Tratto da: Nuovo Politecnico 99 Einaudi 1977 – 26 febbraio 1977
Lettera VIII
Dove si auspica la degradazione dell’ambiente, purché in forma pianificata.
Carissimi indiani, (8)
il vibrione napoletano prima, Seveso poi e da ultimo i vostri estrosi tableaux vivants hanno finalmente richiamato l’attenzione delle autorità responsabili sull’impressionante degradazione ambientale in cui versiamo; pubblici poteri inerti ed uno sviluppo economico anarchico e concorrenziale ne sono stati gli agenti dolosi. Da tempo invero scienziati di ogni paese hanno drammaticamente denunciato i catastrofici rischi cui l’uomo e la natura vanno incontro a breve scadenza ove non si ponga freno ad un modello economico fondato sull’ipersviluppo produttivo di alcuni paesi e sulla rapina imperialistica degli Stati più deboli. Un appello così autorevole e le prove empiriche che lo documentano a lungo andare non potevano passare inosservati; l’opinione pubblica – di cui voi, indiani metropolitani, esprimete il disagio con atteggiamenti bizzarri e radicali – incomincia ora a sensibilizzarsi intorno a problemi ecologici quali l’inquinamento, la nocività di certi prodotti alimentari e farmaceutici, la degradazione del paesaggio, l’impoverimento della flora e della fauna, lo sperpero delle fonti energetiche e così via. Se non che, malgrado una certa sensibilizzazione della popolazione, l’inerzia dei pubblici poteri, almeno in Italia, è stata ed è assoluta. I governi che si sono succeduti nel nostro paese dalla ricostruzione ad oggi non hanno saputo, nè voluto, porre alcun freno alla degradazione ecologica in cui ora siamo. I politici hanno sistematicamente lasciato mano libera all’imprenditoria privata e addirittura a quella pubblica nell’opera di saccheggio del paese, fino a renderlo un enorme deposito di immondizie, quale ora è. Le sinistre erediteranno quindi una situazione ambientale pesantissima; ecco perché è necessario avere fin d’ora le idee ben chiare circa i fini e le modalità del vostro e nostro intervento. A tal’uopo mi rivolgo a voi ma, sapendovi indocili, userò assai sobriamente del privilegio che hanno i vecchi di dare consigli ai loro giovani amici. L’azione andrà articolata a due livelli. Dovremo innanzitutto pianificare rigidamente lo sviluppo della produzione, la qualità e la quantità dei consumi, di maniera che questi due momenti del ciclo economico non procurino più nocumento alla salute biopsichica dell’uomo. La parsimonia fa bene alla salute ed il relativo programma, chiamato austerity, è un passo avanti in questa direzione. Mi pare degno di nota il fatto che la parsimonia sia stata accolta dai giovani rivoluzionari con entusiasmo. Non lasciamoci ingannare dagli altisonanti proclami contro i sacrifici che qualche gruppuscolo ha lanciato; si tratta di un rifiuto a livello intellettuale, cioè a parole. Guardiamo invece ai costumi dei giovani emarginati, degli studenti, delle femministe, dei militanti, « dei porci con le ali » per usare un’espressione fortunata ed onnicomprensiva: cibi scotti, surgelati, abbigliamento di fortuna, stamberghe, cucina macrobiotica, ecco il campionario di pitoccherie del più pitocco di tutti i ceti, del ceto pitocco anche intellettualmente perché osa giustificare con vari pretesti la parsimonia pratica in cui è tenuto. Questo primo livello di risanamento della salute del popolo va affrontato con salda volontà politica; si tratterà perciò di mettere la politica al servizio dei suggerimenti di tutela dell’ambiente formulati dai settori scientifici competenti in accordo con la popolazione e non più, come ora avviene, al servizio del profitto e della speculazione. Il secondo livello del nostro intervento è certamente più complesso e può essere compendiato in questa formula: creare una coscienza ecologica popolare non in conflitto con la produzione. Lo strumento con cui conseguire questo risultato è l’impiego della propaganda, dichiarata od occulta che sia. Ed è proprio sul contenuto da imprimere alla propaganda ecologica che voglio ora soffermarmi.
Come ben sapete la preoccupazione ecologica tende, in certi ambienti irrazionalisti, a trasformarsi in una sorta di catastrofismo millenarista: ne scaturisce un rifiuto preconcetto dello sviluppo produttivo considerato talora come fattore degenerativo di un supposto paradiso perduto e talaltra come ultimo ostacolo verso l’edificazione di un paradiso infine ritrovato, nel quale convergono tendenze oscurantiste ed estremismi distruttivi. Voi stessi incappate a sprazzi in stati d’animo del genere. Tali aberrazioni ideologiche vanno battute, non già per la loro pericolosità sociale immediata, ma perché esse costituiscono il fertile humus da cui potrebbe germinare una rinuncia dell’uomo a padroneggiare la natura e il mondo.
E, ove l’uomo – beninteso in quanto specie – cessasse di considerarsi proprietario della natura, la conseguenza immediata sarebbe l’arresto irreversibile dello sviluppo produttivo.
Per combattere efficacemente queste tendenze irrazionaliste non sono però sufficienti nè gli anatemi, nè le confutazioni a parole. Si tratta invece di inculcare capillarmente nella popolazione, mercè la parola ed i fatti dimostrativi, alcuni atteggiamenti, ideologie positive potremmo dire, che saranno tanto più accolte ed accettate, quanto più verranno spacciate come unica soluzione di fronte ai disagi indotti dalla degradazione ecologica.
Se è vero, come recita una vecchia canzone anarchica, che: « Nostra patria è il mondo intier » di questo nostro mondo dobbiamo avere una cura particolare e pretendere che tutti agiscano come se fosse cosa propria.
L’oikos della specie umana è il mondo e noi dovremo creare i nòmoi che lo regolano. Il passaggio è arduo ed equilibristico ma è l’unico praticabile e, almeno, bisogna far credere che sia l’unico; si tratterà perciò di indurre nel singolo la convinzione che la natura è proprietà della specie, che è l’unico capitale di un capitalista collettivo – gli uomini, appunto – e che pertanto va plasmata ad immagine e somiglianza della collettività umana. Lo sviluppo produttivo è oggi possibile soltanto se questa convinzione verrà fatta propria dalle masse ed informerà i loro desideri.
L’alternativa è fra la catastrofe ecologica e la trasformazione della natura in capitale di un unico capitalista collettivo o, meglio, è questa l’alternativa che va evidenziata ai subalterni.
Lasciamo ai nichilisti la catastrofe ed operiamo invece sulla popolazione affinchè il razionale assoggettamento del mondo sia infine attuato.
Ma in che modo rieducare al collettivismo proprietario una popolazione ormai degenerata da secoli di individualismo concorrenziale? Popolarizzando certi valori, un tempo corredo delle classi dominanti, che lo sviluppo capitalistico ha finora negato ai ceti subalterni. Questi ultimi, secolarmente esclusi da ogni gioia terrena, capiranno allora per la prima volta che la quantità e il fittizio, unico cibo che il capitale ha loro offerto, sono ben poca cosa se comprati ai piaceri della qualità e dell’autentico che la natura, divenuta capitale collettivo, sarà in grado di elargire; ed ecco che dimenticheranno per un altro pò – forse computabile in decenni – che « la merce non sfama l’uomo », come suona l’aforisma di un utopista di cui ora mi sfugge il nome.
Ebbene, la costruzione di un io popolare più autentico e qualitativamente affinato va condotta a mio avviso proponendo tre diversi gruppi di valori naturali.
Sarà d’uopo in primo luogo ricordare a tutti che la natura è, in sé, squisitamente armoniosa e che tale mirabile equilibrio può essere felicemente fruito dall’uomo solo ove non venga contaminato. La natura deve cioè essere posta dall’uomo esteriormente a sè, perché possa essere guardata e goduta.
Questo rapporto di estraneità con la natura – che è matrigna quando l’uomo ne è parte integrante, ma che diviene benevola se viene fatta estaticamente osservare – appare a prima vista disinteressato ed alieno da qualsiasi tornaconto riscontrabile: il cultore della natura non nuoce infatti al patrimonio biologico, nè lo sfrutta a suo uso e consumo. La contemplazione pura e semplice del mondo e l’appagamento che ne consegue appaiono scevri da qualsiasi intento di valorizzazione dell’oggetto scrutato. Ma non è così. Infatti, benché la natura soltanto osservata non sia un capitale, lo diventa invece la sua proiezione nel soggetto che osserva il quale, durante tale processo, valorizza sè stesso, si nobilita, si affina, in una progressione che, da un’iniziale semplicità può giungere alla ricerca del raro, dell’effimero, del naturalmente putrido.
La natura cessa allora di costituire un capitale privato, ma lo diventa invece il soggetto che la scruta; ma perché ciò avvenga occorre non già la natura quale essa potrebbe risultare dallo sfacelo produttivo, bensì una natura ricostruita ad hoc, un parco naturale esteso a tutto il pianeta, insomma.
L’appagamento che si ricava dall’osservazione della natura può aver luogo soltanto a condizione che essa sia stata preventivamente valorizzata, trasformata in parco nazionale, in riserva ecologica, in palcoscenico della biologia, in museo del divenire. A ben vedere una natura lasciata a sè non sarebbe particolarmente interessante nè, comunque, saprebbe determinare un processo di valorizzazione dell’individuo; essa va invece rivalorizzata prima e poi somministrata in fruizione: soltanto a queste condizioni diventa necessariamente appagante. E’ questa un’opera gigantesca di riconversione della natura, alla stregua della riconversione di un qualsiasi impianto produttivo. Quali i costi sociali di tale operazione?
Ben pochi in fondo e tutti connessi alla prevenzione ed alla propaganda ecologiche; è necessario semplicemente creare un cordone sanitario, meglio uno schermo, fra l’uomo e la natura impedendo che essa sia violentata.
Per queste ragioni il richiamo che voi, indiani metropolitani, lanciate con pittoresca inventiva in nome di una natura rigenerata non può lasciare indifferenti noi comunisti, prontissimi ad accogliere le vostre istanze. Certo, il vostro massimalismo va un po ridimensionato e, in luogo di un km2 di verde pro capite come avete chiesto – ciò che peraltro non è molto lontano dalla tradizione ormai consolidata degli allotment gardens inglesi – il compagno Novelli, sindaco di Torino, si è limitato a donare un arbusto ad ogni cittadino, cioè una dose di foglie sufficiente per un piatto di insalata. Ma, al di là delle divergenze di dettaglio, il PCI è sensibile al vostro appello ed auspica che esso non cada nel vuoto.
E’ certo che il piano di riconversione della natura distoglierà qualche energia produttiva dai settori tradizionali e sarà necessario, qua e là, abbattere qualche officina; male, quest’ultimo, abbondantemente ripagato dal fatto che la legge del valore potrà finalmente dispiegare i suoi benefici effetti anche nell’ambito della biologia, attribuendo un prezzo alla natura stessa e, quel che più conta, ai suoi fruitori. Così finalmente il capitale avrà portato a compimento la sua opera più elevata: la produzione dei rapporti degli uomini fra loro e dell’uomo con il mondo. Ben poca cosa sarebbe il progetto capitalistico se esso si limitasse a produrre merci; il suo piano è assai più ambizioso e si configura come pretesa di produrre la natura stessa, ed in lei l’uomo. Sarà un uomo dalla facies lievemente Hippocratica: sarebbe demagogico volerlo nascondere, e ciò non è nel nostro stile. Clinicamente vivo, lo terrà in vita la convinzione di battersi per la rigenerazione della natura e per l’annientamento del male che l’ha finora degenerata.
Grazie al cielo voi, giovani indiani metropolitani, ci date una mano nel far credere che il male sia nella natura inquinata mentre esso è già emigrato nel progetto di natura rigenerata.
L’ammonimento di Swift, per fortuna, vi è ignoto ed è bene che resti tale per tutti:
« Seldom have two ages the same fashion in their pretexts and the same modes of mischief. Wickedness is a little more inventive. Whilst you are discussing fashion, the fashion is gone by. The very same vice assumes a new body. The spirit transmigrates; and, far from losing its principle of life by the change of its appearance, it is renovated in its new organs with a fresh vigour of a juvenile activity. It walks abroad, it continues its ravages, whilst you are gibbeting the carcase, or demolishing the tomb ».
Vi invito ora a considerare con attenzione, miei ottimi amici, il fatto che la riconversione della natura in una veste mutata non ci costerà, in sè e per sé, un bel nulla; lasciando che essa dispieghi spontaneamente la sua opera, essa si riconvertirà con le sue sole forze. Il nostro intervento in questo campo, a differenza di quello del capitalista tradizionale che si configura in un’azione volta alla valorizzazione, dovrà invece limitarsi ad un’astensione, diretta, ovviamente, verso il medesimo fine.
Il risultato che ho descritto è ottenibile solo con la collaborazione popolare ed essa ci verra data se riusciremo ad inoculare in ciascuno un vero e proprio culto della verzura. Ma, perché culto vi sia, è necessario che l’oggetto del culto sia altro rispetto al cultore. Dobbiamo perciò combattere ogni atteggiamento di indifferenza, di insensibilità, di rozzume nei confronti dei piaceri naturali quali noi offriremo.
E’ assolutamente indispensabile sradicare la convinzione, o meglio ancora impedire che essa sorga, che non tocchi affatto all’uomo la valorizzazione della natura e che ogni processo di valorizzazione sia in fondo mortifero per l’uomo in quanto parte della natura stessa. Convinzione che poi in pratica si atteggia in un desiderio di abbandono del mondo, del suo apparato produttivo, dei meccanismi della sua valorizzazione e che giunge ad immaginare, in soggetti particolarmente deliranti, un’insurrezione della natura nella sua intierezza, e non solo della specie umana, contro la totalità del capitale.
Alcuni vedono i sintomi di tale insurrezione nell’abnorme proliferazione di certe specie organiche e giungono ad auspicare una sorta di estetica dell’abbandono a sè di tutto l’apparato produttivo, prefigurando il capitalismo alla stregua di quelle civiltà scomparse le cui vestigia ancora si osservano in alcune città orientali riconquistate dalla jungla. A costoro rispondo con le parole del grande Thomas Paine: «I do not like to see anything destroyed; any void produced in society; any ruin on the face of the land ».
Altro valore, o meglio facoltà, che va riscoperto ad uso del proletariato è la memoria. II suo impiego è stato tolto da lunga pezza al popolo giacché il capitale necessitava di uomini mobili, sradicati da qualsiasi contesto comunitario, privi di ricordi insomma. Ma una condizione di psicolabilità generalizzata è socialmente sostenibile solo quando il presente non fa rimpiangere il passato nè sollecita, per converso, la speranza di un futuro migliore. Purtroppo così oggi non è, e diviene allora indispensabile riscoprire il passato, la sua genuinità, le sue rustiche gioie, la sua autentica semplicità poiché, mi par chiaro, tanto l’idea di perfettibilità nel progresso, che quella dell’avvento del socialismo hanno ormai perso ogni credibilità e vanno, per usura, sostituite.
La nostra propaganda fece sempre leva sul futuro, sul « sole nascente dell’avvenir », e così era opportuno perchè ci rivolgevamo a uomini senza memoria del passato; oggi questa condizione di labilità diventa pericolosa perchè la vita condotta in un presente tanto miserabile ha bisogno di un rifugio qualsivoglia per perpetuarsi: questo rifugio è il ricordo.
Creare la memoria del proletariato e fargliela impiegare largamente è nostro compito irrinunciabile. Ma la memoria ha bisogno di immagini e di idee per illuminarsì, e quale più dolce contenuto imprimerle se non la visione di una natura appena sfiorata dall’industrialismo, afferente i suoi prodotti semplici e vigorosi e le sue genuine delizie? Il proletariato non ha mai vissuto tali piaceri, né probabilmente mai li vivrà; quel che conta è che si appropri di un ricordo che non è suo, di un ricordo che altri hanno potuto avere in grazia sua.
Ma chi assumerà il compito di creare una memoria per il popolo? La cultura marxista-leninista è debole per questa bisogna. Gramsci aveva lanciato un appello alla tradizione, ma non siamo stati all’altezza del suo insegnamento e non abbiamo saputo offrire altro che riesumazioni folkloristiche e padiglioni di cucina regionale nelle nostre feste popolari.
Invece certe frange della cultura conservatrice più seria, individui isolati per lo più, e chiusi in uno sdegnoso sprezzo dell’epoca, assolveranno molto meglio di noi al grandioso compito della creazione di una memoria proletaria.
Si tratta però di dare a costoro briglia sciolta, reclamizzandone gli studi, i fondamenti del loro pensiero, i gusti e financo lo stile di vita. Esteti, specialisti del sacro, apologeti dei secoli bui, nostalgici degli umori di stabbio, metafisici, edonisti del pensiero, sono gli esperti che fanno al caso nostro. Una lusinga ben calibrata li toglierà dall’isolamento in cui ora languono, rimettendoli in azione.
Accetteranno allora di volgarizzare le proprie dottrine e di vendere il calco della propria squisita interiorità.
Lenin cercò di trattenere in Russia ingegneri e tecnici con buoni stipendi. Noi dovremo a qualunque costo, trattenere vicino a noi gli specialisti della qualità della vita. Se il ricordo della qualità si perde irreparabilmente, nessuno potrà poi ricostituirlo. Ed un popolo senza memoria, un popolo cui le rimembranze del passato non servono da auspici per l’edificazione del futuro, non è governabile a lungo. Lo coglie infatti un’indolente attitudine per ogni valore, un disprezzo sdegnoso per le gioie possibili, il gusto dell’effimero e dell’irripetibile, la rinuncia a dominare il proprio destino futuro, la perdita della fretta realizzativa e della convinzione che « time is money ».
Da ultimo, una terza credenza andrà innestata nel corpo sociale: quella secondo cui la natura ricostruita è, in sè, terapeutica.
Lo sviluppo industriale ed i modi di vita che esso comporta, contrabbandati un tempo come benèfici per l’uomo, si sono ormai rivelati mortiferi per la salute della specie; onde un incremento di malattie, l’acuirsi di un malessere sordo e diffuso cui più nessuno sfugge. E le terapie che il capitale offre agli invalidi da se medesimo creati perdono credibilità perché frutto di un circolo vizioso ormai messo a nudo: la creazione del surplus esige mutilati e, da questi ultimi, si ottiene un surplus ulteriore vendendo loro terapia.
E’ urgente perciò affrontare la questione alla radice proponendo una soluzione terapeutica atta ad adeguare i più ad una condizione patologicamente sopportabile. E la sopportazione al dolore la potremo certo conseguire sol che i più accettino l’idea che la malattia è il prodotto di una società sbagliata, di un industrialismo esasperato, che il dolore, insomma, ha una genesi sociale. E’ questo, peraltro, un luogo comune ormai accettato da molti; non ci sarà difficile allora suggerire come rimedio la semplice rimozione di quelle condizioni che costringono l’uomo a vivere in modo innaturale.
Presentando la natura come terapeuta universale possiamo ottenere due considerevoli risultati. Da un lato convinciamo il popolo che i fattori maligni sono a lui esterni e gli infondiamo quindi la attiva speranza di guarire combattendo quanto gli procura il male; non c’è infatti malato più irrecuperabile di chi dispera di guarire: egli diviene un appestato, un pericoloso nihilista disposto a vivere alla giornata. D’altro canto facciamo credere che la malattia sia altrove: non già nella specie urnana geneticamente data per sana, bensì in certi degeneri apparati produttivi messi in piedi da forze oscure, invero esistenti in quanto componenti organiche del capitale, ma il cui peso è ormai senza comune misura con quell’altra componente che è costituita dal popolo lavoratore.
L’organismo del capitale è malato, ma si tratta di far credere che il male si irradia esclusivamente da alcuni punti focali amputando i quali le cellule sane possono sopravvivere, identiche al proprio archetipo originario. E’ questo il senso del nostro continuo richiamo alle « forze sane del paese »; guai se si diffondesse la credenza che gli operai d’Italia non sono altro che una truppa di infermi, inetta ed impotente. I lavoratori devono essere sani per definizione ed il morbo situarsi altrove.
Ed il solo terapeuta credibile di questo organismo sociale ormai comatoso e, per l’appunto, la natura rigenerata. Se trascuriamo di intervenire su questo piano prevarrà allora la convinzione che tutta la società è condannata a morte e che l’atroce agonia è procrastinata dalle cellule ancora in vita: il popolo lavoratore ed i suoi paladini. I topi abbandoneranno allora il battello in avaria ed esso, dopo una breve deriva, si inabisserà.
Divulgando le idee che vi ho testé esposto e facendole radicare nelle grandi masse popolari la distanza fra la propaganda e la prassi politica risulterà sensibilmente ridotta.
L’ideologia cesserà allora di apparire un bagaglio concettuale avulso dalle reali esigenze del popolo e si materializzerà invece nella natura ad arte ricostruita, troverà in essa il suo spessore specifico, come oggi si usa dire. In quel giorno glorioso, per la prima volta, saranno le idee a fare muovere il mondo, impregandolo.
Il tempo del livellamento grossolano è ormai conchiuso; ora noi comunisti diventeremo i profeti dell’autentico, della qualità, del genuino. Ma le forze del nostro partito sono, da sole, insufficienti. Occorre la collaborazione di quei soggetti che hanno conservato la fiammella della qualità, coltivando indefessamente il proprio io attendendo con amore alla propria individualità, rifiutando di mettere il proprio cervello ed i propri sensi all’ammasso. Si tratta di intellettuali per lo più, ma di intellettuali di qualità; essi devono uscire dall’isolata acredine in cui ora stanno, in cui la volgarità della politica li ha da tempo confinati, per assumere finalmente una funzione di guida nella società.
Del resto, miei indiani amabilissimi, un ricambio nella direzione della società è ormai inevitabile. Noi politici tradizionali, anche quando abbiamo sempre conservato le mani nette, siamo irrimediabilmente fuori gioco; gli specialisti della qualità sono i soli legittimi candidati ad un potere che a noi sfugge di mano a vista d’occhio. Ebbene, trasmettiamo loro questo potere, gradualmente ma senza rimpianti; l’interesse della collettività ed il nostro lo esige.
(8) Questa lettera era stata concepita dall’autore per destinarla al gruppo informale di recente costituzione detto « indiani metropolitani », particolarmente sensibile al risanamento ecologico. Lo scritto rimase però nel cassetto di Berlinguer non avendo tale gruppo, a tutt’oggi, dato vita ad alcuna organizzazione stabile e non essendo emerso dal suo seno alcun leader di rilievo. Rimase quindi una lettera senza destinatario. L’autore ha perciò colto l’occasione offertagli dalla presente pubblicazione per far conoscere il proprio pensiero ai giovani suddetti, nella speranza di aprire un fertile dialogo con gli stessi.