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di: Andrea Cinquegrani
Ha sempre avuto ben chiaro in mente e nel cuore il modo di fare giornalismo. Dalla parte del cittadino, del lettore che ha tutto il diritto di conoscere la realtà dei fatti, cosa succede realmente nei Palazzi, di che pasta è fatta il Potere, come agiscono i politici, se e quali scheletri nell’armadio custodiscono.
Il giornalismo d’inchiesta, investigativo, che cerca di sollevare i veli e alzare i coperchi.
Senza se e senza ma. A guardia dei diritti dei cittadini.
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Enrico Fierro aveva scelto fin da subito questa strada, difficile, impervia, zeppa di ostacoli e di rischi personali: non solo per via della camorra, per le minacce degli uomini di rispetto, ma anche – e ancor più – per via ‘giudiziaria’, tramite le querele facili che il potente di turno ti scaglia addosso per intimidirti; e ancor più subdole le citazioni civili, il vero revolver puntato alla tempia dei reporter con la richiesta di stratosferici risarcimenti danni.
INSIEME PER ANNI, IN QUELLA VOCE-CONTRO
E proprio quel tipo di giornalismo-contro ci ha accomunati alla ‘Voce’, dove Enrico ha cominciato a scrivere le prime sue vere inchieste. Forti, vigorose, super documentate, di grosso impatto civile fin da subito.
Ci siamo conosciuti quasi 35 anni fa, a gennaio 1987. Me ne parlò un dirigente del PCI di allora, un politico di razza, irpino come Enrico e guarda caso, pur non essendo parenti, aveva il suo stesso cognome: Lucio Fierro. “Enrico è tagliato per il giornalismo della Voce – mi disse – potrà dare un grosso contributo, ne sono sicuro”.
E fu proprio così. Scattò immediatamente un forte feeling, con il gruppetto della Voce. Aveva già esperienza in campo giornalistico, tivvù e radio locali, Enrico, ed era animato da una smisurata passione: sia per la sua militanza politica, sia ancor più per la voglia di ‘fare informazione’.
L’ho sempre immaginato come un ‘quadro’ – così si definivano un tempo i militanti del partito – che ad un certo punto abbandona la cornice per dare tutto il meglio di sé senza alcun condizionamento né limitazione, di partito o di padrone-editore.
(foto) Lucio Fierro
A partire da marzo di quell’anno Enrico diventa una presenza fondamentale nella Voce, una punta di diamante, capace di sfornare articoli e inchieste una più incisiva dell’altra.
Uno dei piatti forti è la ricostruzione post terremoto, la grande manna per gli ‘occasionisti’, un terreno di conquista per far crescere a dismisura le proprie fortune politiche e/o finanziarie, fregandosene altamente di ogni diritto alla rinascita e allo sviluppo della Campania.
L’altro non può che essere la narrazione dell’impero demitiano, che proprio in quella stagione da locale diventa nazionale, con l’astro di Ciriaco De Mita sempre più splendente. Da qui i reportage sulla dinasty nuschese, sullo ‘sportello di famiglia’ ossia la Popolare dell’Irpinia, gli amici imprenditori.
E lungo il percorso ecco due tappe fondamentali: i libri firmati da Enrico, Rita Pennarola e Andrea Cinquegrani nel 1990 e nel 1991, ossia ‘Grazie Sisma – Pomicino, Scotti, Gava, De Mita & C. – Dieci anni di potere e terremoto’ e poi ‘ ‘O Ministro – La Pomicino story, Bilancio all’italiana’, quando, appunto, Paolo Cirino Pomicino occupava la strategica poltrona di titolare del Bilancio.
QUEL DOPO TERREMOTO DA 416 BIS
‘Grazie Sisma’ ha un valore particolare, soprattutto sotto il profilo cronologico.
Lo scrivemmo, infatti, quando parallelamente era al lavoro la ‘Commissione Scalfaro’ costituita proprio per indagare su quella tanto opaca e tanto ghiotta ricostruzione, costata oltre 70 mila miliardi di vecchie lire alle casse pubbliche.
E diversi anni prima che cominciasse l’inchiesta della procura di Napoli sugli affari del post sisma: un’inchiesta che si rivelerà, dopo anni di indagine e soldi buttati al vento, un autentico flop. Ma soprattutto marchiata da un fondamentale vizio d’origine: tra i capi d’imputazione mancava quello principale, ossia il 416 bis, l’associazione a delinquere di stampo mafioso. Sì, perché gli inquirenti non riuscirono a trovar tracce di camorra in tutto quel pandemonio di affari! Ai confini della realtà.
Al contrario, in ‘Grazie Sisma’ venivano documentate per filo e per segno le tante, troppe connection tra politici campani e capibastone che, proprio con gli appalti della ricostruzione, hanno visto lievitare i fatturati delle loro imprese, vuoi impegnate nel movimento terra o nel calcestruzzo oppure alle prese con le centinaia e centinaia di subappalti, diventati la regola per le big del mattone che si aggiudicavano le ricche commesse e subito smistavano i lavori alle imprese (quasi sempre di rispetto) via subappalto.
Ma per la magistratura tutto ciò era pura invenzione, mera astrazione giornalistica!
Con Enrico abbiamo girato l’Italia per presentare i due libri e far conoscere ai cittadini quello che la magistratura non vedeva e non perseguiva, quello che la politica ovviamente nascondeva (con un’opposizione molto soft) e quello che gli altri media non raccontavano, sempre genuflessi davanti ai palazzi del Potere: all’epoca, a livello locale, ‘il Mattino’ di Napoli in pole position nella più totale disinformazione.
Ha continuato per anni sulle barricate della Voce, Enrico, con la stessa grinta, con la stessa voglia di scavare, scoprire, far luce, documentare. Come il primo giorno.
In seguito le avventure all’Unità, poi al Fatto, quindi l’ultimo anno al Domani. Inchieste sempre coi fiocchi, battaglie civili intraprese con il solito, indomito coraggio. Esemplare quella al fianco di Mimmo Lucano, che ha appena visto la sua ultima, vergognosa pagina giudiziaria con la condanna dell’ex sindaco di Riace come neanche il peggior mafioso.
I PREZZI PAGATI
Non si è mai tirato indietro, Enrico, non ha mai accettato compromessi, ha tirato avanti con la schiena dritta, e sempre motivato dall’unica molla che lo spingeva: fare giornalismo, quel giornalismo autentico in cui credeva, chiamatelo d’inchiesta oppure civile, fa lo stesso. Ma non altro. Non quello delle veline cloroformizzate che ormai appestano il mainstream e contagiano testate un tempo prestigiose.
Ha pagato prezzi in prima persona, Enrico, quando l’Unità s’è trovata senza più editore, o meglio quelli che c’erano se la sono data a gambe, facendo perdere le loro tracce. Lasciando ad esempio l’ultima direttrice, Concita De Gregorio, a doversi vender casa per pagare proprio i risarcimenti di quelle maledette cause civili.
E lo stesso è successo ad Enrico, che per difendersi è dovuto ricorrere ad ‘Ossigeno per l’informazione’, il preziosissimo avamposto a tutela dei giornalisti minacciati dalle mafie o per vie legali (sic), fondato e animato da Alberto Spampinato, fratello di Giovanni, il cronista dell’Ora di Palermo ammazzato da terroristi di destra. Quello stesso Ossigeno che in diverse occasioni ha difeso anche la Voce.
Una voce, quella di Enrico, che ci mancherà proprio come l’ossigeno. Perché inchieste come le sue sono l’ossigeno del giornalismo, il sale dell’informazione, il terreno dove far crescere i diritti e coltivare la giustizia e la democrazia. Quelle autentiche.
Di seguito pubblichiamo un bellissimo ricordo scritto da un altro giornalista di razza, Vincenzo Vasile, grande amico di Enrico e per anni inviato speciale dell’Unità.
No, Enrico. No. Il telefono non si spegne. Mai. Perché alla fine le notizie arrivano. E ti lasciano in brache di tela dentro a una fredda tempesta di sentimenti di ricordi di rimpianti di morte di vita. È arrivata solo adesso, il tempo di sciacquarmi la faccia dalle lacrime, la pessima notizia che Enrico è morto. Enrico Fierro, 69 anni, giornalista. Ex Unità. Ex fatto quotidiano. Da poco al Domani. Ma quante altre cose. Eppure ho spento il telefono questo pomeriggio, e lo sapevo – anzi forse proprio perché lo sapevo – che stavi male, anzi malissimo, da settembre ricoverato per polmonite e successivo infarto, imprigionato dalla ragnatela di tubicini della terapia intensiva con diagnosi a catena di un paio di altre malattie che scoprivi di avere addosso. Per non farti mancare niente.
Lo sai. Che le notizie non si possono fermare spegnendo il telefono o con altri espedienti: ce lo dicevamo già la prima volta in mezzo a una bufera tanti anni fa, Ariano si chiamava il paese, Ariano Irpino, sede di un super-carcere che balzò nella notte con i suoi muri altissimi e le garitte bianche mimetizzate dalla neve davanti ai nostri occhi. Collaboravi con la Voce della Campania, rampante e squattrinato mensile di inchieste scomode, eri ancora “funzionario” – “rivoluzionario di professione”, scherzavamo, ma neanche poi tanto, visto che spesso lo stipendio saltava e anche quando… era una specie di nota spese – nell’organico striminzito della federazione PCI di Avellino. Nell’Irpinia del pre-terremoto avevi fatto tante assemblee di braccianti e guidato vertenze contro lo spopolamento della montagna. Che si concludevano con un pasto a casa del segretario di sezione e una “mappata” di cibo per il ritorno.
Nel dopo terremoto avevi visto e vissuto l’infiltrazione degli uomini in carne e ossa della camorra napoletana in una zona “pulita”. Il nostro servizio ad Ariano non era un granché rispetto a questi grandi temi, temi che erano grandi allora solo per l’Unità, non per la filosofia editoriale degli altri giornali. C’era la direttrice del carcere-modello scivolata in un’inchiesta camorristico-boccaccesca, per dirla con i cronisti pigri. E tu che pigro non eri , ti beccasti una clamorosa piazzata della suddetta direttrice: “Enri’ tu qua trasivi e niscevi …. trasivi e niscevi”: tradotto significava che in qualità di dirigente di partito tu avevi avuto facilmente l’accesso al carcere e alle sue iniziative di socialità , e ora ripagavi così la dirigente in disgrazia. Tu rispondesti con uno dei tuoi sorrisi eleganti arrotando le erre con la voce impastata di fumo. Suppergiù rivendicasti libertà di espressione e di critica, poi scrivemmo tanti pezzi divertenti, e festeggiammo a spese dell’Unità in trattoria. Al ritorno a Roma avvertii i capi del giornale che ad Avellino c’era uno tanto bravo, intelligente, colto, che pensava di scrivere sul mondo come se il mondo potesse essere cambiato. Citazione con perifrasi dal tuo amato Bertolt Brecht. (Alle ragazze del giornale spiegai che quell’Avellinese era anche bello).
E dallo spettacolo e dai “media “ saresti rimasto folgorato per tutta la restante vita: ci vedemmo spesso, ci sentimmo poi per telefono, non quanto avrei voluto, non quanto avrei dovuto: l’ultimo migliaio di sigarette lo bruciasti in giro per il meridione per uno spettacolo che inventasti nella tua furia civile a sostegno della paradossale e tragica persecuzione da parte della cattiva giustizia e della cattiva politica di un uomo giusto come Mimmo Lucano. E io ancora maledico il lockdown per avermi impedito di vederlo.
Ecco, è morto un giornalista, un combattente. In una fase nella quale questa professione e quest’aggettivo non vanno più facilmente in coppia. Leggo già tanti accorati necrologi, che dicono dell’amore di tanti di noi per Enrico. Spero che non si associno ipocritamente al nostro lutto direttori e colleghi che osteggiarono Enrico e che Enrico combattè, lui con eleganti e affilate parole, gli altri con coltelli nella schiena. Spero che tacciano quei “sindacalisti di categoria” che negarono o centellinarono la solidarietà per le battaglie giudiziarie che minacciarono economicamente e ancora minacciano Enrico e la sua famiglia. Guerre giudiziarie a colpi di querele e di risarcimenti che per lui e per quelli della sua pasta sono la continuazione della battaglia politica per un mondo migliore “con altri mezzi”. Altra citazione di concetti e parole che hanno fatto il loro tempo, Enri’, da quando “trasivi e niscevi” con le tue, le nostre speranze, nelle nostre vite.
Ps. Ed eventualmente salutaci Nuccio Ciconte non sia mai che qualcosa rimanga dopo la vita oltre ai nostri ricordi
Vincenzo Vasile
9 Novembre 2021