La Commissione europea ha annunciato mercoledì scorso che imporrà dazi aggiuntivi sui veicoli elettrici (EV) cinesi importati a partire da luglio come risultato dell’indagine anti sovvenzioni, secondo la quale in Cina l’intera filiera degli EV è massicciamente sussidiata dallo Stato. Si tratta di un primo passo: entro il 2 novembre verranno decise misure definitive della validità di 5 anni. Per il momento si sa che la Commissione Europea vuole colpire BYD, Geely e Saic con tariffe del, rispettivamente, 17.4%, 20% e 38.1%, mentre ad altri costruttori saranno applicati dazi del 21%.
Non esattamente una mossa che ci si aspetterebbe da paesi che professano il libero mercato. Ma del resto i campioni del libero scambio, ossia gli Stati Uniti, hanno imposto dazi addirittura del 100%. Eppure gli scorsi anni Bruxelles ha etichettato la Cina, e non gli Usa, di non essere un’economia di mercato.
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Questo aspetto non è l’unica contraddizione di questa storia: la vicenda dei dazi sulle EV cinesi è ricca di asimmetrie che meritano un minimo di attenzione. Quella più palese riguarda i cittadini europei. Nel corso dei decenni sono stati investiti da una progressiva riduzione dei propri diritti e da una mancata tutela del proprio posto di lavoro quando esso veniva minacciato dalla globalizzazione neoliberista. Se quindi la produzione industriale si spostava in altre aree del mondo alla ricerca di un costo del lavoro più basso, nessun dazio e nessuna barriera veniva innalzata per proteggere i soggetti più deboli. Si diceva che, in regime di libero mercato, non era possibile. Ora che quegli stessi soggetti (e tutti gli altri) potrebbero avere accesso ad auto elettriche a costi ragionevoli, si alzano barriere che, a conti fatti, colpiscono i diritti dei più, in favore dei profitti di pochi. Soprattutto se si pensa che l’Ue ha deciso il passaggio alle auto elettriche entro il 2035, con costi che si scaricheranno integralmente sui consumi e sulle tasche delle famiglie.
Un’altra (curiosa) asimmetria viene sbandierata dai giornali ed i media europei, secondo i quali la Cina, per ripicca alla decisione sul comparto EV, sta intraprendendo indagini antidumping su prodotti europei quali il cognac o la carne di suino. Chi agita lo spauracchio delle “ritorsioni” cinesi forse non coglie il senso profondo della vicenda: mentre la Cina può colpire prodotti di importazione a basso valore aggiunto (e quindi facilmente sostituibili), l’Europa se la piglia con un comparto tecnologico di cui la Cina domina l’intera filiera (dai minerali strategici, alle batterie, ai software).
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La decisione europea sembra frutto di un compromesso. Innanzitutto tra le varie posizioni presenti nel panorama europeo. Non è certo un mistero che paesi come Germania, Svezia ed Ungheria fossero contrari all’imposizione di tariffe aggiuntive sulle auto cinesi. I tedeschi, soprattutto, hanno tutto da perdere. La BMW oltre a costruirci i modelli come iX3 o la nuova Mini elettrica, in Cina genera oltre un terzo delle proprie vendite globali. Il gruppo Volkswagen è in Cina da 40 anni e vanta 39 impianti con 90mila dipendenti e 50 milioni di clienti, mentre il gruppo Mercedes-Benz ha nella Cina il suo più grande mercato (solo l’anno scorso ha venduto qui 737.200 delle 2,49 milioni di auto prodotte).
Ma la decisione di Bruxelles sembra anche un modo per spingere i produttori cinesi a spostare la produzione in Europa. E questo è un trend già avviato: la BYD sta costruendo un impianto a Szeged, in Ungheria, che potrebbe avviare la produzione già nella seconda metà del 2025 e marchi come Geely e SAIC sono diventati proprietari di industrie automobilistiche europee (rispettivamente la Volvo e la MG). Quindi ciò che viene ammantato con aura protezionistica contro la cosiddetta “inondazione” di EV cinesi in Europa è in realtà una richiesta di localizzazione della produzione nell’Ue, anche perché l’inondazione denunciata dalla von der Leyen, semplicemente, non esiste.
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Un’altra asimmetria risiede nel ruolo dello stato nello sviluppo di questo settore industriale. È sulla base di questa tesi che si sono commutati nuovi dazi alle auto elettriche cinesi. Sicuramente Pechino ha messo le imprese nazionali nelle condizioni migliori per poter prosperare. Non dimentichiamoci però il fatto che questo è tutto sommato un settore che non è maturo: la domanda si sta ancora creando e la presenza (o meno) di infrastrutture nazionali resta decisiva. Ma non è, forse, sempre stato così per ogni nuovo settore tecnologico, non solo in Cina? Basta rileggere le illuminanti pagine de “Lo stato innovatore” dell’economista Mariana Mazzuccato, per prendere consapevolezza del fatto che senza lo Stato non si potrebbe nemmeno dare il via a quel processo cumulativo e rischioso che è l’innovazione. Una strada sperimentata con successo innanzitutto negli Stati Uniti dove società come Apple o le big pharma, senza lo Stato, non sarebbero i colossi che conosciamo. Per rimanere in Europa, il governo Francese (che, tra le altre cose, è anche dentro l’azionariato di Stellantis) ha siglato il mese scorso un contratto strategico con i principali attori dell’industria automobilistica per sviluppare il settore EV promettendo anche un investimento pubblico di 1,5 miliardi di euro.
Insomma: se queste decisioni le prende Pechino si parla di dumping, mentre se le prende Parigi si parla di pianificazione ecologica.
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Tutte queste cose, che noi ci ostiniamo a chiamare asimmetrie, nel resto del mondo vengono viste per quello che sono: doppio standard.
E questo può servire a guadagnare consenso nel brevissimo periodo, ma non colmerà mai il ritardo tecnologico che il continente europeo sta accumulando. Soprattutto se, nella foga di boicottare i prodotti cinesi, si finisce per boicottare il proprio sviluppo industriale.
L’autore Francesco Maringiò è il presidente dell’Associazione italo-cinese per la promozione della Nuova Via della Seta
2024-06-20