zona di Pisa, che viaggia spesso per Lamezia Terme e che della sua rete di protezione oggi si occupano anche alcuni esponenti della ’ndrangheta.
Le rivelazioni del super testimone sono al vaglio dei magistrati della Procura distrettuale antimafia di Firenze, che ha già riscontrato gran parte delle affermazioni, in alcuni casi pure con fotografie che documentano incontri segreti con l’entourage di Messina Denaro, delegando indagini alla Guardia di Finanza. Gino proviene dal milieu della criminalità locale della Toscana. Mondo che gli ha permesso nei primi anni Duemila di avere stabili rapporti con i clan calabresi della ’ndrangheta ed esponenti di Cosa nostra. Ha trafficato in false banconote e titoli di Stato, di cui mostra anche alcune foto come prova di ciò che dice. Scatti che adesso sono in possesso dei magistrati.
«Il calabrese mi aveva avvisato di una cena che doveva fare con “lo Zio” nel ristorante vicino all’aeroporto di Pisa, ha riservato una saletta appartata, ma non si è presentato nessuno e nessuno ha chiamato per disdire. Forse qualcuno ha pensato ad una trappola, a intercettazioni e così il calabrese è scomparso per diversi mesi senza più farsi vivo», racconta Gino, il quale sospetta che probabilmente nel ristorante in cui si dovevano incontrare erano state messe delle microspie dai magistrati dell’antimafia di Firenze e qualcuno potrebbe aver avvisato Matteo e i suoi complici.
Le scene degli incontri riservati raccontati da Gino, che riguardano anche un componente della famiglia di Matteo Messina Denaro, si svolgono in una trattoria vicino allo scalo aereo di Pisa. Da questo locale sono passati esponenti delle famiglie siciliane e dei clan calabresi. Uno di loro – legato alla zona jonica e ai clan di Rosarno, che da anni ha messo radici in Toscana – è lo stesso che ha portato Gino da Messina Denaro al porto di Palermo. Ed è attorno a lui che gira il fantasma del latitante che frequenta la provincia pisana.
«Il calabrese», spiega Gino, «mi ha detto che Matteo Messina Denaro è stato più volte curato in una clinica di eccellenza della zona, dove è stato sottoposto alla dialisi. In questa clinica ci sarebbe un medico disposto a collaborare con l’organizzazione dei calabresi per rilasciare anche certificati falsi». Secondo le informazioni acquisite da Gino, il latitante avrebbe frequentato anche altri centri clinici stranieri, non solo per curare la sua salute precaria ma anche per sfuggire alle ricerche degli investigatori e così «si sarebbe rifatto anche i polpastrelli e il volto in Bulgaria» e aggiunge: «Secondo quanto mi dice il calabrese, “lo Zio” avrebbe grossi problemi di vista, così seri da non permettergli di guidare la macchina».
Ma per quale motivo uno ’ndranghetista sarebbe stato messo al corrente di un segreto così sensibile? La risposta è nelle frequentazioni del boss calabrese. Lui è in contatto con uno dei nipoti prediletti del latitante. Gino ricostruisce diversi episodi in cui i protagonisti sono l’uomo della ’ndrina e Francesco Guttadauro, 30 anni, nipote di Messina Denaro. Francesco è figlio di Carlo Guttadauro, condannato per mafia, fratello di Filippo – sposato con la sorella del latitante trapanese – e Giuseppe, quest’ultimo mafioso della zona di Brancaccio a Palermo. «Entrambi sono venuti a cena nel ristorante in cui mi trovavo, e il calabrese mi ha detto che il giovane era il nipote di Matteo Messina Denaro. Questo incontro è stato fotografato di nascosto». Poi Gino aggiunge: «Il nipote è alto un metro e 65, snello con gli occhiali, capelli scuri e vestito molto bene. I due sono arrivati al ristorante con una Bmw guidata da quello che è stato presentato come il nipote del latitante». Per gli investigatori che hanno analizzato le dichiarazioni di Gino, ci potrebbe essere un nesso fra l’automobile indicata dal testimone e quella di una persona di famiglia.
Si tratta di Nicola Russo, 43 anni, originario di Palermo ma residente a Trieste. Russo è cugino di primo grado di Francesco Guttadauro (sono entrambi i figli di un fratello e una sorella) e dunque nipote del boss latitante Matteo Messina Denaro. Il proprietario della Bmw, Nicola Russo, è un magistrato. Cognome diverso da quello del capo di Cosa nostra, ma gli intrecci familiari riconducono al padrino di Castelvetrano. Emergono, infatti, contatti fra lui e Francesco Guttadauro. L’anno scorso il pm ha festeggiato a Pordenone il decennale dal suo ingresso in magistratura. È stato applicato alla procura del Friuli occidentale per sei mesi. Poi è tornato a Trieste, prima come toga della pubblica accusa e oggi in servizio alla procura per i minorenni. In Sicilia è stato avvocato penalista e civilista, solo dopo ha deciso di fare il magistrato superando brillantemente il concorso di ammissione. Prima di arrivare a Pordenone ha lavorato al tribunale di Gorizia – dal 2009 al 2015 – occupandosi anche del maxi-processo sull’amianto.
Nel curriculum anche un breve periodo a Milano, qui si è occupato di diritto del lavoro, e a Udine. Russo, fino a prova contraria, è senza dubbio un magistrato perbene, preparato, ed estraneo ai traffici della cosca. Per sua volontà, ha deciso di svolgere l’attività lontano dalla Sicilia. Nulla da eccepire, quindi. Se non fosse per il collegamento sottolineato da chi si è messo sulle tracce dello “Zio”. Perché da questa istruttoria emerge un presunto rapporto con i mafiosi palermitani e trapanesi: Francesco Guttadauro, amico degli ’ndranghetisti guida la Bmw che gli inquirenti collegano al cugino magistrato.
Tuttavia nella memoria di Gino sono custoditi altri frammenti utili a ricomporre il misterioso puzzle della ventennale fuga del padrino trapanese. Gino scava nei ricordi, va indietro nel tempo e rammenta: «Matteo Messina Denaro si è incontrato a Pisa presso il bar Gambrinus con il calabrese, il “nipote” (Francesco Guttadauro ndr) e altre persone». E poi aggiunge: «Hanno alloggiato in un hotel di Cascina».
Il testimone spiega che le visite del latitante si sarebbero ripetute più volte in Toscana, «dove ha trascorso diversi giorni di vacanza a luglio anche a Forte dei Marmi» e in alcune occasioni avrebbe alloggiato in un resort di pregio sulle colline pisane con piscina e vista mozzafiato. La persona a conoscenza di questo fatto è del giro del calabrese, e fornirà anche il dettaglio di uno dei viaggi del boss trapanese: «Lo “Zio” ha preso un volo da Pisa per Lamezia Terme». Il testimone indica anche il nome falso con il quale viaggia. Ma non è l’unico indizio che Gino conosce degli spostamenti dell’uomo più ricercato d’Italia: «Doveva andare in un paese della Liguria a parlare con un sindaco per due affari. L’acquisto di un residence tramite società di riferimento dei siciliani e dei calabresi e un appalto per rifiuti speciali al quale dovrà collaborare un’azienda legata alla ’ndrangheta». La gita in Liguria del latitante indica i nuovi confini del regno di Messina Denaro. Dalla Sicilia al Nord Italia, dove può contare, come rivela il testimone, su altrettante e insospettabili complicità.