Tratto da: Nuovo Politecnico 99 Einaudi 1977 – 26 febbraio 1977
Lettera VI
Dove si vede la figura del drogato messa finalmente alla berlina.
Vorrei parlarti, caro Valcarenghi (6),
bonariamente e schiettamente della questione della droga. Ti conosco, solo indirettamente, nelle vesti di scrittore e uomo pubblico, e tanto mi basta. Perciò metto per un attimo in disparte il tono serio e rigoroso che la gravità del caso imporrebbe, riservandolo ad altre sedi ed altri interlocutori, e mi lascio invece andare a quell’argomentare semplice, ma non dissennato, che i padri spesso usano con i figli quando li vedono vittime di gravi, ma incolpevoli forme di confusione mentale. Non volermene quindi.
Né tu, né io, del resto, conosciamo la tossicomania nei suoi termini scientifici; altri, meglio di noi, hanno studiato questa dolorosa piaga nei suoi risvolti medici, politici e di costume.
Noi non possiamo che parlare, come si usa dire, per il fatto solo di avere la lingua in bocca, senza conoscenza di causa e guidati soltanto dal nostro buon senso. Di un suo uso troppo modesto, e non già di scarsa conoscenza scientifica della materia, mi sembra doveroso rampognarti. Uomini di cultura anche seri possono permettersi il lusso di prendere qualche cantonata; l’errore in cui incappano non potrà che danneggiare loro stessi.
Tu invece, in considerazione del ruolo che rivesti e dell’influenza che hai esercitato e potrai ancora esercitare sul cosiddetto proletariato giovanile, devi essere guidato da un senso di responsabilità ben più alto. Evita quindi di pronunciarti a vanvera dall’alto di una cattedra che appare tale soltanto perché fondata su una pluriennale disamina dell’argomento. Hai parlato tanto di droga, e da tanto tempo ormai, ma ciò non ti autorizza ancora, caro amico, ad erigerti ad esperto.
Quanto a me ti confesso di non capire un’acca della questione, almeno nei suoi termini medici e scientifici. Ignoro, per darti qualche esempio, la differenza che intercorre fra la droga leggera e quella pesante, non intendo cosa si voglia indicare con la parola « assuefazione », non ho chiare le reali possibilità di disintossicazione, nè conosco le terapie in uso. In questa ignoranza tuttavia ci sto bene; non già per gusto oscurantistico, ma perché reputo che l’affrontamento di tale ordine di problemi sia piuttosto sviante ed allontani da un realistico e doveroso ridimensionamento della questione.
Ora io credo – ciò che peraltro non molti osano confessare – che il tossico sia ormai entrato a fare parte della vita moderna ed abbia acquistato un solido diritto di cittadinanza di cui nessuno sforzo filantropico potrà più privarlo, alla stessa stregua dell’energia elettrica, della cultura, della televisione.
Che ciò sia un bene o un male non saprei dire: lasciamo alla propaganda ed ai moralisti tali sterili questioni. A noi realisti tocca invece esaminare il problema che il dilagare della droga ci prospetta, muovendo dal dato di partenza che essa esiste, si osa con larghezza, e che nessuna forza riuscirà a cancellarne l’esistenza. E ciò senza pretendere nè di sconfiggerla, nè di apologizzarla.
Queste preliminari considerazioni ci permetteranno poi di agire sì da impedire che la diffusione degli stupefacenti nuoccia allo sviluppo delle forze produttive; ma con questo – sia ben chiaro – non intendo affatto dolermi della sottrazione di braccia alla produzione cui la tossicosi dà luogo; ciò avviene senz’altro, ma il fatto sarebbe deprecabile soltanto da chi avesse in mente il pieno impiego, obiettivo che che gli economisti più qualificati da tempo reputano secondario se non dannoso, e noi con loro.
Non è quindi una gran perdita se una certa percentuale della popolazione, anche più elevata di quella attuale, diserta la produzione per darsi ai paradisi artificiali, perché a ben vedere tale diserzione non ha in realtà luogo. Si avvera invece, molto più semplicemente, un trasferimento di manodopera ad un settore produttivo sui generis, ma di rilevantissima utilità sociale: la produzione di spettacolo.
Ora, balza evidente a chi abbia qualche consuetudine coi tossicomani, ma del pari a chi li conosca soltanto attraverso i reportages giornalistici, che lo spettacolo che i drogati offrono di sé non è certo quello che si è soliti definire « un bello spettacolo »: degradazione morale, perdita delle proprie facoltà, monoideismo, etc., sono i graziosi orpelli di cui ogni drogato si adorna. In che senso è allora possibile affermare che la tossicosi è il vero circus della società moderna, il punto supremo di quella passività del popolo che soltanto la religione in passato ha saputo garantire e, più recentemente, alcuni conflitti a forte colorazione ideologica?
La tossicosi, caro amico, offre uno spettacolo violento; essa ha i suoi morti, i suoi invalidi, i suoi carcerieri, i suoi giudici, ed il popolino, come è noto, ha bisogno, per appassionarsi, di pathos appunto. In più – ed è questa la vera modernità dello spettacolo della droga, che la equipara, per grandezza, al rito religioso – la rappresentazione scenica del drogato coinvolge non soltanto l’ingenuo osservatore, ma del pari il consumato guitto, il drogato appunto, che si offre agli sguardi di un pubblico morboso.
La platea è gremita, gli spettatori impazienti, l’attore, come tutti i grandi istrioni, si fa attendere; il suo ritardo, a differenza di quello del teatrante tradizionale – mero vezzo – non è un indugio calcolato; egli ha realmente perso l’orologio e deve aspettare che sia il tossico, con le sue scadenze, a dargli il là.
Giunge alfine la carenza e la rappresentazione può avere luogo. Il canovaccio è sempre lo stesso: il protagonista si aggira nei bassifondi di una città qualsiasi, entra in contatto con elementi poco raccomandabili, subisce qualche umiliazione ed opera qualche bravata, finché ha luogo il do ut des di rito con una ripugnante controparte, lo spacciatore.
A questo punto il pubblico, piuttosto indolente, si anima; sa che lo spettacolo è giunto al suo acme. Di norma in un luogo sordido il protagonista, in preda a sussulti e visibilmente affannato, introduce nel proprio essere la sostanza tossica.
A differenza del prologo, sempre lo stesso, l’epilogo è più movimentato e può dare luogo a differenti colpi di scena: per lo più schizzi di sangue, conati di vomito ed un’estasi beota; ma nei casi più fortunati si può assistere addirittura ad un collasso cardiocircolatorio con o senza morto o, gustosa rarità, all’arrivo della polizia appena un attimo prima dell’immissione del tossico nel corpo, con relative indicibili convulsioni e scalmane del drogato.
L’epilogo è variabile ma ben delineato, come vedi. Tuttavia l’opera è condotta secondo i più moderni canoni artistici, una vera « opera aperta », poiché il pubblico, lungi dall’essere appagato, potrà continuare da solo nella problematizzazione e chiedersi all’infinito: riuscirà il tossicomane a salvarsi? Ai palati che preferiscono il genere leggero, la commediola di costume o l’avanspettacolo è possibilissimo offrire uno spettacolo più gaio. E’ sufficiente cambiare l’ingrediente: droga leggera al posto della pesante.
Fin qui non si esce dai normali canoni dello spettacolo: l’attore agisce e gli spettatori osservano. Ma c’è dell’altro.
Lo spettacolo della droga infatti, al pari di quello religioso, permette all’attore di contemplarsi appassionatamente, di bearsi nell’ammirazione di un « sè » impersonale, che funge da mero ricettacolo per la penetrazione della sostanza che lo fa vivere, il tossico appunto. Come nell’alienazione religiosa il corpo e strumento per l’irradiarsi della divinità, e dalla percezione di ciò nasce appunto l’esperienza estatica, così il tossicomane guarda il suo corpo come terreno di coltura per fare prosperare la substantia senza la quale, per dirla con Seneca, non gli è possibile esistere. La vena (o la narice, o l’epitelio, o l’apparato respiratorio o nervoso) assurgono allora alla funzione di altare dove si celebra, come in ogni altare sacrificale, il rito della consunzione di tutte le cose terrene. Ed il tossicomane – pesante o leggero, occasionale o abituale – si avvia al patibolo a cuor leggero, convinto com’è di salire invece su un altare. Che si tratti poi di altare ovvero di patibolo non ha, a ben vedere, rilievo alcuno. L’immolazione avrà luogo comunque e non tocca alla vittima, bensì al vittimario, deciderne il momento. Non possiamo dimenticare le parole di quel grande nemico del progresso che fu De Maistre le quali, in quest’occasione fanno al caso nostro:
« L’échafaud est un autel; il ne peut donc ètre placè ni déplacé que par l’autoritè; et ses retards, respectables jusque dans leur excès, et qui de mème ne manquent pas d’aveugles dètracteurs, ne sont pas moins une preuve de notre supériorité »
La similitudine che ho voluto instaurare fra la tossicosi e la religione va oltre. Quest’ultima, come forse non ignori, postula l’esistenza di un ceto, meglio una casta, che raccolga e concentri in sé le qualità somme: trattasi dei sacerdoti, quale che sia la denominazione che assumono. Ma anche le qualità infime, per converso, devono incarnarsi in un ceto particolare, il ceto universalmente più disprezzato e compatito; i drogati appunto. Tocca a costoro incarnare l’insensibilità, la venalità, la viltà, il tradimento, l’idiozia e via discorrendo. Anch’essi, sacerdoti alla rovescia, esercitano una funzione insostituibile per l’ordine civile.
E poi, siamo franchi, la sorte del tossicomane è davvero così lamentevole? Senz’altro, ma non priva però di risvolti positivi.
Egli, per dirla con le parole di quel tal Burroughs, pessimo letterato, ma notevole intenditore in fatto di droghe, « is immune to boredom. He can look at his shoe for hours or simply stay in bed. He needs no sexual outlet, no social contacts, no work, no diversion, no exercise… ». Un bel vantaggio, come vedi, rispetto all’uomo comune dei nostri giorni, sempre alle prese con la noia e sempre insoddisfatto del proprio operato compiuto o mancato.
E se poi nel tossicomane si fa strada qualche barlume di lucidità, con conseguente penosa sensazione di impotenza, di inettitudine, di ignavia, gli è sempre possibile scaricare il barile delle proprie défaillances su un elemento a sè esterno: la droga come piaga di una società che non ha saputo comprenderlo. Può allora aspettare fiduciosamente che la società (a suo modo di vedere, la vera colpevole) si rigeneri ,si modelli ad uso e consumo delle sue miserie. Ed anche questa bella illusione non è consentita al comune cittadino.
Un’ultima peculiarietà voglio ancora notare e ti prego di prestarvi la massima attenzione perchè il suo peso è determinante nell’indurci a considerare la figura del drogato come insostituibile nella nostra società. Egli infatti è immune, per così dire vaccinato, da ogni vessazione. Angherie, soprusi, torti lo lasciano indifferente; è disposto a sopportare tutto, la droga gli ha indotto un’assoluta incapacità di odiare. È pur vero che lo si vede spesso sbraitare, minacciare fanfaronate, scendere talora a vie di fatto. Ma il suo atteggiarsi resta nell’ambito della gazzarra da osteria, senza conseguenze gravi per l’ordine sociale. Partecipando al ceto vessato per antonomasia, perde la percezione del torto complessivo che subisce e disperde le sue reazioni in una miriade di insignificanti cagnare da strada. Diffidente nei confronti della polizia e dell’ordine dei farmacisti – suoi molestatori al dettaglio – guarda con benevolenza a giudici, medici, psicologi, preti, purché democratici ed intenzionati al suo recupero. Ultimo degli illusi, crede di potere guarire, di riuscire a disintossicarsi e si aggrappa allora a chiunque gli prometta la terapia « giusta ». Tutti gli celano che la disintossicazione, lungi dall’essere la convalescenza verso la guarigione, è invece semplicemente un momento di riposo dell’organismo, una fase del ciclo complessivo della malattia, al pari di certi morbi, quali le febbri malariche, dove la scomparsa dello stato febbrile preannuncia l’insorgere di una fase più acuta e non invece, come si potrebbe credere, l’avvento prossimo della sanità.
Le cose, caro Valcarenghi, devono restare così come sono, anche se va data al popolo l’impressione che qualcosa si sta facendo per debellare il flagello; i cittadini, intossicati o non, devono potere credere che altri stanno pensando ed agendo in loro vece. Si modifichino le leggi quindi, si scateni qualche campagna stampa, si istituisca qualche centro di recupero e si dia l’impressione che i loro insuccessi vadano ascritti ad insufficienza di mezzi: la tossicomania non subirà allora flessione alcuna.
Ma è poi veramente importante occuparsi dei tossicomani?
Direi di no; quel che conta è dare l’impressione che la loro sorte stia a cuore alla comunità o meglio a chi di dovere. Del resto, volgendo uno sguardo al passato senza uscire dal nostro paese, ci si è mai occupati dei tarantolati in termini di utilità sociale? Non mi pare. E, bene o male, la nostra società preindustriale tirava avanti con e malgrado i tarantolati, i quali non hanno mai preteso di costituire uno specifico problema.
Lasciamoli in pace, questi drogati, e che loro lascino in pace lo Stato! Sarebbe la migliore cosa, ma non possiamo farne mostra. Ci tocca invece ostentare un grande attivismo, costituire centri di recupero, promuovere innovazioni legislative, etc., pur sapendo in cuor nostro che a nulla serviranno.
Del resto, è forse colpa dei pubblici poteri se la scienza non ha ancora escogitato un’idonea terapia per rimuovere l’induzione alla droga? No davvero! Una terapia, se così posso definirla, invero ci sarebbe, ma il praticarla comporterebbe un tale rivolgimento sociale che mi riesce difficile addirittura immaginare. Si tratterebbe di creare le condizioni affinché ogni drogato – che, non dimentichiamolo, è pur sempre un uomo con i suoi vizietti e le sue passioncelle, benché sopiti in un grigio monoideismo – potesse dare la stura alle proprie inclinazioni, anche alle più riposte. Il crapulone dovrebbe allora poter vivere perennemente in una suntuosa dispensa, il naturalista in una spiaggia incontaminata, lo sporcaccione nelle quinte di un avanspettacolo, e così via. Se poi qualche individuo cumulasse in sé svariate inclinazioni, ebbene dovrebbe avere la possibilitià di volteggiare dall’una all’altra senza interruzione. Qualche cosa del genere ha descritto l’utopista Fourier, fantasticando circa una società organizzata in cosiddetti falansteri.
Questa sarebbe l’unica via di recupero del tossicomane, l’induzione al consumo dei tossici sarebbe eliminata per sempre. Ma, come vedi sono entrato nel regno dell’immaginazione. Poiché invece dobbiamo accettare questa società così come è, almeno nelle sue strutture fondamentali, e considerato che la desideriamo anche così come è, non possiamo pensare di cancellare la figura del drogato finché non sarà possibile rimpiazzarlo con qualche altro oggetto vivente da contemplare.
Abbilo sempre presente, mio caro amico.
(6) Andrea Valcarenghi, vedette della rivista Re Nudo e del gruppo omonimo ora un pò in declino è l’ideologo della diffusione della droga leggera nello spettacolo culturale italiano. Ha tentato la via dell’imprenditoria nel campo dei festival giovanili ma ne è stato dissuaso.