Tutte le volte che i ritrovamenti ossei hanno fatto scalpore nel caso Emanuela Orlandi fra presunti messaggi e finti sensazionalismi giornalistici
articolo di Tommaso Nelli
Historia magistra vitae, scriveva Cicerone. Storia maestra di vita. Perché insegna e perché può ripetersi. Vale anche per il caso di Emanuela Orlandi, vicenda tornata alla ribalta mediatica negli ultimi giorni perché accostato, in modo del tutto arbitrario, al ritrovamento di uno scheletro umano e di altri frammenti ossei sotto un pavimento della guardiania di Villa Giorgina, in via Po a Roma, sede della nunziatura apostolica vaticana in Italia.
Un’associazione legittima se fossero già stati compiuti i dovuti accertamenti su quei reperti e fosse emerso che appartenessero a un’adolescente scomparsa nel 1983. Ma non è così. Perché al momento la realtà racconta che essi sono sì riconducibili a una persona, presumibilmente una donna, ma non sappiamo se abbia un’età giovanile o adulta e da quanto tempo siano stati là sotto. E allora, se mancano elementi tangibili a suo sostegno, da dove è nata l’esigenza, a quasi tutte le latitudini mediatiche, di collegare fin da subito quel rinvenimento alla scomparsa di Emanuela Orlandi?
Una grancassa all’insegna del sensazionalismo, suonata per richiamare l’attenzione di quanto più pubblico possibile. In pratica, l’esatto contrario del buon giornalismo. Specie quello investigativo (altrimenti tutti quelli con una penna o con un pc sarebbero novelli Bernstein), che oltre agli indizi vuole anche memoria. E la time line del caso di Emanuela Orlandi racconta almeno di altre tre analoghe scoperte ossee e di altrettante connessioni con la sua sparizione, rivelatesi però dei giganteschi abbagli.
13 maggio 2001. In un confessionale della chiesa di S. Gregorio VII, a due passi dal Vaticano, fu recuperato un teschio. Complice la concomitanza cronologica con l’attentato a Giovanni Paolo II (13 maggio 1981), fu interpretato come un messaggio in codice per accomunare le due vicende. Peccato che quel cranio non avesse niente a che vedere con Emanuela. La suggestione non fa investigazione. Nemmeno se la s’intensifica. Per esempio, con un altro teschio, stavolta lasciato sotto il colonnato del Bernini (piazza San Pietro), nei giorni antecedenti il Natale.
Era il 21 dicembre 2012, fu un turista a segnalarlo. Recuperato e analizzato, si scoprì risalire a prima del 1950. Altro giro altra corsa.
Nel maggio 2012, durante la seconda inchiesta giudiziaria, la magistratura aprì la tomba di Enrico De Pedis, situata nella cripta della basilica di S. Apollinare, per verificare se all’interno vi fossero tracce di Emanuela Orlandi. Risposta negativa. Come quelle provenienti dalle analisi di oltre 400 cassettine contenenti resti ossei, rinvenute nei sotterranei dell’edificio e appartenenti a un cimitero d’epoca prenapoleonica. Eppure anche allora scattò subito il battage mediatico che le connetteva alla giovane cittadina vaticana.
Come sta avvenendo in questi giorni con Villa Giorgina, citata con sfrenata compulsione tanto da rischiare già la trasfigurazione in una sorta di Loch Ness all’amatriciana. Ma che abbiamo noi fra le mani per ipotizzare che quello scheletro sia di Emanuela Orlandi? Nulla. Assolutamente nulla.
Converrebbe dunque eleggere “cautela” a parola d’ordine e aspettare (tipo l’esito degli esami del DNA) prima di abbandonarsi a supposizioni in libertà, buone solo ad aumentare il rischio di un’altra smentita – sarebbe la quarta su altrettanti episodi – e a essere visti come utilizzatori del dolore per fini di spettacolo. Se poi invece si vogliono tirare le somme prima di aver fatto i conti, non c’è problema. A quel punto, però, “ciao” desiderio di verità. E “ciao” giornalismo di qualità.
3 novembre 2018
Per approfondimenti:
http://www.cronacaedossier.it/caso-orlandi-pregi-difetti-commissione-inchiesta/
Mirella Gregori, secondo il SISDE un’amica sapeva chi la portò via
Caso Orlandi, quei giovani militari nelle segnalazioni del SISDE
Pietro Orlandi: “Ecco il sistema di poteri che ha incastrato Emanuela”