Tratto da: Nuovo Politecnico 99 Einaudi 1977 – 26 febbraio 1977
Lettera II
Nella quale lo scrivente si chiede se le passioni siano compatibili con la pianificazione dello sviluppo, dà risposta negativa ed invita gli operatori culturali a rappresentare la vita in ogni sua manifestazione.
Caro Goffredo, (2)
sottopongo a te, operatore culturale specialmente attento ai problemi della lotta di classe, le mie riflessioni circa la funzione odierna della cultura affinché tu possa operare in conseguenza; riflessioni tanto più urgenti in quanto ampi strati della popolazione sono del tutto impermeabili alla fascinazione delle rappresentazioni spettacolari e ben intenzionati a non tenerle in alcun conto. Non sto a ricordarti in dettaglio gli enormi rischi che porterebbe con sé il dilagare di un simile atteggiamento oscurantistico; mi limito ad indicare i due principali: la scomparsa del ruolo dell’operatore culturale e la sovversione della società tutta. Su quest’ultimo punto tu – rivoluzionario – potrai forse consentire, ma non dimenticare che il suo inverarsi comporta di necessità anche la scomparsa di persone come te. Ma procediamo con ordine. La lapidaria formulazione marxiana secondo cui la lotta di classe è il motore della storia umana non va intesa riduttivamente. La lotta di classe non è infatti un confronto militare fra i partiti antagonisti (e in questo caso impiego la parola « partito » nella sua accezione storica, come mi sembra chiaro) da cui meccanicamente, a tavolino, sia possibile determinare chi risulterà vincitore e chi vinto, ma è invece un coacervo di tensioni sociali in cui gli uomini – variabile imprevedibile – intervengono non già come massa numerica, ma come portatori delle passioni che li fanno agire. La lotta di classe, quale essa appare, è quindi il risultato finalmente manifesto delle passioni umane. Proprio questo è il nocciolo della questione su cui da tempo vado meditando. Mi sono chiesto e mi chiedo in quale modo la bramosia degli uomini possa essere integrata nello sviluppo programmato della società. Ciò non mi preoccupa tanto in relazione ai nostri giovani militanti, per i quali anzi il momento dell’ingresso nelle nostre organizzazioni giovanili coincide di norma con una assoluta abdicazione sul fronte della realizzazione delle passioni. Si direbbe quasi che i giovani si accostino al PCI solo quando la società civile ha già provveduto ad estirpare in loro qualsiasi germe passionale, a frustrarli, ad inculcare loro un senso di impotenza ed inutilità. L’ingresso nel partito ricorda per qualche verso il « vestir la tonaca » di quanti in passato decidevano, per disillusione, di abbandonare le cose del mondo. Mi par chiaro che, quanto più questo processo di frustrazione prospera, tanto più le nostre file risulteranno accresciute; ed è altrettanto chiaro che la società civile, incapace com’è di dar sfogo alle irrequietudini, viene ad essere un nostro validissimo alleato. Nessun problema quindi dall’interno del nostro partito. Le mie apprensioni si proiettano invece nel futuro, nel momento in cui il nostro partito potrà esercitare un’egemonia, sia pure relativa, sul paese tutto, quando cioè diventeremo, soli o in collaborazione con altre forze politiche, partito di governo. E’ nostro compito affrontare fin d’ora i problemi che ci toccherà risolvere, non solo per dotarci in anticipo degli strumenti materiali ed intellettuali che ci permetteranno di far fronte alla situazione, ma specialmente perché già oggi possiamo premere sulle forze politiche che direttamente governano sì da ricevere in consegna una situazione non del tutto pregiudicata, ma in qualche modo controllabile. Come risolvere, in quel futuro frangente, la questione delle passioni latenti dei cittadini? In che misura ostacolarle ed in quale favorirle? Che possibilità di sfogo offrire loro? Non è nostro compito – via Goffredo, non siamo filosofi! – preoccuparci di distinguere i dèmoni buoni da quelli malvagi, benché una riduzione del problema entro categorie morali possa spesso essere utile al livello proprio della propaganda. Dovremo invece discriminare fra quelle voglie che favoriscono i meccanismi di produzione del valore, o comunque vi si adeguano, e quelle che invece sono loro refrattarie, irrimediabilmente ostili. Dovremo quindi favorire le prime (ma guai a permettere che siano prese alla lettera!) ed ostacolare con ogni mezzo le seconde. Ma, ciò premesso, mi pare necessaria un’ulteriore scomposizione del problema che abbia a mente il grado di pericolosità delle passioni per la fondazione dell’ordine socialista; ci toccherà certo fronteggiare – ciò è assodato storicamente se osserviamo i paesi nei quali il socialismo è già stato edificato – le frenesie ereditate dal passato prossimo, dalla società borghese, ma la nostra precipua attenzione andrà però rivolta a quei trasporti passionali che nulla hanno a che fare col sistema morale della borghesia, a quelle passioni per così dire nuove che, se qualche reminiscenza evocano, si collegano ad età antichissime (gli antropologi le chiamano « comunismo primitivo ») non certo raggiungibili dalla memoria individuale, ma da quella, storica, della specie. Ti esporrò distintamente la mia opinione sul come affrontare questi due atteggiamenti. Quanto alle passioni ereditate dalla borghesia la nostra opera dovrà essere nel contempo di prevenzione e repressione. Si tratta per lo più di inclinazioni, vizi diciamo pure, riconducibili tutti all’unica matrice dell’atteggiamento consumistico. In via di prevenzione si tratterà di promuovere un relativo livellamento dei consumi, togliendo dalla circolazione quelle merci che più direttamente richiamano alla mente uno stato sociale simbolico in virtù della loro rarità, riducendo la circolazione di sostanze dannose per l’organismo umano, facendo un uso meno sguaiato e provocatorio dei messaggi pubblicitari e propagandistici che speculano sulla riduzione a merce dell’uomo e della donna in particolare. Sempre nell’ambito della prevenzione sarà talora più proficuo ricorrere alla via diametralmente opposta: diffondere e popolarizzare certi consumi invece di renderli clandestini ed illegali. Mi è facile ricordare l’esempio della pornografia. Devo ammettere che in questo settore particolare le socialdemocrazie nordeuropee sono state assai lungimiranti. Diffondendo, come fanno, la pornografia a livello di masse popolari ottengono il notevole risultato di banalizzare la particolare esigenza che rendeva desiderabile l’immagine oscena e, insieme, di prevenire i rischi di quell’insurrezione erotica preconizzata da certi autori. La pornografia debitamente popolarizzata, per quanto essa mi sia personalmente detestabile, ha tuttavia l’indiscutibile pregio di far capire ai suoi fruitori che la licenza, quando resta confinata entro l’ambito sessuale, non necessita di particolari sovvertimenti della propria vita; si può ben amare la débauche sessuale e continuare ad occupare disciplinatamente il proprio ruolo sociale, la propria funzione produttiva. Ben vengano quindi le narrazioni, con parole ed immagini, di casalinghe, studenti, impiegati, operai e capelloni licenziosi, purché sia sempre chiaro che tali pratiche possono avere luogo tranquillamente, in sordina, senza scossoni per la società! La pornografia è stata liberalizzata anche in Italia senza necessità di una nostra iniziativa particolare: a noi è bastato e basterà osservare la mercificazione che il capitale sta operando anche in questo settore. Il rischio che qualche testa calda pigli le suggestioni della pornografia troppo alla lettera, valicando così quei limiti di comportamento che essa permette, va tenuto presente; ciò cagionerà qualche delitto e qualche violenza di matrice sessuale. In casi del genere sarà certamente consigliabile una severa attitudine repressiva, più a scopo esemplare che punitivo. Quando entrano in gioco delitti contro la persona, quale che ne sia il movente, la sanzione va sì rivolta contro il reo, ma l’apparato propagandistico che l’accompagna va tutto commisurato in relazione all’effetto che si vuole conseguire nell’opinione pubblica. Prevenzione e repressione diventano allora i due aspetti complementari di un’unico concetto informatore: il controllo della popolazione. Non mi dilungo oltre, caro Goffredo, circa i problemi che ci procureranno i vizi borghesi. Un pò di buon senso sarà sufficente a renderli innocui. Non dimentichiamo mai che nella nostra epoca la mediocrità della passione è pervenuta al suo acme, riducendosi a desiderio di consumo. Il ricco odierno non è altro che colui che possiede oggetti poveri in soprannumero. La sua è una passione per la quantità, per il numero, per l’accumulo. Una sorte non invidiabile già di per sè. Una prudente attività di livellamento completerà l’opera. Ben più angoscioso, specialmente per chi abbia a cuore la altrui vita associata, si presenta l’affrontamento di inquietudini prive di comune misura con il nostro tempo ed il cui soddisfacimento non può darsi, nè mai lo potrà, nell’ambito dell’economia politica e delle sue leggi. Si tratta di impulsi che è difficile definire con una parola giacché il linguaggio del capitale ignora tutto ciò che gli è estraneo e tende a negarlo; si manifestano come inclinazioni soggettive che per qualche verso richiamano alla mente passioni sepolte in un passato lontano e che è possibile designare soltanto ricorrendo al linguaggio figurato. Si tratta di stati d’animo e di corpo ignoti all’epoca ma che germinano, per così dire, come prodotto della decomposizione del nostro tempo. Taluni, isolati o in concorso, clandestinamente od ostentatamente, credono talora di poter dare realtà a siffatte esaltazioni e vi si abbandonano allora a corpo morto. Ciò è avvenuto in passato ed avverrà ancora. La passionalità esasperata di questi individui li induce a porre in essere condotte impossibili, nel senso che è l’epoca a considerarle e a renderle impossibili. La storia è piena di famosi scellerati ed anonimi derelitti che imboccano la via dell’avventura senza speranza. In politica li definiamo « avventuristi » per significare che la loro condotta è incompatibile con le possibilità che i tempi offrono. Oggi più di un tempo il perfezionamento del controllo sulla società scoraggia chi intende avventurarsi sul terreno dell’ignoto, votandolo in anticipo all’olocausto; ma questo stesso controllo, riducendo a zero lo spazio dell’operare umano, crea condizioni soggettive di disperazione che non anticipano nulla di buono. Come prevenire il pericolo? Forse celando agli occhi dei più l’operare nefasto di sparuti drappelli nella speranza di evitare il contagio? No di certo, chè un’attività censoria su scala sociale, oltre che dispendiosissima, ci esporrebbe ad ogni sorta di critiche, se avvertita dalla popolazione. Forse reprimendo esemplarmente gli autori delle condotte estranee all’epoca? Nemmeno, perché così facendo il contagio emulativo dilagherebbe senz’altro. L’unica via praticabile per far fronte all’insorgere di tali irrefrenabili smanie sta nel rappresentarle, farle vedere, costringere a guardarle, inculcando così la convinzione che tutto è possibile non nella realtà vissuta, ma nella vita rappresentata. Sterile sarebbe indagare sull’origine e sui tempi della separazione fra lògos e òntos e ciò ci distoglierebbe dai nostri compiti immediati. A noi basta considerare che tale separazione esiste e che ogni ricongiungimento fra i due termini è impossibile. Perché ostinarsi ancora a voler credere che la realtà ed il significato debbano di necessità incontrarsi? Perché persistere nel considerare l’abolizione della separazione come il fine verso cui la storia debba ineluttabilmente tendere? Perché presupporre che il ricongiungimento sia il vecchio sogno dell’uomo? Nessun sintomo rende legittima un’aspettativa del genere. Il popolo stesso ha finora sconfessato quest’ arbitraria ipotesi: ne fa fede la sua istintiva repulsione per la rivoluzione. Ed in effetti il popolo lavoratore ha capito molto più acutamente di tanti suoi paladini che la rivoluzione contemporanea non potrebbe più limitarsi, come in passato, a lanciare l’assalto alle cose, alla reggia, agli strumenti di produzione e ad altre simili inezie. La rivoluzione contemporanea metterebbe immediatamente in gioco l’individualità, la specificità di ognuno; comporterebbe la perdita del proprio contorno rispetto tutto, la rinuncia al proprio unicum, il ritorno nell’utero generale (se mi consenti l’uso di una poco piacevole categoria psicoanalitica), nel regno dell’indifferenziato, in un confuso magma materiale in cui l’espressione e l’essere sono indistinti, in un letargo senza tempo, in un tempo senza storia, insomma. Uno scenario poco piacevole, come vedi, eccezion fatta per qualche degenerato oscurantista. Ecco perché nessuno vuole la rivoluzione oggi! Ed ecco perché oggi, invece, tutti issano la bandiera della differenza, dello specifico, della devianza, del soggetto! Assecondiamo allora questa naturale inclinazione popolare ed accentuiamo sempre di più la separazione fra i lògos e l’òntos per giungere alfine al giorno in cui la rappresentazione, affermatasi ecumenicamente, appaia l’unica realtà visibile. Questa è la vera passione del potere, il suo scopo ossessivo: fare della rappresentazione l’unica realtà entro cui vivere. Perdonami, caro Goffredo, la digressione filosofica e consentimi ora di tornare sul terreno che più mi si addice, quello dell’azione politica. Chiediamoci quindi di quali strumenti la società odierna dispone per rappresentarsi: soltanto i mass media e la cultura, purtroppo. Poca cosa, in fondo. Per questo dobbiamo utilizzarli per il meglio. Ora, la gestione dei primi sfugge ancora, per buona parte, al controllo delle sinistre, mentre la gestione della cultura ci è demandata quasi per intero. Questa divisione del lavoro di controllo sociale è del resto perfettamente razionale e vantaggiosa per tutti. I mass media operano una prima sgrossatura degli elementi passionali che germinano dalla vita associata, praticando una sommaria sterilizzazione; soltanto quando l’opera dei mass media si rivela inefficace per contenere la passione degli esagitati, allora essa va neutralizzata mercé la cultura. Il mass media è la manovalanza della rappresentazione, la cultura ne è il suo artigianato di lusso. Nella bocca del mass media l’evento di un uomo che ne uccide un altro per una ragione qualsivoglia viene descritto come « crimine efferato », il carcerato che si leva contro le condizioni complessive della sua esistenza è inglobato nel concetto di « giusta lotta per la riforma del codice », il conato di chi cerca di spezzare, con la comunicazione, la gabbia entro cui lo rinchiude il lessico dell’economia politica viene definito « Farneticazione ». Il messaggio dei mass media appare sì comunicazione, ma è in realtà predefinizione di tutto il possibile vissuto, il quale potrà allora dispiegarsi solo nell’ambito dei limiti posti dalla definizione stessa. « Omnis determinatio est negatio » ricordava il mio professore di filosofia, idealista, citando Spinoza; e definire non significa forse dare dei limiti, cioè nettare tutto ciò che non rientra nella definizione? Potrà il popolo rivoltarsi contro le rappresentazioni della vita vissuta che i mass media gli offrono, potrà, in altri termini, rompere la gabbia delle definizioni che gli vengono precostituite? Non lo credo e, quand’anche ciò avvenisse, si troverebbe di fronte un secondo ostacolo, quello della cultura. Il mass media nella sua grossolanità non può altro che lanciare anatemi contro le passioni della vita, può solo cercare di escluderle dalla comunità; ma non sempre l’operazione riesce. Tocca allora alla cultura recuperare alla società civile quelle inclinazioni che potrebbero minarne le fondamente, smussarle, rappresentarle come problema culturale allo scopo di annientarle come vita materialmente costruita. Fare apparire ogni manifestazione di vita come prodotto letterario, artistico, poetico, di indagine sociologica e politica, ecco il compito della cultura, ecco la sua funzione nell’ambito di un ordinato sviluppo sociale! La forza della nostra epoca sta nel fatto che tutti i casi della vita vengono discussi culturalmente, creando alterchi a non finire e mille vani pretesti per continuare a parlare. Non ha rilievo, poi, in che chiave la vita viene rappresentata, purché venga rappresentata come fatto culturale. Ed allora le vicende di uomini che hanno tentato di materializzare le proprie passioni appariranno volta a volta come licenze artistiche, come exploits poetici, come collettive insoddisfazioni di ordine sociologico. Il nostro sforzo nell’ambito della cultura deve essere immenso. Quale la posta? L’illanguidimento di ogni germe passionale compresa, beninteso, quella passione particolare detta languore. II tempo degli anatemi e delle censure è ormai passato. Noi siamo ora per la libertà di cultura in tutti i suoi campi. Come non avere ancora capito che tutto ciò che la cultura tocca, come una moderna pietra filosofale, si trasforma in noia ed in insignificanza? Naturalmente, benché il mezzo di cui precipuamente si avvale la cultura sia la problematizzazione fine a sé stessa, ciò non esclude che essa possa talora fare ricorso alla predefinizione nel senso cui accennavo a proposito dei mass media. Un idoneo lessico è già stato sperimentato con successo; pensa, caro compagno, all’efficacia denigratoria e scoraggiante di parole come « piccolo borghese, volontarista, velleitario, vitalista, decadente, soggettivista, etc. ». Non mi dilungo perché questo vocabolario lo conosci fin troppo bene. Ma non bisogna fermarsi qui. Bisogna procedere nell’opera di definizione e classificazione culturale, sì che ogni condotta passionale, attuale o potenziale, abbia infine la sua rappresentazione concettuale. Solo allora il pericolo sarà scongiurato, solo allora la pianificazione dello sviluppo non avrà più nulla da temere dalla « variabile » uomo, solo allora il valore sarà definitivamente autonomo dalla passione umana. Come pervenire a questo stato di cose? Cercando di accrescere il campo operativo della cultura: dovremo allora offrire una scuola di massa vivace e credibile in modo da rendere gli allievi assolutamente innocui, trasformare le librerie in supermercati, dare impulso ai circoli culturali, ai centri di ricerca, all’editoria, favorire le culture cosiddette alternative, rivoluzionarie, d’avanguardia, i revivals popolareschi e quindi lo scontro culturale fra opposte fazioni, si da scongiurare, naturalmente, quello reale. Nè mi si venga a dire che la popolazione, e specialmente i suoi strati subalterni, resterebbe comunque impermeabile alla propagazione culturale giacché l’inedia passionale dell’epoca è tale che chiunque è ben disposto, scegliendo il minor male, a preferire il simulacro della passione all’inanità dell’esistenza; ma il simulacro è l’immagine della cosa, non la cosa stessa e quel che a noi preme è distanziare ancora l’uomo dalla sua cosa, facendogliene apprezzare il simulacro. Per questo è necessario che intellettuali del tuo calibro continuino a produrre cultura in forme sempre nuove, non importa quali. Guai se doveste scomparire o ridurvi al silenzio! Sono certo, caro Goffredo, di trovarti sensibile al problema che ho appena abbozzato. E’ urgente riflettere e poi decidere ed operare. Sollecito quindi il tuo parere ed i tuoi suggerimenti.
(2) Goffredo Fofi, critico cinematografico legato all’estrema sinistra e rianimatore della rivista Ombre rosse. Pur riconoscendo il primato dell’economia politica, i suoi interessi sono volti soprattutto all’ambito sovrastrutturale. Nella ventilata ipotesi di costituzione del « Ministero della rappresentazione per il popolo » il dicastero non può sfuggirgli.