Luigi Ferrari
- Dichiarazioni di intenti
Ricevo un cortese invito dal gruppo di studiosi, formato da Daniele Burgio, Massimo Leoni, Roberto Sidoli e altri, ad occuparmi, dal mio punto di vista, della loro teoria dell’”effetto sdoppiamento”, da loro elaborata in una successione di scritti.
Ho già avuto modo di esprimere verbalmente la mia consonanza con molte di quelle tesi, non mi è dunque difficile accettare l’incitamento a portare un mio contributo.
L’effetto sdoppiamento, in somma sintesi, riguarda la biforcazione che si è verificata già in epoche molto antiche tra popolazioni che hanno diviso, al loro interno, i surplus della produzione (essenzialmente agro-pastorale) sulla base di rapporti di produzione collettivistici, cioè egualitari e solidali e popolazioni che hanno percorso la via classista, fondata sul privilegio e sulla disuguaglianza.
Nella mia riflessione, soprattutto sulla nascita dell’individualismo borghese (Ferrari 2016), ho ripetutamente mostrato il parallelismo tra i quadri mentali individualistici e lo sviluppo del modo di produzione borghese. In quel contesto, ho contrapposto la struttura del modo di produzione agrario tradizionale signorile-feudale al capitalismo, segnalando la sopravvivenza di forme economiche e rapporti di produzione collettivistici precapitalistici anche ben addentro l’era dell’egemonia borghese (e perfino oggi). Il mio intento di allora era dimostrare che “la mente” attuale, pur nell’era dell’egemonia individualistica, non può essere capita senza coglierne la natura incoerente e composita di individualismo/collettivismo, in stretta correlazione al conflitto tra classismo e collettivismo, che ha percorso tutta la nostra storia. La mia tesi è che il nostro passato occidentale per secoli ha mantenuto ampie strutture produttive, modi di appropriarsi dei surplus e un universo normativo (giuridico, etico e teologico) collettivisti/comunistici, pur in una società medioevale gerarchica a dominanza classista. Credo di condividere questo modello di spiegazione dialettico con Burgio, Leoni e Sidoli, almeno là dove Sidoli afferma:
“… l’effetto sdoppiamento e la tendenza socioproduttiva e politico-sociale “rossa”, collettivistica […] non cessarono di esercitare la loro influenza sul processo storico su scala planetaria […] sebbene in Eurasia dopo il 2000 a.C. l’egemonia politica ed economica sia stata detenuta quasi sempre dalla “linea nera”, ossia dall’esito classista, patriarcale e militarista […] in questi ultimi sei millenni la tendenza socioproduttiva collettivistica è riapparsa carsicamente [mia sottolineatura] nel processo socioproduttivo del genere umano …” (Galli et al. 2019, pp. 33-34).
Dunque il mio intento è, qui e ora, approfondire questa contraddittoria e conflittuale mescolanza di forme economiche opposte, tenendo conto dell’”anello” di dipendenze circolari tra modi di produzione e ideologie/mentalità, per cui i primi scolpiscono la soggettività umana che, a sua volta, retroagisce sui modi di produzione rafforzandoli conservativamente o demolendoli attraverso vari tipi di rivoluzioni. Più precisamente, nello spirito del lavoro di Burgio, Leoni e Sidoli, mi soffermerò, prima di tutto, sul collettivismo contraddittorio della società ebraica antica, che ha modellato la nostra tradizione ebraico-cristiana, col fine di mostrare, in una seconda parte, implicazioni e sviluppi moderni.
Aggiungo che Burgio, Leoni e Sidoli – mi pare – vogliano anche far progredire o, quantomeno, approfondire il contributo di Marx ed Engels. Essi, infatti, alla luce delle recenti acquisizioni storico-archeologiche, pongono al centro il superamento della visione della nascita delle attuali classi come un passaggio totalizzante, che non ha lasciato più spazio alcuno alle varie forme dei rapporti di produzione comunistici originari. Gli studiosi hanno cioè voluto “correggere” Marx ed Engels (o piuttosto la loro vulgata), affermando come i due modelli: quello collettivistico e quello classista siano stati, in realtà, compresenti e in conflitto ben oltre l’era antica.
Burgio, Leoni e Sidoli si sono anche chiesti se questa “correzione” finisca per essere in antitesi col marxismo. In merito, il collega Giorgio Galli ha espresso parere negativo, vedendo una coerenza superiore.
Concordo pienamente.
Ma aggiungo che potrei anche essere in grave dissenso se questa verifica, per così dire, di ”ortodossia” nasconda, in realtà, una visione statica del pensiero di Marx ed Engels, da accettare o rifiutare in blocco. Credo che questa impostazione, che cela malamente un’angoscia di difesa, ci riporti alla sterilità della Guerra Fredda, vinta dagli antagonisti del marxismo anche perché essi hanno messo in quarantena questo pensiero, riuscendo a stringerlo in una difesa astiosa e senza sviluppo. Il marxismo oggi è in affanno (pur essendo globalmente in ripresa) per la soffocazione generata dal lunghissimo scontro tra i blocchi. La Guerra Fredda ha raggelato quel piano di sviluppo delle ricerche scientifiche sull’uomo e la società, che Marx ed Engels avevano intrapreso come motore propulsore del socialismo scientifico. Non credo che Burgio, Leoni e Sidoli – come del resto essi stessi dichiarano – si preoccupino di fare una difesa miope di Marx, nel senso di ribattere colpo ideologico su colpo ideologico. Ho bensì l’impressione di vedere in loro la volontà di portare avanti il programma di ricerca, che è stato uno dei più importanti di Marx scienziato; il quale – ricordiamo – diceva di sé: “io non sono marxista!” proprio per indicare la sua esecrazione per ogni forma di “imbalsamazione” e santificazione del sapere.
Ma, in ogni caso e lo ripeto, il contrasto con Marx qui non si dà.
- Marx ed Engels studiosi del collettivismo originario
Si deve preliminarmente sgombrare il campo da un equivoco. È noto che il centro del lavoro scientifico di Marx è la comprensione del capitalismo, ma ciò non deve affatto far ignorare il grande interesse del pensatore per le forme economiche collettivistiche precapitalistiche.
Nel 1842 nel poco noto scritto “Dibattiti sulla legge contro i furti di legna” Marx si misura col millenario diritto consuetudinario di libero utilizzo dei beni comuni (diritto di legnatico, cioè di raccolta libera della legna secca, caduta al suolo: elemosina della natura, secondo Marx) e con il forte sforzo di trasformarlo in un reato grave che ledeva i proprietari dei boschi. In questo lavoro, comparso sulla Gazzetta renana, Marx si misura con l’ancor viva sopravvivenza di forme economiche collettivistiche precapitalistiche e con l’interesse della classe proprietaria alla loro completa soppressione. Marx, in quell’epoca, era “… ancora permeato di hegelismo” e “riteneva che lo stato avesse il dovere di garantire il diritto in sé e non gli interessi privati.” (Cornu 1955, p. 401), ma la questione gli aveva svelato un conflitto profondo tra due sistemi di rapporti di produzione (e di pensiero/mentalità) che nessuno stato era in grado di comporre, se non – come puntualmente succedeva – schierandosi e ponendosi al servizio della classe dominante. Più tardi, così si esprime Marx in una lettera a Engels, assolutamente centrale per la comprensione dell’epistemologia marxiana:
“Accade nella storia dell’umanità quel che accade nella paleontologia. Cose evidenti non sono esaminate per una certain judicial blindness [ndr. cecità dovuta a stereotipi e pregiudizi] neanche alle menti più notevoli. Più tardi, venuto il momento, ci si stupisce che le cose non viste manifestino ancora dappertutto le loro tracce. La prima reazione alla Rivoluzione francese e l’illuminismo ad essa connesso era naturale: vedere tutto medioevale, romantico; e persino gente come Grimm non ne va esente. La seconda reazione è – e corrisponde alla tendenza socialista benché questi eruditi non abbiano idea di esservi legati – di gettare lo sguardo, al di là del Medioevo, sul primo evo di ogni popolo. Allora sono sorpresi di trovare nelle cose più antiche le cose più recenti, di trovarvi persino egalitarians to a degree che farebbe inorridire Proudhon.
Quanto siamo presi noi tutti da questa judicial blindness! Perfino nella mia regione, sullo Hunsrücken l’antico sistema tedesco è perdurato fino a questi ultimi anni. Ricordo che mio padre me ne parlava nella sua qualità di avvocato.” (lettera di Marx a Engels del 25 marzo 1868, sta in. Togliatti P. et al., 1951, vol. V, p. 165)
Marx, nell’articolo del 1842, pur con forti intonazioni anti-proprietarie[1] mostra ancora una forma di judicial blindness, cioè di perplessità derivata dai lati tuttora irrisolti del suo hegelismo, i quali ancora lo attardavano a cercare nello stato un’impossibile sintesi profonda (qui è il punto!) non solo tra interessi particolari contrapposti, ma tra interi modi di produzione. Per tutta la vita successiva, Marx, anche se a fasi alterne, cercherà, con le conoscenze storico-antropologiche del tempo, di non cadere nella judicial blindness per evitare di liquidare l’immenso (non uso a caso questo termine) patrimonio del collettivismo storico arcaico.
Dunque nel 1842, in Germania, esistevano ancora vaste sopravvivenze collettivistiche medioevali, ma l’impresa capitalistica stava velocemente ricostruendo tutto il panorama sociale e mentale, ponendo in modo martellante la questione dei rapporti tra gli esseri umani. Marx aveva capito che il passato, davanti ai vasti orrori della prima industrializzazione e della ristrutturazione dell’agricoltura, si andava caricando di una sempre maggiore attrattività nostalgica. Dunque nel Manifesto del partito comunista, senza equivoci, sbarra la strada al recupero – si badi bene: reazionario e nostalgico – del collettivismo precedente; ma la questione rimaneva aperta perché il collettivismo storico profondo, rimaneva, come appena detto, una risorsa e, in ogni caso, rappresentava un roccioso riferimento nella mente occidentale, col quale si dovevano fare obbligatoriamente i conti.
In più, Marx ha l’esigenza, per così dire opposta, di sbarrare la strada anche alla perdita della memoria di altri modi di produzione possibili, che era diventata l’ideologia ufficiale della nascente scienza sociale ed economica borghese. Del resto, è noto che – di lì a poco – l’affermazione dell’economia neoclassica borghese si è accompagnata, essendone anzi fondata, a un’ideologia scientifica (o meglio scientista) di una naturalità dell’essere umano, per cui l’economia più avanzata era spiegabile così come quella dell’uomo della pietra, con le stesse leggi. Beninteso, pure leggi di scambio, in cui le classi, per i neoclassici, non hanno nessuna rappresentanza.
Secondo Hobsbawm (1964) Marx si interessò della storia delle società pre-capitalistiche in due fasi distinte della sua vita:
- il decennio 1850-60 con, tra l’altro, l’importante e centrale contributo dei quaderni IV e V nei Grundrisse;
- il decennio 1870-80 con una crescita di interesse per l’evoluzione storica della servitù della gleba.
Proprio nei Grundrisse troviamo un passaggio illuminante della centralità delle forme economiche pre-capitalistiche per i contemporanei, che ben illustra la doppiezza della questione delle forme collettivistiche antiche. Vale la pena leggere qualche passo.
“Presso gli antichi non troviamo mai un’indagine su quale forma della proprietà fondiaria eccetera sia la più produttiva, crei la massima ricchezza. La ricchezza non si presenta come scopo della produzione, sebbene Catone possa benissimo chiedersi quale coltivazione dei campi sia la più redditizia, oppure Bruto possa addirittura prestare il suo denaro all’interesse più alto. L’indagine è sempre volta a stabilire quale modo della proprietà crei i migliori cittadini. La ricchezza appare come fine a se stessa solo presso i pochi popoli dediti al commercio – che monopolizzano il mestiere dei trasporti – che vivono nei pori del mondo antico come gli ebrei nella società medievale […] Perciò l’antica concezione secondo cui l’uomo, quale che sia la sua limitata determinazione nazionale, religiosa, politica, è sempre lo scopo della produzione, sembra molto elevata rispetto al mondo moderno, cui la produzione si presenta come scopo dell’uomo e la ricchezza come scopo della produzione. […]”
Conclude Marx:
“Perciò da un lato l’infantile modo antico si presenta come il momento più elevato. Dall’altro esso lo è effettivamente [mie sottolineature] ogni qual volta si cerca una forma compiuta e una delimitazione data. Esso è soddisfazione da un punto di vista limitato; mentre il mondo moderno lascia insoddisfatti, o, dove esso appare soddisfatto di sé, è volgare.” (Marx 1939, pp. 466-467)
In sostanza, qui Marx esprime sia la centralità del senso umano dell’attività economica, tenuto ben presente nell’antichità e che deve essere positivamente recuperato. Al contempo, però, Marx rimarca anche la forte e sinistra fascinazione che i sistemi economici precapitalistici possono avere sull’uomo contemporaneo, soprattutto nel loro lato collettivistico. In definitiva, dobbiamo, infatti, riconoscere che tutte le forme ideologiche più aggressivamente reazionarie hanno, in qualche modo, cercato di recuperare tratti (certo, quelli più deteriori) del collettivismo gerarchico antico[2].
Marx tornò sulla proprietà comune nella sua Per la critica dell’economia politica sottolineando come non potesse essere considerata solo una peculiarità russo-slava, ma riguardasse in pratica la storia umana nel suo complesso (1859, pp. 13n-14n). Il tema del furto dei beni demaniali e, in generale, della proprietà comune venne poi ripreso nel primo libro de Il capitale (1867; capitolo 24), definito da Marx il seguito di Per la critica dell’economia politica.
Hobsbawm (1964) si diffonde nel mostrare l’elaborazione concettuale sulle forme economico-sociali precapitalistiche di Marx ed Engels, col ricorso alle fonti rappresentate da Hegel, gli economisti classici, Maurer, nonché Morgan e Kovalevskij.
Sappiamo anche degli interessi di Marx per le vicende algerine (si veda Galli et al. 2019 e anche Musto 2018, pp. 176 e succ.), ma non dobbiamo dimenticare anche gli approfondimenti di Engels che ispirarono Marx. Engels si applicò allo studio della arcaica coltivazione in comune e della storia dello sviluppo della proprietà fondiaria in Germania, anche in considerazione del fatto che, come egli stesso afferma, “… era necessario conquistare gli operai agricoli e i contadini” agli ideali del partito socialista tedesco (Engels 1952, p. 157; Engels scrive il saggio “La marca” intorno al 1882).
Purtroppo, per evidenti motivi di spazio, non possiamo riprendere questa importante letteratura. Concludiamo con quello che si può considerare il culmine di questa riflessione di lungo periodo, quanto meno perché viene redatto pochi anni prima della scomparsa del pensatore tedesco (Marx muore il 14 marzo 1883)
Viene molto citato lo scambio epistolare tra Vera Zasulich e Marx nel 1881 e su di esso vale la pena soffermarsi.
In sostanza la Zasulich, passata alla militanza marxista, chiedeva a Marx se la comune russa (mir) fosse destinata, o no, a perire con l’avanzata del capitalismo in Russia e quanti secoli sarebbero stati eventualmente necessari ai russi per raggiungere il livello dei paesi occidentali. Alla base del quesito c’era una questione interpretativa del modello esplicativo de Il capitale. Si trattava cioè di comprendere se i sistemi socio-economici fossero destinati a succedersi in sequenza, secondo un ordinamento ferreo: prima i vari modi di produzione pre-capitalistici, poi il sistema signorile-feudale (che includeva formazioni collettiviste come il mir), poi ancora il capitalismo e, infine, il socialismo-comunismo.
Marx fu tratto in grave imbarazzo dalla richiesta di chiarimenti. Ci sono arrivate ben quattro minute prima della versione finale della risposta alla Zasulich. La risposta fu tardiva; tra l’altro, Marx curiosamente si scusò del ritardo parlando di problemi nervosi ricorrenti acuitisi in quelle settimane. L’imbarazzo e i freni psicologici a rispondere sono chiari e comprensibili, soprattutto a partire dai quesiti della Zasulic, che furono posti a Marx in modo drammatico. Il nocciolo della questione era, sul piano pratico, se le avanguardie russe, prima di costruire la società socialista, dovessero succedersi inerti poiché la società russa non era ancora passata attraverso l’era del capitalismo. Marx evidentemente non voleva dare l’impressione che i militanti marxisti russi fossero destinati per intere generazioni a non vedere nemmeno la possibilità di una rivoluzione. C’era un vasto e via via più interessante potenziale attuale di trasformazione nella società russa, certo carente di lucida capacità analitica, ma che richiedeva un grande rispetto e, per questo, giustificava forme di prudente doppiezza teorica, già esercitata in altri contesti. In più e al contempo, la sopravvivenza su tale scala di strutture collettivistiche non poteva certo essere liquidata con poche battute e con qualche distratto schema teorico. In tutta l’elaborazione della risposta riscontriamo un tentativo molto partecipato di pensare al mir come a una sopravvivenza peculiare, recuperabile alla fase del socialismo/comunismo, facendo tesoro dei progressi delle forze produttive occidentali, ma senza doverne assumere i rapporti di produzione capitalistici. La risposta finale fu, tuttavia, del tutto interlocutoria: ne Il capitale – dice Marx – mancano argomenti decisivi a favore o contro la comune Russa. Tuttavia, egli non chiude la porta a quest’ultima possibilità. La subordina, però, al contesto internazionale e alla forza del capitalismo di deviare o, all’opposto, di rafforzare la trasformazione socialista in Russia.
Com’è noto, questa risposta ha lasciato insoddisfatti molti commentatori (poteva essere altrimenti?), ne sono conseguite diverse interpretazioni pro o contro la tesi del recupero del mir.
Sono convinto, forse in disaccordo con Burgio, Leoni e Sidoli (ma la questione va approfondita), che Marx non vedesse molto ottimisticamente il futuro progressivo del mir per almeno tre distinte ragioni che esporrò in ordine di importanza crescente.
1) Marx, in realtà, in quegli anni ha un’idea più precisa, almeno rispetto alla risposta sibillina alla Zasulich. Mi riferisco, in primo luogo alla lettera di Marx alla redazione della rivista russa Otiecestvennye Zapiski del novembre 1877 (Marx K. e Engels F. (1971), pp. 155-158.). Il tema è, appunto, il mir dal punto di vista, più o meno, della lettera della Zasulich. Scrive un Marx che non vuole essere frainteso: “Sono arrivato a questo risultato: se la Russia continua a camminare sul sentiero percorso dopo il 1861, essa perderà la più bella possibilità che la storia abbia mai offerto a un popolo, e subirà tutte le fatali peripezie del regime capitalista.”. Marx è convinto che non esista nessuno schema teorico rigido[3], ma è consapevole che la Russia sia ormai molto avanti nella sua trasformazione capitalistica e che quindi non possa essere più considerata un’avanguardia vera e propria del processo rivoluzionario a partire dal mir. Questa argomentazione trova come suo complemento la prefazione all’edizione del Manifesto del 1882: “La sola risposta [ndr. al quesito sul potenziale rivoluzionario del mir] oggi possibile è questa: se la rivoluzione russa servirà di segnale a una rivoluzione operaia in Occidente, in modo che entrambe si completino, allora l’odierna proprietà comune russa potrà servire di punto di partenza per un’evoluzione comunista.” [Marx e Engels 1882, p. ]
2) Marx aveva l’acuta percezione – dopo numerose “false partenze” rivoluzionarie (il ’48, la Comune di Parigi, ecc.) – dell’impossibilità di accorciare i tempi di una trasformazione sostanziale e definitiva della società, compresi gli aspetti mentali, condizione questa ineludibile per una rivoluzione veramente compiuta. Già nel 1853 Engels, che sarà più ottimista di Marx, affermava … “Io ho quasi il presentimento che un bel giorno il nostro partito, grazie alla incertezza e alla fiacchezza di tutti gli altri partiti, dovrà assumere per forza il governo”. Engels paventa una situazione in cui si debbano fare in tempi prematuri … “esperimenti e salti comunistici” e conclude: “E allora si perderà la testa, – speriamo solo physiquement parlant, – subentrerà una reazione e, fino al momento in cui il mondo sarà in grado di formulare su tutto quanto un giudizio storico, non solo si passerà per belve, cosa che sarebbe del tutto indifferente, ma anche solo per bête, e questo è molto peggio” (lettera a Weydemeyer del 12 aprile 1853 in Marx e Engels 1950, p. 616) . Come Hobsbawm (1978) sottolinea, dopo la crisi capitalistica mondiale del 1857, Marx ed Engels smisero di ritenere imminente una rivoluzione davvero vittoriosa, nonostante un ottimismo di fondo, soprattutto di Engels. Mi pare che non esistano prove o solo indizi storici che ci sia stato un cambiamento di opinione, meditato e soprattutto basato su dati di fatto, per la Russia degli anni ’80, per quanto essa fosse piena di fermenti interessanti. È più probabile che Marx (ed Engels) vedesse nel destino della Russia un passaggio nel capitalismo, troppo poco contrastato da forze rivoluzionarie “immature” e forse fosse convinto di una fine del mir ben prima che una forza rivoluzionaria, giunta finalmente a maturazione, lo potesse proporre come modello.
3) Al di là dell’analisi di dettaglio delle singole opere o della corrispondenza (sempre opinabili), è l’impianto generale della riflessione matura di Marx a parlare senza equivoci. Egli mantenne sempre un ordine sistematico di priorità nel suo impegno analitico e dunque nei suoi scritti, speculare alla centralità percepita delle grandi forze della storia. Il capitalismo aveva già completamente rivoltato il genere umano e la sua vita associata e moltissimi altri cambiamenti sarebbero seguiti. Marx aveva compreso a fondo il destino egemonico del capitalismo e ne Il capitale non parla tanto della realtà a lui contemporanea, piena di porosità e sopravvivenze medioevali/antiche, come gli aveva fatto notare il padre. Un vero coacervo di “imperfezioni” capitalistiche, come si capisce! L’alto livello di astrazione dell’opera matura è esattamente la conseguenza della messa tra parentesi delle forme pre-capitalistiche, allora sì sovrabbondanti, ma recessive e destinate all’estinzione. Il capitale è, però, un’opera oltremodo concreta se rapportata all’oggi e dunque solo oggi essa è realmente comprensibile, anzi tutto perché solo ora è del tutto aderente ai fatti come si manifestano nella società. Questo inveramento differito (Ferrari 2019) non lascia molto spazio al collettivismo arcaico anacronistico, ma, assai più che ai tempi di Marx, pone al centro dei nostri destini il collettivismo, senza ulteriori specificazioni. Da ciò anche la scelta di concentrare i suoi sforzi di comprensione sul capitalismo.
Si può allora concludere che i temi della biforcazione sono secondari? Direi proprio di no.
Lo stesso Marx del 1881, nonostante tutte le sue prodigiose intuizioni sul futuro egemonico del capitalismo, rimase profondamente dubbioso sul peso da assegnare alle forme economiche collettiviste precapitalistiche, proprio perché sapeva che un loro certo ruolo sarebbe stato inevitabile. Non si tratta solo, come si è detto, di rammentare la storicità dei modi di produzioni, contro l’idea sbagliata dell’ineluttabile naturalità dello stato attuale delle cose. Il problema è che gran parte della nostra mentalità – molto più di quanto si sia disposti a credere – origina da quel collettivismo che tuttora, in forme trasfigurate, influenza profondamente ogni critica del capitalismo contemporaneo. Inoltre, il passato ha comunque qualcosa da insegnare nella costruzione positiva del collettivismo moderno.
Per questo motivo, si deve tornare criticamente ai temi sui quali hanno lavorato Burgio, Leoni e Sidoli. Non ripeterò la massa di osservazioni di questi studiosi; cercherò, piuttosto, di approfondire aspetti, da loro lasciati in ombra, a partire dalla nostra tradizione ebraico-cristiana con il fine di fare ulteriore chiarezza sul tema.
- L’inizio: il collettivismo biblico
La nostra tradizione ebraico-cristiana, nella quale è maturato il collettivismo socio-produttivo e mentale occidentale (almeno fino al socialismo scientifico), nasce, con tutta evidenza, dalla storia profonda dei popoli che hanno dato origine alla nazione di Israele (o etnia israelita, intesa – secondo la narrazione della tradizione – come discendenza da Giacobbe). Per la sua enorme rilevanza religiosa, questa storia è stata oggetto di attenzioni per millenni, ma, al contempo, ha subito tutte le distorsioni, i tabù e le idiosincrasie di un tema, insieme, scientifico e di fede[4]. Finkelstein e Silberman (2001), due storici e archeologi israeliani, ai quali prevalentemente ci ispireremo in questa parte, osservano che ci sono voluti molti secoli perché si separasse l’approccio religioso da quello storico nello studio della storia di Israele, a partire dalla fonte storica privilegiata: la Bibbia.
Facendo un passo indietro, dal XVII secolo, probabilmente proprio per un rinnovato fervore religioso, gli studi storici e linguistici della Bibbia sono diventati più rigorosi e più precisi di quanto fossero in precedenza, quando l’Antico Testamento era ritenuto, appunto per fede, un testo da leggersi “immediatamente” come storico. Ne seguì l’evidenza di una serie di sconcertanti incongruenze che hanno cominciato a sollevare dubbi sull’affidabilità storica della narrazione biblica se priva della mediazione di interpretazioni e senza la tolleranza per approssimazioni e imprecisioni. Molto più tardi e in anni recenti, si è sviluppato un forte interesse archeologico per la storia antica di Israele. Anche qui c’è stato un passaggio di mentalità di formidabile importanza. Gli archeologi, in un primo tempo, erano partiti dallo studio della Bibbia per cercare, negli scavi, conferme o smentite religiose. Scriveva l’archeologo biblico (domenicano) De Vaux: “Se la fede storica di Israele non è fondata sulla storia, tale fede è erronea, e pertanto lo è anche la nostra fede” (Finkelstein e Silberman 2001, p. 48). Il risultato è stato un sconcertante affastellarsi di dubbi e smentite. Solo in anni recentissimi l’archeologia biblica si è affrancata da questa super centralità della Bibbia e si è passati a studiare la storia antica di Israele come quella di qualsiasi altro popolo. Entro questa prassi rinnovata, la Bibbia è stata trattata come una fonte storica articolata e complessa, certo del tutto centrale, ma da affiancare alle altre e, semmai, da comprendere sul piano storico nelle sue distorsioni, silenzi e iperboli narrative.
La separazione di fede e scienza è stata forse meno traumatica di quanto per secoli si è paventato e oggi ci consente comunque di guardare alla storia profonda di tutta l’area del Medio-Oriente (dunque non solo di Israele) con più chiarezza.
È ora pressante una precisazione preliminare: è impensabile, in questa sede, uno studio storico anche minimamente esauriente; l’obiettivo può essere solo la focalizzazione su alcuni temi che hanno rilevanza per il nostro intento centrale. Anche così, però, è necessario (lo si vedrà bene nel seguito) un telegrafico cenno al senso teologico del complesso delle Scritture e dunque della nostra tradizione ebraico-cristiana.
3.1 Il quadro teologico
Se vogliamo cercare di capire gli effetti di sdoppiamento nella società ebraica antica e poi nell’Occidente, bisogna partire, come hanno fatto, Sidoli, Leoni e Burgio (2012) dalle Scritture, che, però, – è ovvio, ma non dobbiamo mai dimenticarlo – sono prioritariamente testi religiosi che, in quanto tali, devono dare un senso complessivo, cioè un quadro teologico esplicativo di riferimento dello stare nel mondo degli uomini. Cogliere questo quadro significa evitare errori interpretativi della narrazione propriamente storica complessiva, della quale, per altro, è ricchissima la Bibbia.
Per affrontare il nostro compito utilizzerò lo schema (riadattato) di spiegazione circolare, descritto nel primo capitolo del mio volume: L’ascesa dell’individualismo economico (2016, p. 56). Nello schema, la storia materiale (con i vincoli delle forze produttive di lungo periodo) scolpisce l’assetto mentale delle popolazioni, che, a sua volta, modella la storia sociale, istituzionale e teologica, la quale retroagisce sulla struttura mentale, che, infine, riproduce o innova le forze produttive. Il cerchio così si chiude: si è partiti dalle forze produttive e ad esse si ritorna. Nello schema, però, è legittimo partire da ogni altro punto/livello del “cerchio”, poiché ogni punto della spiegazione circolare è, al contempo, effetto del punto/livello precedente e causa del successivo. In termini marxiani: struttura e sovrastruttura sono un tutt’uno, un insieme organico di interdipendenze circolari.
Poiché le Sacre Scritture per millenni sono state una ricapitolazione unificata di tutti i quadri mentali occidentali e dunque sono la fonte centrale (sebbene certo non unica) della nostra ricostruzione, iniziamo il percorso esplicativo circolare dal livello teologico.
In estrema ed eroica sintesi, la storia teologica della nazione di Israele in primis e poi – nel cristianesimo – dell’intera umanità è la storia di un mancato riconoscimento pieno e fedele di Dio da parte dell’uomo. I popoli ebraici di Israele e Giuda (i due stati della Palestina che, per secoli, hanno composto quella che potremmo definire la “grande Israele”) lungo tutta la loro storia, secondo la Bibbia, sono sempre periodicamente rovinati nell’idolatria. La Rivelazione e il Patto non hanno, infatti, mai evitato del tutto la frana teologica e morale nei culti, e nei costumi degenerati dei popoli idolatri circostanti, considerati da Dio ormai del tutto perduti. Veicolo fondamentale (ma non unico) di questa deviazione dal cammino di perfezione è stata, secondo la Bibbia, la mescolanza etnica. Dio ha punito l’idolatria e il sincretismo religioso, con tutte le altre colpe, con flagelli che hanno colpito il popolo eletto (guerre civili, invasioni e scorrerie sanguinarie di egizi, assiri, babilonesi …):
(Deuteronomio 4, 24) “[24]Infatti il Signore tuo Dio è un fuoco divoratore, è un Dio geloso”.
Per la tradizione ebraica, Dio ha cessato di parlare a Israele con gli ultimi profeti. Da quel momento, il popolo eletto ha dovuto fare a meno dell’intervento, punitivo o salvifico, diretto di Dio nella storia, annunciato/spiegato dai profeti. Per questo “silenzio”, Israele ha dovuto accettare la sfida di rafforzarsi e di raggiugere autonomamente l’elevatezza agognata[5].
Non si deve mai dimenticare che l’ebraismo e il cristianesimo si fondano su una teologia, per così dire, del perfezionamento/santificazione dell’uomo nella storia.
Tuttavia, nella tradizione cristiana, Dio, contrariamente all’ebraismo, è sceso nel mondo per rivelarsi direttamente all’umanità e non più solo con la mediazione dei profeti o di personaggi eccezionali, come Mosè.
Ma anche la venuta di Cristo, non solo non ha prodotto un riconoscimento universale, ma, addirittura ha avuto come esito – che io sappia, caso unico nella storia delle religioni – l’assassinio di Dio sia da parte del popolo eletto sia da parte di tutta quanta l’umanità, rappresentata simbolicamente dal potere imperiale romano. La croce e la resurrezione di Cristo sono state interpretate sia come un tremendo monito all’uomo sul suo infinito potenziale distruttivo/autodistruttivo sia come l’indicazione di un percorso di salvezza che porta alla resurrezione. Il Dio del Nuovo Testamento non “sfida” l’uomo, come nell’ebraismo, ma offre un accompagnamento continuo attraverso il dono della grazia, assente nell’ebraismo.
Facciamo un passo ulteriore nel nostro modello esplicativo circolare.
La successiva storia mentale occidentale, ben dentro l’età moderna, è sempre stata caratterizzata dal sentimento e dal convincimento profondamente interiorizzati della caduta e della colpa, che significa indegnità e inettitudine senza recupero. Lo storico Delumeau (1983) descrive magistralmente la persistenza di questa convinzione profonda – vera prigione di lungo periodo nella quale è stata condannata l’umanità – e degli effetti che questa tetra teologia del peccato, retroagendo, ha avuto sui comportamenti, sulle istituzioni e sui rapporti di produzione occidentali (appunto in uno schema esplicativo circolare). Per i nostri temi, due sono stati gli esiti stabili di queste convinzioni profonde nella “mente occidentale”:
- la “nostalgia” per un’epoca di utopica pienezza nella quale gli esseri umani vivevano nell’uguaglianza fraterna e armonica, persa per sempre per indegnità quintessenziale;
- ma anche la cupa necessità di uno spietato dominio temporale per tenere a freno la nefasta durezza di cuore della massa degli uomini.
Una giustificazione della disuguaglianza, in varie ideologie aristocratiche occidentali, nate per legittimare il privilegio e lo sfruttamento, veniva riferita all’indegnità e all’inadeguatezza della massa degli esseri umani. Secondo questa ideologia, aristocrazia e nobiltà (ma poi, in fondo, ogni élite) erano l’eccellenza umana sulla terra, cui spettava l’esercizio di un implacabile dominio sulle masse, perlopiù incapaci di discernere il bene dal male. Allo stesso ceppo ideologico, vanno riferite tutte quelle convinzioni che ritenevano (e ritengono) impossibile una società ugualitaria, solidale, fraterna e collettivista, se non in contesti umani particolarissimi, come, per esempio, i conventi, dove erano radunate individualità già molto avanti sulla strada della santità[6].
Tra i tanti esempi, Delumeau cita l’opera seicentesca di Francisco de Quevedo: Hora de todos. In questa ora di verità, nella finzione letteraria dell’apologo di Quevedo, Giove e gli altri dei hanno concesso agli uomini di sovvertire l’ordine costituito: “… I ricchi, diventati umili e senza mezzi, si mostrano pentiti, ma coloro che prima erano poveri e che durante l’ora hanno ricevuto ricchezze e onori, ormai indulgono alla superbia e al vizio. Dunque, quale che sia il corso degli eventi, il mondo resta sempre a rovescio con una quantità costante di pazzia e di peccato.” (1983, p. 234).
3.2 L’inquadramento biblioco-storico del collettivismo ebraico
In questa ambientazione teologica generale, passiamo ora a considerare il contesto storico in cui sono nate le narrazioni della Bibbia, a partire dai recenti studi storico-archeologici e appoggiandoci soprattutto sui già citati Finkelstein e Silberman (2001).
Il primo nodo affrontato dagli storici studiosi dei popoli del testo biblico è la datazione dell’Antico Testamento. Da diversi indizi si colloca la redazione delle storie patriarcali intorno all’ottavo o settimo secolo a. C. (Finkelstein e Silberman 2001, p. 52): molto dopo il periodo che la Bibbia indica come l’epoca dei patriarchi. Un’ipotesi abbastanza condivisa tra gli studiosi è che il testo biblico sia la sintesi di diverse saghe e leggende di popolazioni ebraiche differenti, che ha preso forma di pari passo con la crescita di un’ideologia panisraelita, lievitata, a sua volta, con la crescita economica e politica del regno di Giuda. La Genesi (il primo dei libri biblici), secondo Finkelstein e Silberman (p. 48), sarebbe “la preistoria” di tutta Israele, con al centro la legittimazione e la celebrazione religiosa del regno di Giuda.
Una prima incongruenza tra la Bibbia e le risultanze degli studi storici e archeologici è senz’altro rappresentata dalle modalità e dai tempi (età del bronzo secondo il testo biblico) dell’Esodo in Egitto. Non ci sono, infatti, indicazioni scritte in Egitto dell’esistenza di popolazioni israelitiche fino alla fine del XIII secolo. Di nuovo, da diversi indizi, la redazione finale dell’Esodo viene collocata dagli studiosi tra il settimo e il sesto secolo sulla base di racconti più antichi e sotto l’urgenza politica del crescente attrito del regno di Giuda con l’Egitto. Allo stesso modo, secondo Finkelstein e Silberman (p. 133), non si può parlare di una contrapposizione di Israele alla civiltà palestinese cananea preesistente, come di due popolazioni separate da sempre, secondo quanto leggiamo nella Bibbia; più probabilmente, si ebbe, invece, una “emersione” di Israele dall’interno di Canaan.
Un altro mito biblico pare sia l’unità di Israele (sotto il regno di Davide e dei successori) narrata dalla Bibbia e la successiva scissione nei regni di Israele e di Giuda durata solo duecento anni (circa). Nella realtà, le popolazioni ebraiche rimasero divise fin dalle origini per un tempo molto più lungo, probabilmente a causa della differenza di condizioni ambientali tra l’ecosistema della Palestina nord (regno di Israele con capitale Sichem) e del sud (regno di Giuda, capitale Gerusalemme). Israele (nel nord), più popolata, ebbe uno sviluppo maggiore, più centrato sul commercio con le aree confinanti, tanto che in essa iniziò prima una forma di stratificazione sociale; mentre Giuda, con una popolazione rarefatta, rimase più simile ad una società agropastorale primitiva, divisa in clan (Finkelstein e Silberman 2001, pp. 172-173). Storicamente, i due regni erano in conflitto/competizione tra loro. Non stupisce quindi che la Bibbia, scritta da redattori appartenenti al regno di Giuda, sia particolarmente dura con i re di Israele: Gereboamo, Omri e Acab; quest’ultimo viene descritto come particolarmente efferato agli occhi di Dio:
Primo Libro dei Re (16, 29-33) “[29]Acab, figlio di Omri, divenne re d’Israele nell’anno trentottesimo di Asa, re di Giuda. Egli regnò su Israele in Samaria ventidue anni. [30]Acab, figlio di Omri, fece il male agli occhi del Signore più di tutti quelli che l’avevano preceduto. [31]Non gli bastò di imitare i peccati di Geroboamo, figlio di Nebat, ma si prese anche in moglie Gezabele, figlia di Et-Baal, re dei Sidoni, e si mise a servire Baal e ad adorarlo. [32]Innalzò un altare a Baal nel tempio di Baal, che egli aveva costruito in Samaria. [33]Acab eresse anche un palo sacro e con la sua condotta irritò il Signore, Dio d’Israele, più di tutti i re d’Israele che l’avevano preceduto”.
Dunque, la rivalità col regno di Giuda è, secondo Finkelstein e Silberman (2001, pp. 208-209 e 211), all’origine del pessimo trattamento biblico del regno di Israele. Secondo gli studiosi, i redattori di Giuda del testo biblico nel settimo secolo percepivano le robuste differenze culturali con quel regno del nord e con la sua dinastia degli Omridi. Ciò soprattutto per gli stretti rapporti di Israele (regno del nord) con gli altri popoli pagani, rafforzati anche da matrimoni misti. Per noi, è importante sottolineare sia l’atteggiamento biblico di rifiuto della commistione etnica in quanto – quasi automaticamente – commistione teologica sia, soprattutto, la condanna delle ingiustizie sociali aumentate in Israele con la moltiplicazione della ricchezza nel paese.
Non stupisce, allora, che i redattori della Bibbia abbiano rinvenuto un senso teologico negli eventi finali del regno di Israele. Interpretati come una serie di punizioni divine, la Bibbia narra prima di torbidi interni, di una guerra civile e poi dell’attacco degli Assiri (720 a.C.) al regno di Israele. Con la fine dell’ottavo secolo e la distruzione del regno di Israele, il regno di Giuda ebbe un notevole sviluppo, che vide la nascita di un movimento religioso rigorista, centrato sul recupero del culto esclusivo di Jahwe nel solo tempio di Gerusalemme. Ma, ben presto e di nuovo, si fecero largo culti estranei alla purezza religiosa, puntualmente puniti da Dio, secondo il testo biblico, col flagello di saccheggi e scorrerie:
Primo Libro dei Re (16, 21-26) “[21]Roboamo, figlio di Salomone, regnò in Giuda. Egli aveva quarantun anni quando divenne re e regnò diciassette anni in Gerusalemme, città che il Signore aveva eletto fra tutte le tribù d’Israele per porvi il suo nome. Sua madre, che era ammonita, si chiamava Naama. [22]Giuda fece ciò che è male agli occhi del Signore: essi provocarono la sua gelosia più che non avessero fatto i loro padri con tutti i peccati che avevano commesso. [23]Anch’essi si costruirono alture, stele e pali sacri su tutti i colli elevati e sotto tutti gli alberi frondosi. [24]Nel paese ci furono persino i prostituti sacri. In una parola, essi commisero tutte le abominazioni dei popoli che il Signore aveva scacciato davanti ai figli d’Israele. [25]Nell’anno quinto del re Roboamo, Sisach, re d’Egitto, salì contro Gerusalemme. [26]Prese i tesori del tempio del Signore e quelli del palazzo reale, portò via ogni cosa, persino gli scudi d’oro fatti da Salomone.”
Finkelstein e Silberman (p. 261) collocano in questo periodo il rinvigorimento della reazione contro tutte le forme di contaminazione con le religioni estranee, che poi erano “simbolo di una caotica diversità sociale”. Gli autori parlano di un “movimento per l’unicità di Jahwe” di rottura con la tradizione ebraica, che ebbe un ruolo crescente nel delineare la storiografia biblica. La redazione dei libri biblici dei Re e del Deuteronomio sarebbero l’espressione più diretta di questa corrente di nuova ortodossia. Dopo vicende alterne (compresa una nuova invasione assira), col regno di Giosia a Giuda, si ebbe la migliore espressione, secondo gli estensori della Bibbia, dell’ideale politico-sociale e soprattutto religioso dell’ebraismo:
Secondo Libro dei Re (23, 25) [25]Prima di Giosia non c’era stato un re simile a lui, che si fosse rivolto al Signore con tutto il suo cuore, con tutta la sua anima e con tutte le sue forze, secondo tutta la legge di Mosè; neppure dopo di lui ne sorse un altro simile.
Era successo che, secondo la narrazione biblica, era stato miracolosamente rinvenuto nel tempio di Gerusalemme un libro sacro di leggi a cui si era uniformato Giosia con una riforma religiosa nel senso rigorista che abbiamo appena visto.
Secondo Libro dei Re (22, 8-13) [8]Il sommo sacerdote Chelkia disse allo scriba Safan: «Nel tempio del Signore ho trovato il libro della legge». Chelkia diede il libro a Safan e questi lo lesse. [9]Allora lo scriba Safan andò dal re e gli riferì la cosa con queste parole: […][10][…] «Il sacerdote Chelkia mi ha dato un libro». Quindi Safan lo lesse alla presenza del re. [11]Udite le parole del libro della legge, il re si stracciò le vesti [12]e ordinò al sacerdote Chelkia, ad Achikam […]: [13]«Andate a consultare il Signore per me, per il popolo e per tutto Giuda intorno alle parole di questo libro che è stato trovato. Grande deve essere l’ira del Signore che si è accesa contro di noi, poiché i nostri padri non hanno ascoltato le parole di questo libro e non hanno agito in conformità a tutto quello che vi è scritto».
Si ritiene che il testo, non fosse altro che una prima versione del Deuteronomio. Il Deuteronomio dunque rappresenterebbe il testo base della riforma religiosa e sociale dell’epoca nella nazione ebraica unitaria ed è al centro della nostra argomentazione, in quanto è uno dei libri della Bibbia più chiari sui rapporti economico-sociali.
Dopo la grande speranza teologica e storica, dopo cioè questo ampio programma di riforme rigoriste che avrebbe dovuto riconciliare definitivamente Giuda con Dio, il disastro.
Nel 586 a.C. Gerusalemme e il Tempio vengono rasi al suolo dai babilonesi di Nabucodonosor. Inizia l’esilio. Il problema del senso storico-teologico di questa punizione divina ritorna prepotentemente e più cupamente nelle Scritture. Secondo i nostri Finkelstein e Silberman (pp. 318-19), la storia deuteronomica dovette essere riscritta dai successivi redattori della Bibbia (soprattutto ci furono rimaneggiamenti e aggiunte nel primo e nel secondo libro dei Re). A dispetto della virtù dei re come Giosia, Dio viene ora descritto come irato col popolo ebreo, per la sua fragilità etica e religiosa, della quale la distruzione di Gerusalemme era la punizione collettiva.
La sottomissione a Babilonia durò poco (relativamente), poiché quest’ultima cadde ad opera dei persiani di Ciro, il quale non fu ostile alla riedificazione di Gerusalemme e del Tempio. Lo stesso appoggio fu garantito dal suo successore: Dario. I personaggi centrali di questa ricostruzione di quello che definito l’Israele del Secondo Tempio furono Esdra e Neemia, due riformatori, dei quali parlano gli omonimi libri della Bibbia. Ambedue si mossero nella direzione del Deuteronomio, accentuando rigore etnico e sociale.
Esdra (10, 2-5) [2]Allora Secania, figlio di Iechiel, dei figli di Elam, prese a dire a Esdra: «Abbiamo peccato contro il nostro Dio, sposando donne straniere, prese dalle popolazioni locali. Tuttavia rimane ancora una speranza per Israele! [3]Suvvia, stringiamo un patto con il nostro Dio: rimanderemo tutte le donne straniere e i figli nati da esse, secondo il consiglio del mio signore Esdra e di quanti tremano davanti al comando del nostro Dio. Si farà secondo la legge! [4]Alzati, perché questo compito spetta a te. Noi saremo con te. Fatti coraggio e mettiti all’opera!». [5]Allora Esdra si alzò e fece giurare ai capi dei sacerdoti, dei leviti e di tutto Israele che avrebbero agito in questa maniera. Essi giurarono.
Neemia (5, 1-13) [1]Si levò un gran lamento da parte della gente del popolo e delle loro mogli contro i Giudei, loro fratelli. [2]C’era chi diceva: «Noi, i nostri figli e le nostre figlie siamo numerosi: ci venga dunque dato del grano per mangiare e vivere!». [3]C’era chi diceva: «Noi siamo costretti a ipotecare i nostri campi, le nostre vigne e le nostre case per acquistare grano durante la carestia!». [4]Altri ancora dicevano: «Abbiamo preso denaro in prestito per pagare i tributi del re. [5]Eppure la nostra carne è come la carne dei nostri fratelli e i nostri figli sono come i loro figli! Ecco, noi dobbiamo vendere come schiavi i nostri figli e le nostre figlie! Alcune delle nostre figlie sono state già ridotte in schiavitù e noi non abbiamo più nessuna possibilità, perché i nostri campi e le nostre vigne appartengono ad altri».[6]Quando udii il loro lamento e queste parole, mi indignai fortemente. [7]Dopo aver deliberato dentro di me, ripresi duramente i notabili e i magistrati, dicendo loro: «Dunque voi esercitate l’usura, ciascuno verso il suo fratello?». Convocai allora una grande assemblea contro di loro [8]e dissi: «Secondo le nostre possibilità, noi abbiamo riscattato i nostri fratelli Giudei, che erano stati venduti agli stranieri. Voi invece vendete i vostri fratelli, perché noi li riscattiamo?». Essi tacquero, non trovando parole. [9]Io esclamai: «Non è bene ciò che state facendo! Non dovreste piuttosto camminare nel timore del nostro Dio, per non essere scherniti dagli stranieri, nostri nemici? [10]Anch’io, i miei fratelli e i miei uomini abbiamo prestato loro denaro e grano. Ma condoniamo loro, vi prego, questo debito! [mia sottolineatura] [11]Restituite ad essi oggi stesso i loro campi, le vigne, gli uliveti, le case e il prestito del denaro del grano, del mosto e dell’olio che avete richiesto loro». [12]Essi risposero: «Restituiremo e non esigeremo più nulla da loro. Faremo come tu dici». Chiamai allora i sacerdoti e davanti a loro li feci giurare che avrebbero mantenuto questa promessa. [13]Poi scossi la piega anteriore del mio mantello ed esclamai: «Così scuota Dio dalla sua casa e dai suoi beni chiunque non manterrà questa promessa! Così egli venga scosso e svuotato!». Tutta l’assemblea gridò: «Amen!», glorificando il Signore. Il popolo mantenne quella promessa.
Delineati sommariamente questi schizzi storico-teologici, chiediamoci finalmente come fosse collettivista la società ebraica descritta dalla Bibbia.
3.3 Vie indiziarie per valutare i rapporti di produzione antichi
Purtroppo la risposta non è affatto facile: sono davvero poche le testimonianze su avvenimenti precisi, descrittori dei rapporti di produzione e della vita economica in generale. Dobbiamo sempre ricordare che la Bibbia prioritariamente è un testo al quale è stato assegnato il compito sociale fondativo di dare un senso teologico all’essere nel mondo e di costruire un conseguente e coerente assetto mentale. La Bibbia dunque “poteva permettersi” di non riportare i fatti con il dettaglio e la precisione che ci interessano. Non è stata scritta per questo fine prioritario (qui è il punto!).
In ogni caso, il testo biblico e diversi importanti indizi archeologici ci suggeriscono l’esistenza di una stratificazione proprietaria della ricchezza, con il suo corollario di conflitti sociali. Così, per esempio, riferisce il libro di Amos (6, 4-8 e 8, 4-6):
6 [4]Essi giacciono su letti d’avorio
e poltriscono sui loro divani,
mangiano agnelli del gregge e vitelli della stalla.
[5]Canterellano al suono dell’arpa
e, come Davide, inventano per sé strumenti di canto.
[6]Bevono nelle anfore il vino
e con il più fino degli unguenti si ungono,
ma non si preoccupano per il crollo di Giuseppe.
[7]Perciò andranno in esilio in testa ai deportati
e cesserà l’orgia dei dissoluti.
[8]Ha giurato il Signore Dio sulla sua stessa vita!
8 [4]Ascoltate, voi che calpestate il povero
fino a sterminare gli umili del paese,
[5]voi che dite: «Quando passerà la luna nuova,
per vendere il grano,
e il sabato, per smerciare il frumento,
diminuendo l’efa e ingrandendo il siclo
e falsificando le bilance per frodare,
[6]acquistando con denaro i miseri
e il povero per un paio di sandali?
Anche lo scarto del frumento venderemo».
Fortunatamente, abbiamo anche un’altra potente fonte indiziaria, nel nostro caso specifico, particolarmente efficace: lo studio della lingua. Da secoli, l’ebraico dell’Antico Testamento è puntigliosamente e assiduamente studiato per cercare di afferrare meglio e con più precisione il senso religioso di questo complesso libro sacro. Questo patrimonio di riflessioni torna utile anche per i nostri fini, tenendo in conto alcune considerazioni generali.
Ogni lingua umana ha una storia “conforme” alla storia delle forze produttive e dei rapporti di produzione della società che l’hanno generata e, per questo, ne è un potente specchio espressivo. La generazione/evoluzione delle parole riflette le necessità di designazioni, così che la nascita dei termini (e il loro oblio), il sorgere di distinguo verbali/concettuali rispecchiano il bisogno di padroneggiare, prima di tutto mentalmente e poi nella comunicazione, lo stato vigente dei modi di produrre e di distribuire/relazionarsi degli esseri umani[7]. Così – solo per fare un esempio – in un ipotetico futuro millenario, chi esplorerà la nostra lingua si accorgerà che l’uso del maschile e del femminile, nel volgere di (relativamente) pochi anni all’inizio del XXI secolo, è cambiato con un’estensione della presenza di sostantivi femminili. Se questo ipotetico studioso del lontano futuro, non avrà a disposizione molte altre fonti documentali, si sentirà autorizzato a concludere (correttamente) che, per esempio, la nascita della nuova parola: Rettrice – accanto all’antico termine Rettore: primo dirigente di un’università – sia un pesante indizio di un mutamento nella distribuzione dei ruoli sociali tra i generi e anche che i vissuti allargati sul potenziale sociale femminile siano cambiati favorevolmente negli anni 2000.
Ma c’è molto di più. Come ho avuto modo di precisare, la lingua non ha solo un contenuto informativo, nel senso che la parola x designa e significa questa o quell’altra cosa/azione … La lingua ha anche una valenza affettiva-emotiva e trasmette, richiama e “invita” a condividere stati d’animo. Nei paesi occidentali nel lontano passato, per esempio si usava estensivamente e con una ridotta carica affettiva/emotiva la parola negro per designare un africano di carnagione scura. Dopo le denunce e le lotte secolari contro il moderno schiavismo occidentale, per conquistare rapporti di produzione più egualitari, negro è oggi una parola “schiacciata” da una carica affettivo-emotiva negativa, tanto che c’è un rifiuto quasi fobico ad usarla, oppure, all’opposto, la si usa volutamente per comunicare un attacco aggressivo a sfondo razzistico. La sostituzione storica di negro con il più mite e neutro termine nero non avrebbe senso se la lingua servisse solo (attenzione a questo punto) a designare oggetti (e corsi di azione): nero e negro, dal ristretto punto di vista del campo semantico dei termini, sono, infatti, perfettamente uguali. Analogamente, l’accurata analisi della lingua della Bibbia ci può fornire un supporto indiziario (purtroppo mai una prova definitiva) in generale sulle forze produttive, sui rapporti di produzione e sui vissuti relativi della società che l’hanno generata e, in specifico, sui temi di nostro interesse.
3.4 La proprietà e la ricchezza
Per iniziare, approfondiamo il tema “strategico” della proprietà/possesso e della ricchezza, nella lingua dell’Antico Testamento. L’evoluzione dei termini ebraici può, infatti, essere considerato un indizio affidabile della molteplicità e del variare in profondità della produzione di ricchezza e delle relazioni sociali, economiche e politiche in Israele.
La proprietà e il possesso sono indicati nella Bibbia con diversi termini; ricostruire l’origine di alcune di queste parole, cioè le radici, dalle quali discendono per noi è – si diceva – centrale. C’è anzi tutto una designazione, vicina alla nostra, nel termine: segullā סְֻנלָּה che è proprietà, qualificata come proprietà privata personalmente acquisita, inviolabile e accuratamente custodita. Segullā è, nella Bibbia, forse quanto di più vicino ci sia al corrente significato di proprietà personale ed esclusiva, così aderente all’individuo che quasi concorre a definirne l’individualità. Questo “ponte” tra i millenni può, però, essere fasullo e non deve indurre a superficiali letture astoriche e attualizzate della Bibbia. Il termine è, infatti, usato anche a proposito di Dio, nel senso che Dio si forma un popolo – il popolo eletto – come una sua preziosa proprietà esclusiva. Questa qualificazione teologica ci fa intuire che il contesto storico e, in particolare, la commistione della sovrastruttura religiosa con l’ordinamento sociale non è stata priva di effetti sostanziali su essenza e vissuti della proprietà. Vediamo di capire meglio il non facile intrico.
Proprietà, possesso in ebraico sono anche espresse come derivazioni dalla radice: (´ḥz אחז) afferrare. Da ’ḥz deriva la parola ’aḥuzzā possesso, generalmente di terreni, territori, ma, si badi, anche di schiavi, acquisito con un’azione di forza e di rapina (Jenni e Westermann 1971, (1) – pp. 94-95), appunto in continuità e risonanza affettiva/emotiva con la sua radice ´ḥz. Leggiamo nel Deuteronomio (7. 1-8):
1]«Quando il Signore tuo Dio ti avrà introdotto nella terra dove sei diretto per prenderne possesso, cadranno innanzi a te molte nazioni: gli Hittiti, i Gergesei, gli Amorrei, i Cananei, i Perizziti, gli Evei, i Gebusei, sette nazioni più numerose e più forti di te. [2]Il Signore le metterà in tuo potere, tu le vincerai e le voterai allo sterminio. Non stringerai nessun patto con esse, né avrai misericordia di loro. [3]Con esse non contrarrai matrimonio: non darai tua figlia a un loro figlio, né prenderai una loro figlia per tuo figlio, [4]perché tuo figlio si allontanerebbe da me e servirebbe altri dèi, e l’ira del Signore si accenderebbe contro di voi e ben presto vi sterminerebbe. [5]Voi invece vi comporterete così: demolirete i loro altari, spezzerete le loro stele, taglierete i loro pali sacri e brucerete i loro idoli nel fuoco. [6]Perché tu sei un popolo santo per il Signore tuo Dio; il Signore tuo Dio ti ha scelto perché tu sia un popolo particolarmente suo fra tutti i popoli che sono sulla terra. [7]Non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli il Signore si è legato a voi e vi ha scelto – anzi voi siete il più piccolo di tutti i popoli –, [8]ma perché il Signore vi ama e perché ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri, il Signore vi ha fatti uscire con mano potente e vi ha liberati dalla condizione di schiavitù, dalla mano del Faraone, re d’Egitto.
In questi passi la proprietà/possesso è promessa al popolo eletto attraverso il meccanismo acquisitivo universale nella storia antica (e non solo!): l’impossessamento, violento fino al genocidio[8]:
Deuteronomio (7. 16): [16]Tu sterminerai tutti i popoli che il Signore tuo Dio sta per mettere nelle tue mani: il tuo occhio non avrà misericordia di loro, e non servire i loro dèi. Ciò sarebbe per te una trappola.
Deuteronomio (7. 22): [22]Il Signore tuo Dio caccerà dinanzi a te quelle nazioni, ma a poco a poco: tu non le potrai sterminare subito, perché le bestie selvagge non si moltiplichino a tuo danno; [23]ma il Signore le metterà in tuo potere ed esse saranno in preda a grande agitazione, finché non saranno distrutte.
Israele poteva, per intervento divino, ambire a dominare (rapinare) i popoli alla sua portata, o anche un po’ più forti, anche se certo non poteva nulla contro le super-potenze imperiali del saccheggio (Egitto, Balilonia, ecc.), strumenti irresistibili, invece, della collera di Dio.
Possiamo ragionevolmente attribuire l’abitudine ubiqua all’assalto dei popoli confinanti (e non) al terribile vincolo di lungo periodo rappresentato dal pericolo della fame, riconducibile alle scarse rese, proprie degli arretrati sistemi produttivi agrari del passato (Ferrari, 2016, capitolo 2). La fame, fino all’età moderna, ha sempre assediato l’umanità, plasmandone cultura e personalità e rendendo indispensabile fare della violenza rapinatrice una pratica normale di sopravvivenza e poi anche un valore (specificato come: gloria militare, valore militare, onore, ecc.). Quale miglior sistema, infatti, di affrontare le spaventose crisi alimentari (o il loro pericolo) col sequestro dei surplus delle popolazioni sottomesse/sterminate? I limiti della struttura produttiva hanno così portato ad esaltare la pratica della sopraffazione, così che il complesso dei valori connessi hanno predisposto i singoli e le popolazioni alla pratica della rapina, finanche oltre gli stati di effettiva necessità.
Per altro, noi sappiamo dalla Bibbia che il popolo ebreo non era stato affatto immune dalla fame e da tutte le sue terribili implicazioni. A riguardo non è tempo perso tornare a leggere Neemia (5, 1-5)
[1]Si levò un gran lamento da parte della gente del popolo e delle loro mogli contro i Giudei, loro fratelli. [2]C’era chi diceva: «Noi, i nostri figli e le nostre figlie siamo numerosi: ci venga dunque dato del grano per mangiare e vivere!». [3]C’era chi diceva: «Noi siamo costretti a ipotecare i nostri campi, le nostre vigne e le nostre case per acquistare grano durante la carestia!». [4]Altri ancora dicevano: «Abbiamo preso denaro in prestito per pagare i tributi del re. [5]Eppure la nostra carne è come la carne dei nostri fratelli e i nostri figli sono come i loro figli! Ecco, noi dobbiamo vendere come schiavi i nostri figli e le nostre figlie! Alcune delle nostre figlie sono state già ridotte in schiavitù e noi non abbiamo più nessuna possibilità, perché i nostri campi e le nostre vigne appartengono ad altri.[9]
Il popolo ebreo, proprio in quanto autorizzato da Dio alla pratica del saccheggio, aveva – come sempre è accaduto nella storia – un’acuta necessità di contrappesi che arginassero la tendenza della pratica e del gusto/culto della violenza a debordare anche all’interno della stessa comunità di Israele. Se questa visione del problema è corretta, allora non stupisce e diventa comprensibile la poderosa compensazione teologica all’appropriazione arbitraria. Tornando ad ’aḥuzzā possesso, Jenni e Westermann (1971, (1) – p. 95) così aggiungono e precisano:
“Il nome assume un significato traslato quando si stabilisce che i leviti [tribù di Israele che aveva il compito specifico del culto] non devono avere alcuna proprietà terriera, poiché Jahwe è la loro «proprietà terriera»
(si veda: Ezechiele 44, 28)”
La proprietà e il possesso dei beni erano interpretati anzi tutto come una concessione trasmessa a Israele da Dio, che è il vero e unico “proprietario” di tutto e dunque come una condizione fortemente attenuata nella disponibilità dei beni. Qui abbiamo la prima e potente rappresentazione teologica del collettivismo biblico. In Israele nessuno era proprietario assoluto ed esclusivo di nulla, poiché tutto promana da Dio:
Levitico (25, 23-24) [23]Non venderete la terra per sempre, perdendone ogni diritto, perché la terra è mia e voi siete forestieri e ospiti presso di me [mia sottolineatura]. [24]Per ogni terreno in vostro possesso lascerete perciò una possibilità di riscatto.
Dio, proprio per questo, assoggetta tutti alle regole del corretto uso dei beni. Lo chiarisce bene l’esame della radice: ereditare (jrš, ירשׁ).
Jrš significa: entrare in possesso, prevalentemente di terreni o di un territorio, evidentemente come trasmissione del loro uso. Significa, inoltre e non a caso, scacciare, espellere dal possesso (i popoli refaim, gli hurriti, gli amenorrei…)[10]. In un caso, la radice riguarda anche gli schiavi
Levitico (25, 44-45) [44]Lo schiavo e la schiava di tua proprietà li potrete prendere dai popoli che abitano intorno a voi; da loro potrete acquistare schiavi e schiave. [45]Potrete anche comprarne tra i figli degli stranieri che abitano presso di voi, tra le loro famiglie che si trovano presso di voi e tra i loro figli nati nella vostra terra; saranno vostra proprietà)[11].
Dobbiamo anche prestare attenzione alla radice: ereditare, (nḥl, בחל), che, coniugata al causativo, assume il senso di mettere qualcuno in possesso.
Il possesso ereditario – naḥala – della terra ricevuta (appunto dalla radice nḥl בחל) come possesso da Dio è una sua concessione: Jahwe è il datore e garante della naḥala di Israele da parte degli ebrei. Ma c’è anche un altro uso assai interessante per noi: Israele come naḥala di Jahwe (si veda Jenni e Westermann 1975, (2) – pp. 51, 54, 118), che è coerente con l’uso appena visto di segullā e che lo qualifica in profondità.
Le radici nḥl בחל e jrš, ירשׁ secondo (Jenni e Westermann 1975, (1) – p. 675) hanno superato l’ambito ristretto della terminologia successoria per indicare il possesso terriero (anche come preda bellica).
Dunque la proprietà è un “dono” di Dio all’uomo, il quale deve, però, rispettare le condizioni d’uso che il “vero proprietario” ha stabilito. Coerentemente, anche le parole che indicano la ricchezza e i beni riflettono, nella loro spiegazione teologica, la pressante necessità di regolare l’uso dei beni e di disinnescare l’”istinto” predatorio, all’interno della comunità. Di nuovo seguiamo la pista delle radici.
Partiamo dalla radice: essere pesante e anche valere, in senso positivo (kbd, כבז). Dal verbo, tra le derivazioni nominali, si ha: kābōd ricchezza e “stima”, ricompensa abbondante, nobiltà, ricchezza e onore
I Re (3, 10-13) [3]Salomone amava il Signore e nella sua condotta seguiva le disposizioni di Davide suo padre; […] [5]A Gabaon il Signore apparve di notte in sogno a Salomone e gli disse: «Chiedimi ciò che vuoi che io ti conceda». [6]Salomone rispose: «[…] [7]Ora, Signore mio Dio, tu hai fatto re il tuo servo al posto di Davide mio padre, ma io sono un ragazzo, non so come comportarmi. […] [9]Concedi dunque al tuo servo un cuore che sappia giudicare il tuo popolo, in modo da distinguere il bene dal male; altrimenti chi potrà mai governare questo tuo popolo così numeroso?» [10]Piacque al Signore che Salomone avesse fatto questa richiesta. [11]Dio perciò gli disse: «Poiché tu hai domandato questa cosa e non hai domandato per te una lunga vita, né le ricchezze, né la morte dei tuoi nemici, ma hai domandato per te intelligenza per ben discernere il diritto, [12]ecco, io faccio secondo la tua parola: ti dono un cuore saggio e perspicace come non ci fu prima di te, né uguale sorgerà dopo di te. [13]Anzi io ti dono pure quanto non hai chiesto, cioè ricchezze e onore, così che tra i re non ci sia mai alcuno uguale a te.[12]
La stessa concezione della ricchezza come elargizione di Dio per meriti e virtù si trova nei seguenti passi:
1 Cronache (1, 12) [12]Da te vengono la ricchezza e la gloria; tu domini tutto; nella tua mano sono la potenza e la forza; dalla tua mano ogni grandezza e potere.
1 Cronache (29, 26-28) [26]Davide, figlio di Iesse, aveva regnato su tutto Israele. [27]La durata del suo regno su Israele era stata di quarant’anni: in Ebron regnò sette anni e in Gerusalemme trentatré. [28]Morì in felice vecchiaia, sazio di giorni, di ricchezza e di gloria
2 Cronache (17, 5) [5]Il Signore consolidò il regno nelle mani di Giosafat e tutto Giuda gli portava offerte, così che egli ebbe ricchezza e gloria in abbondanza.[13]
È importante osservare che i termini ricchezza e onore siano avvicinati nella lingua ebraica per indicare una qualità positiva della ricchezza. Gli studiosi dell’ebraico Jenni e Westermann notano:
“Non è certo casuale che questa coppia compaia per la prima volta all’inizio della monarchia essa testimonia una trasformazione sociale resa possibile dalla monarchia: sorge un gruppo di famiglie più ricche e la stima di cui gode tale gruppo più ricco viene ora designata come “onore” […] A questo onore aristocratico è legato anche il fatto che il potente onora colui che lo riconosce come tale [Daniele 11, 39]” (Jenni e Westermann 1971, (1) – p. 692).
Gli autori dunque sembrano riferirsi alla nascita di un’aristocrazia ebraica che legittima se stessa per meriti teologici ed elevatezza etica.
Ma la lingua “tradisce” e ben riflette la complessità contraddittoria della società ebraica antica, almeno se si tiene per buono un altro modo di designare la ricchezza. Si presti, infatti, attenzione alla radice di iniquità (´ấwӕn אָוֶן), che, appunto, deriva da ´wn: essere forte, pesante. Iniquità, cioè, come forza nefasta. Il termine è vocalizzato in ´ōn: forza, ricchezza, almeno in un caso in senso sicuramente negativo:
Osea (12, 9) [9]Efraim dice: «Come mi sono arricchito!
Mi sono fatto una fortuna!».
Ma di tutti i suoi vantaggi niente rimarrà
per il peccato che ha commesso.
La ricchezza nella Bibbia è sì dono benevolo e premiante di Dio, ma anche un male ingannevole, come vedremo tra poco, per il quale si possono commettere gravi colpe.
Possiamo aggiungere un ulteriore importante tassello alla spiegazione se ci volgiamo verso il contrario della ricchezza.
I modi di designare il povero rimandano a due radici: essere misero (‘nh, ענה) e volere (‘bh, אבח). Dalla radice ‘bh deriva povero (’œbjōn, אֶבְיו֗ן), nel senso di voler avere, ovvero di essere privo di (Jenni e Westermann 1975, (1) – p. 17 e 20):
“Colui che è socialmente debole ha nell’antico Oriente un rapporto speciale con la divinità. […] Di qui si può capire come il povero abbia ricevuto nell’Antico Testamento una connotazione religiosa. Nelle forme letterarie che hanno la loro radice nel culto (soprattutto nei canti di lamento e di ringraziamento) l’orante si presenta davanti a Jahwe come povero, bisognoso. Egli deve confessare la sua inferiorità al Dio potente e giusto […]. Con una tale confessione però il povero fa valere nello stesso tempo un diritto sicuro: fra i doveri del potente, e quindi anche di Dio […] Vi è quello di usare misericordia verso il misero. La ricchezza è sempre un dono che viene concesso; l’uomo nella sua condizione normale è povero e senza protezione […]; l’Antico Testamento vive della consapevolezza che Jahwe vuol bene proprio al misero. La fede in Jahwe che misura l’altezza e la bassezza e, sconvolgendo le classifiche umane, innalza il povero, ha trovato in Samuele 2,1 la sua espressione classica.” (Jenni e Westermann 1971, (1) – p. 21).
È utile leggere il cantico di Anna dal Primo libro di Samuele (2,10):
[1]Anna pregò e disse:
«Il mio cuore esulta nel Signore,
la mia fronte si eleva al Signore.
Si apre la mia bocca contro i miei nemici,
poiché gioisco per la tua salvezza.
[2]Non vi è santo come il Signore,
poiché non vi è altri all’infuori di te,
né vi è rupe come il nostro Dio.
[3]Non parlate più a lungo con aria superba,
non esca parola arrogante dalla vostra bocca,
perché il Signore è un Dio sapiente
e le sue opere sono rette.
[4]L’arco dei prodi è spezzato,
mentre i deboli si cingono di forza.
[5]I sazi vanno al lavoro per il pane,
mentre gli affamati si riposano.
Perfino la sterile genera sette volte,
mentre la madre di molti figli appassisce.
[6]Il Signore dà la morte e dà la vita,
fa scendere agli inferi e risalire.
[7]Il Signore rende poveri e rende ricchi,
umilia, ma anche esalta;
[8]solleva dalla polvere il misero,
innalza il povero dalle immondizie,
per farli sedere con i prìncipi
e assegnare loro un trono di gloria:
perché del Signore sono
le colonne della terra,
e su di esse fa posare il mondo.
[9]Egli veglia sui passi dei suoi fedeli,
mentre i malvagi svaniscono nelle tenebre.
Certo, non prevarrà l’uomo
malgrado la sua forza.
[10]Gli avversari del Signore saranno stroncati.
L’Altissimo tuonerà dal cielo;
il Signore giudicherà i confini della terra;
darà potenza al suo re
e innalzerà la fronte del suo consacrato».
3.5 I principi e le pratiche di difesa dalla fame e di ripristino dell’uguaglianza
Jenni e Westermann aggiungono:
“In parecchi testi religiosi del periodo intertestamentario il povero acquista un’importanza ancora maggiore, anche per via di una stratificazione progressiva della società. In particolare la comunità di Qumram guarda con sospetto alla proprietà privata e considera la povertà e la bassezza come una condizione preliminare della vita spirituale. L’atteggiamento positivo nei riguardi della povertà prosegue nel Nuovo Testamento (discorso della montagna, Luca, Paolo)” (Jenni e Westermann 1971, (1) – p. 22).
Il potente freno all’esercizio indiscriminato del controllo dei beni che porta all’accumulazione/concentrazione delle ricchezze conduce ad una serie di norme che ritroveremo non solo nelle legislazioni e negli usi di epoca medioevale, ma anche ben dentro l’età moderna, come si è visto nel caso del diritto di legnatico avversato nella Germania ottocentesca di Marx (e di suo padre).
Torniamo a Jenni e Westermann.
Le vedove, gli orfani hanno una particolare protezione da Jahwe:
“In un secondo gruppo di testi giuridici del Deuteronomio, che regolano il diritto dei poveri e dei diseredati, alle vedove (e ai leviti/forestieri/orfani) sono riservati alcuni vantaggi: durante i raccolti possono spigolare (Deuteronomio 24, 19-21)…” (Jenni e Westermann 1971, (1) – p. 150).
Così la società ebraica, prima nell’Esodo e poi nel Levitico e nel Deuteronomio, si dà norme molto pratiche di tutela del debole …
Esodo (23, 10) [10]Per sei anni seminerai la tua terra e raccoglierai il suo prodotto, [11]ma al settimo non la coltiverai e la lascerai riposare: ne mangeranno i poveri del tuo popolo e le bestie selvatiche mangeranno ciò che resta; così farai per la tua vigna e per il tuo olivo.
Levitico (23, 22) [22]Quando farete la mietitura della vostra terra, non mieterete fino ai margini del campo e non raccoglierete le spighe rimaste nella mietitura. Le lascerai per il povero e per il forestiero. Io sono il Signore Dio vostro.
Deuteronomio (23, 25-26) [25]Quando entrerai nella vigna del tuo prossimo, potrai mangiare uva secondo il tuo appetito, a sazietà; ma non ne potrai mettere nel tuo paniere. [26]Quando entrerai nelle messi del tuo prossimo potrai coglierne spighe con la mano, ma non potrai mettere la falce nelle messi del tuo prossimo.
Deuteronomio (24, 17-22) [19]Quando raccogli la messe nel tuo campo e dimentichi qualche covone, non tornare indietro a prenderlo: sarà per il forestiero, per l’orfano e per la vedova, perché il Signore tuo Dio ti benedica in ogni lavoro delle tue mani. [20]Quando abbacchi i tuoi ulivi, non raccogliere ciò che resta sui rami: sarà per il forestiero, per l’orfano e per la vedova. [21]Quando vendemmi la tua vigna, non tornare indietro a racimolare: quanto resta sarà per il forestiero, per l’orfano e per la vedova. [22]Ricordati che sei stato schiavo in Egitto; perciò ti ordino di fare questa cosa.
L’anno sabbatico di cui parla Esodo (23, 10) – il settimo di ogni settennio, sulla base della scansione ciclica del tempo sociale ebraico: la settimana, il settennio, il giubileo (di sette settenni) – è una istituzione antica (Cholewinski 1984, p. 160). Il principio normativo del Levitico (poi integrato e riformato dal Deuteronomio) è che nel settimo anno i padroni dei campi lascino riposare i terreni (sistema a maggese), che produrranno comunque – si potrebbe dire, per “inerzia vegetativa”. Questo prodotto “spontaneo” non può essere destinato all’arricchimento dei proprietari, ma appartiene in esclusiva a Jahwe, che lo dona ai diseredati. La stessa cosa vale per l’utilizzo delle decime[14] che, con cadenza in questo caso triennale, dovevano soccorrere i poveri protetti da Jahwe:
Deuteronomio (14, 28-29) [28]Al termine di ogni terzo anno prenderai tutte le decime dei tuoi prodotti e le deporrai alle porte delle tue città: [29]verranno il levita, che non ha né parte né eredità con te, il forestiero, l’orfano e la vedova che vivono nelle tue città, ne mangeranno e si sazieranno. Così il Signore tuo Dio ti benedirà in ogni opera a cui avrai messo mano.
Le stesse specifiche norme bibliche contro la fame, definite “la prima legge sulla povertà” (Cohen 1908, p. 791), ma più probabilmente nate ancor prima presso gli altri popoli del Medio Oriente, sopravviveranno (praticamente identiche), fino alla dolorosa e controversa affermazione della moderna proprietà privata esclusivista, come si è accennato e si vedrà nella seconda parte di questo scritto. In un certo senso, la Bibbia può anche essere considerata un modello di assegnazione delle terre su base egualitaria, secondo le necessità e non attraverso il mercato.
Numeri (26, 52-56) [52]Il Signore disse a Mosè: [53]«Fra tutti questi ripartirai la terra in eredità, secondo il numero delle persone. [54]A chi è grande aumenterai la parte di proprietà e a chi è piccolo la diminuirai: a ciascuno sarà data la parte di proprietà in base al numero dei censiti. [55]La ripartizione della terra avverrà a sorte: ne riceveranno la proprietà secondo i nomi delle loro tribù paterne. [56]La ripartizione della proprietà avverrà a sorte, sia per le tribù grandi sia per le piccole[15].
Jenni e Westermann, a proposito, riferiscono che, secondo certe interpretazioni, ogni sette anni si aveva una nuova assegnazione per sorteggio. In realtà, come vedremo, in seguito, ben poco sappiamo su quanto le norme fossero davvero rispettate. Rimane comunque il fatto che una parte certo rilevante della società si ritrovasse, nel profondo, in esse. Altre importanti norme del Deuteronomio sono state la risposta a fenomeni di grave perturbazione classista.
Deuteronomio (24, 14-15) [ 14]Non defrauderai il salariato povero e bisognoso, né tra i tuoi fratelli né tra i forestieri che si trovano nella tua terra, nelle tue città. [15]Ogni giorno gli darai il suo salario, prima che tramonti il sole, perché egli è povero e lo desidera ardentemente; così egli non griderà contro di te al Signore e tu sarai senza peccato.
Inoltre, una società, come quella ebraica, che ammetteva la riduzione in schiavitù di altri popoli, si poneva il grave problema del dilagare dello schiavismo all’interno della stessa Israele.
Levitico (25, 39-43) [39]Se il tuo fratello si trova in difficoltà nei tuoi riguardi e si vende a te, non gli farai fare un lavoro da schiavo; [40]vivrà presso di te come un bracciante o un ospite. Fino all’anno del giubileo lavorerà con te; [41]poi ti lascerà insieme con i suoi figli, tornerà alla sua famiglia e riprenderà quanto possedevano i suoi padri. [42]Perché essi sono miei servi, che io ho fatto uscire dalla terra d’Egitto; non possono essere venduti come schiavi. [43]Non lo tratterai con durezza, ma temi il tuo Dio.
Nel Deuteronomio la norma è abbastanza diversa, come osserva Cholewinski (1984, p. 163) in quanto la liberazione non avviene più nelle canoniche date liberatorie collettive, ma dopo un settennio calcolato dal momento – variabile nelle diverse situazioni – di auto consegna del debitore come schiavo del creditore:
Deuteronomio (15, 12-15) [12]Se un tuo fratello ebreo o una ebrea si vende a te, ti servirà per sei anni; ma al settimo anno lo manderai via da te libero. [13]Quando lo manderai via da te libero, non rimandarlo a mani vuote, [14]ma caricalo di doni del tuo gregge, della tua aia e del tuo torchio; nella misura in cui il Signore tuo Dio ha benedetto te, tu darai a lui. [15]Ricordati che tu sei stato schiavo nella terra d’Egitto e che il Signore tuo Dio ti ha liberato; perciò oggi io ti dò questo comando.
La Bibbia stabilisce norme pratiche precise di ripristino di una forma di uguaglianza di fondo. Così l’anno sabbatico è una misura di soppressione delle disuguaglianze e degli spossessamenti che la dinamica economica tende invariabilmente ad alimentare.
Levitico (25, 23-28) [23]Non venderete la terra per sempre, perdendone ogni diritto, perché la terra è mia e voi siete forestieri e ospiti presso di me. [24]Per ogni terreno in vostro possesso lascerete perciò una possibilità di riscatto. [25]Se un tuo fratello si trova in difficoltà e vende una parte dei suoi possedimenti, venga il suo parente più prossimo a esercitare il diritto di riscatto su quanto egli è stato costretto a vendere. [26]Chi non ha un parente prossimo, se riesce a procurarsi da sé la somma necessaria per il riscatto, [27]conterà gli anni trascorsi dalla vendita, restituirà al compratore il denaro che gli è dovuto e così potrà rientrare in possesso dei suoi beni. [28]Se non riuscirà ad avere mezzi sufficienti per la restituzione, il bene venduto resti nelle mani di chi l’ha comprato fino all’anno del giubileo: nell’anno del giubileo il compratore uscirà e l’altro rientrerà in possesso del suo patrimonio.
Norme abbastanza simili erano previste in caso di alienazione della casa (Levitico 25, 29-31).
L’anno sabbatico (settimo anno) e il giubileo (49° anno, che diventa 50° anno per il particolare modo ebraico di contare gli anni[16]) erano momenti previsti dalla legge per riequilibrare le storture economico-sociali, prevalentemente consistenti nella vendita del patrimonio e/o della propria libertà personale per debiti.
Levitico (25, 13-19) [13]Nell’anno del giubileo, poi, ciascuno tornerà in possesso dei suoi beni. [14]Se venderai qualcosa al tuo prossimo o se comprerai qualcosa da lui, non danneggiatevi l’un l’altro. [15]Comprerai dal tuo prossimo stabilendo il prezzo in base al numero degli anni trascorsi dall’ultimo giubileo; a sua volta egli venderà a te stabilendo il prezzo in base agli anni di rendita. [16]Più sarà grande il numero degli anni da trascorrere prima del giubileo e più aumenterai il prezzo; più piccolo sarà il numero degli anni e più ridurrai il prezzo, perché egli ti vende la somma dei suoi raccolti. [17]Nessuno, perciò, defraudi il suo prossimo: temete il vostro Dio, perché io sono il Signore vostro Dio. [18]Osservate le mie leggi e obbedite ai miei precetti, metteteli in pratica e risiederete tranquilli nel paese. [19]La terra darà i suoi frutti e voi ne mangerete a sazietà e risiederete tranquillamente in essa.
Il tema del giubileo è un affollato campo di battaglia e di discussione tra i biblisti, soprattutto per quanto si riferisce, come già accennato, alla sua reale ed effettiva applicazione pratica nella storia economico-sociale di Israele. La maggioranza degli studiosi lo ritiene un’istituzione astratta, perché regolata da una norma inapplicabile (per interferenze ingestibili con l’anno sabbatico) e comunque inapplicata: un ideale vagheggiato, una pura aspirazione degli estensori rigoristi dei testi biblici, carica di suggestioni teologiche. Un’aspirazione idealizzata dei tempi, o un “ideale codificato”, secondo la definizione riportata da Cholewinski, che si è poi tradotta in un’aggiunta tardiva al testo biblico. A sostegno dell’irrilevanza pratica del giubileo l’osservazione che nella Bibbia e in altre fonti autorevoli (Filone, Giuseppe Flavio) non si trovano riferimenti, o anche solo cenni, ad applicazioni pratiche del giubileo. Rimane, però, non scartata l’ipotesi che gli estensori del testo biblico abbiano raccolto e sistematizzato norme pratiche e consuetudini non scritte preesistenti, secondo le quali … “la proprietà terriera, appartenente alla famiglia è irrinunciabile” (Cholewinski 1984, p. 170)[17]. Depone a favore di un certo collegamento con pratiche collettivistiche reali anche l’assenza di genericità, per così dire, “poetiche” e l’accuratezza tecnica con la quale la norma è stata codificata (secondo la tradizione sacerdotale). Il che fa pensare a una descrizione di prassi redistributive concrete, osservabili da parte dei redattori del testo biblico, o, delle quali, si era mantenuta una recente e vivida memoria.
Al momento, non si può dire molto di più.
3.6 La questione della fratellanza
Rimane, però, indiscutibile che alla base di queste prescrizioni, ci sia stata una forte idea/aspirazione all’uguaglianza sostanziale degli uomini nella società, che riflettesse l’uguaglianza di fronte a Dio. Questa idea si sostanzia nel concetto di fratellanza: ˊaḥwah
(fratello ˊāḥ אָח). Jenni e Westermann così descrivono i significati di questo termine:
“Gli usi di questa parola che hanno un rilievo teologico [mia sottolineatura] non sono legati al significato ristretto «fratello carnale», con le sue implicazioni nel campo del diritto familiare, ma a un significato più generico «membro, socio (di una comunità)», oppure all’uso metaforico della parola.” (1971, (1) – p. 88)
E citando altri studiosi così aggiungono:
“«Il popolo è la famiglia ingrandita che forma unità. L’uso di fratello per esprimere un elemento costitutivo dell’idea di popolo vuol creare anche un livellamento: i fratelli stanno sullo stesso piano, hanno uguali doveri e sono responsabili l’uno dell’altro» (Bächli 123).
L’idea di fratellanza degli israeliti sotto un unico padre […] è senz’altro presente in Malachia 2,10, ma non ha una terminologia precisa fissa…” (Jenni e Westermann 1971, (1) – pp. 89-90)
Malachia (2, 10) [10]Non abbiamo forse tutti noi un solo padre? Non ci ha creati un unico Dio? Perché dunque ci tradiamo l’un l’altro, profanando l’alleanza dei nostri padri?
La fratellanza è il cemento della comunità ebraica che espelle l’indifferenza o, peggio, l’aggressività predatoria nefasta intragruppo e scinde nettamente le sfere dell’agire collettivistico: entro Israele deve prevalere l’uguaglianza pacifica e solidale; fuori l’imperfezione degli ebrei può portare a corsi d’azione omologabili a quelli delle popolazioni “perse” nel paganesimo.
La fratellanza, che trattiene dallo schiavizzare “chi si vende a te”, cioè chi viene “punito” dal mercato con l’insolvenza per debiti, sta alla base di una norma del Deuteronomio assolutamente centrale per tutta la storia millenaria occidentale seguente e, soprattutto, per la storia del capitalismo:
Deuteronomio (23,20) [20]Non esigerai alcun interesse da tuo fratello: né per prestiti di denaro, né per prestiti di viveri, né per qualsiasi cosa che si presta a interesse. [21]Dallo straniero potrai esigere un interesse, ma non dal tuo fratello, perché il Signore tuo Dio ti benedica in ogni cosa a cui metterai mano nel paese che stai per conquistare.
Questa norma, secondo l’estensore del Deuteronomio[18], non può essere considerata isolatamente, ma si deve sempre avvicinare alle seguenti:
Deuteronomio (15,1-5) [1]«Al termine di ogni sette anni celebrerai l’anno della remissione [mia sottolineatura]. [2]Queste sono le norme che riguardano la remissione: ogni creditore rimetta quanto ha prestato al suo prossimo; non lo riscuota dal suo prossimo né dal suo fratello, quando sia proclamato l’anno della remissione per il Signore. [3]Tu potrai esigere il tuo credito dallo straniero, ma al tuo fratello condonerai quanto deve nei tuoi confronti.
[4]Del resto non vi sarà presso di te alcun povero, poiché il Signore certo ti benedirà nella terra che il Signore tuo Dio ti dona in eredità come tuo possesso, [5]purché tu obbedisca fedelmente alla voce del Signore tuo Dio, osservando e praticando tutti gli ordini che oggi ti dò.
E ancora …
Deuteronomio (15,7-11) [7]Se vi sarà presso di te qualche tuo fratello povero, in una delle città del paese che il Signore tuo Dio ti dona, non indurirai il tuo cuore e non chiuderai la tua mano al tuo fratello povero, [8]ma gli aprirai la mano, gli presterai generosamente quanto gli manca, per il bisogno in cui si trova. [9]Bada che non ci sia nel tuo cuore questo perverso calcolo: È vicino il settimo anno, l’anno della remissione, così da rendere l’occhio tuo cattivo verso il tuo fratello povero e non dargli nulla; egli griderebbe al Signore contro di te e su di te graverebbe un peccato. [10]Dà, invece, generosamente a lui e il tuo cuore non si rattristi mentre gli dai il tuo dono; perché proprio per questo il Signore tuo Dio ti benedirà in ogni tua opera e in ogni cosa a cui avrai messo mano. [11]Poiché non mancheranno mai nel paese i poveri, io ti prescrivo: Apri generosamente la mano al tuo fratello povero e bisognoso nella tua terra.
Questo sistema di prescrizioni, con le sue norme collegate va considerata un architrave del collettivismo biblico. La fratellanza biblica impone entro Israele di non vessare e sfruttare economicamente il fratello (compresi gli stranieri residenti); anzi, impone il soccorso con prestiti senza interessi, mentre dà via libera alla pratica del profitto finanziario all’esterno. La norma è importantissima perché, con la crescita economica, si va affermando il credito (allora designato sempre spregiativamente come: usura) e cioè il lato monetario dell’economia. Il termine usato per indicare l’interesse è: neshèk[19], mentre il verbo corrispondente nasàk: mordere e, in senso figurato, vessare che lascia pochi dubbi su quali fossero i vissuti profondi e l’atteggiamento diffuso verso il credito. Questa condanna è molto diffusa in tutto l’Antico Testamento[20]. Essa riflette molto probabilmente la crescita del modo di produzione del tempo verso un’economia non più di sola sussistenza, verso una prima forma di economia monetaria.
In generale, già nella Bibbia la moneta e il denaro vengono visti come un subdolo e ingannevole “pericolo” per la fratellanza, forse ancor maggiore della rapina violenta:
Ecclesiaste (Qohèlet) (5, 9-10) [9]Chi ama il denaro, mai di denaro è sazio; e chi è attaccato alle ricchezze, non ne ha mai a sufficienza. Anche questo è vanità. [10]Quando le ricchezze aumentano, crescono anche quelli che le divorano, e che vantaggio ne ha il proprietario se non quello di sapere di essere ricco?
In Ebraico, secondo Ellul [1969], la parola keseph כְסֶף – che sta ad indicare indifferentemente denaro ed argento – è strettamente imparentata al verbo difettivo kasaph [ksp], una parola rara[21] che può significare: desiderare, con una sfumatura di nostalgia e disillusione, come a dire: languire per qualcosa. Se questo collegamento è corretto, la stessa lingua ebraica designerebbe il denaro richiamando un preciso atteggiamento verso di esso, ben descritto nell’Ecclesiaste: Chi ama il denaro, mai di denaro è sazio; e chi è attaccato alle ricchezze, non ne ha mai a sufficienza. Anche questo è vanità. In ogni caso, fin dall’inizio della tradizione ebraico-cristiana il denaro si percepisce come potenza profondamente radicata nell’uomo, ma a lui contrapposta come un falso fine, mai veramente appagante. Nel Nuovo Testamento questa interpretazione diventa molto più incisiva nel termine Mammona[22], che, come un soggetto che rende l’uomo schiavo, esercita un vero e proprio potere spirituale e psicologico sulla coscienza. Ellul sottolinea l’eccezionalità di questa personificazione allo stesso rango di Dio:
Matteo (6, 24) [24]«Nessuno può servire a due padroni; poiché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e trascurerà l’altro. Non potete servire a Dio e a mammona»
Gesù non è affatto solito fare questo genere di deificazioni. Per altro, anche in ambiente non ebraico si è manifestata un’analoga “contrapposizione” tra la potenza del denaro e il sacro. Anche Aristofane, quattro secoli prima di Cristo, nel Pluto contrappone tutti gli dei alla ricchezza personificata.
Alla luce di quanto esposto ritengo sufficientemente dimostrato che i temi della biforcazione bene si adattino alle controverse vicende della storia antica dei popoli di Israele. Lo studio di questa storia ci consente, in più, un surplus unico di chiavi interpretative per i temi della biforcazione nella storia pre-capitalistica occidentale successiva, come già incidentalmente accennato.
Fine prima parte
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Marx K. (1842) “Dibattiti sulla legge contro i furti di legna”, trad. it. sta in Marx K. “Opere Lotta politica e conquista del potere”, Newtono Cimpton editori, Roma, 1975, pp. 46-73.
Marx K. (1859) “Zur Kritik der politischen Ökonomie”, trad. it. “Per la Critica dell’Economia Politica”, Editori Riuniti, Roma, 1969.
Marx K. (1867) “Das Kapital. Kritik der politischen Oekonomie“, trad. it. “Il Capitale. Libro primo. Il processo di produzione del capitale”, (volume primo di 4), Editori Riuniti, Roma 1980.
Marx K. (1939), “Lineamenti Fondamentali di Critica dell’Economia Politica (Grundrisse)”, 2 voll., (Vari manoscritti iniziati a partire dal 1850), Einaudi, Torino 1976.
Marx K. e Engels F. (1882) “Prefazione”, all’edizione russa del Manifesto del Partito Comunista, trad. it. sta in: Marx K. e Engels F. “Manifesto del Partito Comunista”, Einaudi, Torino, 1998, pp. 104-105
Marx K. e Engels F. (1950) “Opere XXXIX. Lettere 1852-1855”, vol. 39, Editori Riuniti, Roma, 1972.
Marx K. e Engels F. (1971) “Lettere sul Capitale”, [a cura di G. Bedeschi], Laterza, Bari.
Mosse G. L. (1974) “The Nationalization of the Masses, Political Symbolism and Mass Movements in Germany from Napoleonic Wars through the Third Reich”, trad. it. “La nazionalizzazione delle masse”, il Mulino, Bologna, 2009.
Musto M. (2018) “Karl Marx Biografia intellettuale e politica. 1857-1883”, Einaudi, Torino.
Sidoli R., Leoni M., e Burgio D. (2012) “Ratzinger o Fra Dolcino L’effetto di sdoppiamento nella religione occidentale”, Editrice Aurora, Milano.
Togliatti P., Cantimori D., Donini A., Luporini C., Manacorda G., Natoli A., Pesenti A. e Platone F. (curatori) (1951) “Carteggio Marx-Engels”, in sei volumi, Edizioni Rinascita, Roma, vol. V.
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[1] Scrive Marx: “Se ogni offesa alla proprietà, senza distinzione, senza una più precisa specificazione è furto, non sarebbe furto ogni proprietà privata? Con la mia proprietà privata non escludo tutti gli altri da questa proprietà?” (Marx 1842, p. 49) e ancora “I selvaggi di Cuba ritenevano che l’oro fosse il feticcio degli spagnoli. Lo festeggiarono con cerimonie e canti e poi lo gettarono a mare. Se i selvaggi di Cuba avessero assistito alla seduta degli ordini provinciali renani, non avrebbero forse pensato che il legno sia il feticcio dei renani?” (Marx 1842, p. 73). [2] Mosse (1974) ricorda, tra l’altro, che furono i nazisti a recuperare tra i loro valori fondativi quelli – ovviamente riadattati e stravolti – delle rivolte contadine del ‘500, sulle quali ha scritto Engels.Kershaw (1991) riferisce di una ricerca condotta su più di 700 aderenti al partito nazional-socialista, dalla quale emerge che la maggioranza delle motivazioni nell’adesione al nazismo (31,7%) andava ricondotta a “l’auspicio della creazione di una comunità nazionale pacificata e solidaristica” (p. 66).
[3] Nella stessa lettera, con molta chiarezza, sostiene che le varie esperienze locali devono essere studiate come singolarità, cosicché non si arriverà mai alla loro comprensione “… con il grimaldello di una teoria storico-filosofica generale, la cui suprema virtù consiste nell’essere sopra-storica.” (p. 158). [4] Segnalo doverosamente al lettore il decisivo aiuto nella stesura di questa parte di un teologo e biblista, che non ha ritenuto così necessario “esporsi” ai commenti elogiativi dei lettori. Ringrazio per il paziente e illuminante sostegno; resta inteso che tutte le eventuali inesattezze, sviste o lacune sono da imputarsi esclusivamente al mio sforzo di appropriarmi dei suggerimenti ricevuti e di tradurli in questo testo. [5] È di questo periodo la nascita della convinzione nell’ebraismo della resurrezione. [6] “Il ferrigno anticomunista Palacio (1937) ricorda che, tra il ´400 e il ´600, teologi come De Soto (1494-1560), Covarrubias (1512-1577), Suarez (1548-1617), idealizzassero una proprietà comunistica originaria, degenerata poi in proprietà individuale per la caduta dovuta al peccato. L’esercizio della proprietà comune per il Billart (1685-1757) presuppone eccezionali qualità di moralità/temperanza presenti solo nei conventi e per De Vitoria (1485?-1546) talvolta, neanche in questi.” (Ferrari 2016, p. 497n). [7] Anche le stesse strutture morfologiche, ortografiche e sintattiche talvolta sono influenzate in modo similare. [8] “«La Storia insegna come i conflitti costituiscano il miglior mezzo per sopravvivere, sfamare le popolazioni […] La necessità costringe dunque a battersi per accaparrarsi qualcosa.» (Rachline …).«… nella Grecia e nella Roma antiche, la guerra ed il saccheggio corrispondevano, come mezzi per acquistare la ricchezza, alla produzione industriale dei popoli moderni, mentre la spartizione tra i capi e i loro subordinati, a quella che oggi si fa tra la classe dirigente e la popolazione operaia.» (Pareto …). Il tributo del popolo sottomesso non era diverso dalla rapina di tutti i beni una tantum, costituendone solo una variante nei tempi di accaparramento. All’estremo opposto, ma nella stessa logica, è la proposta di un generale di Gengis Kahn – respinta solo perché diseconomica – che prevedeva il genocidio dei cinesi appena sottomessi e la conversione dei loro campi in pascoli per il bestiame mongolo (Ardant …)” Queste citazioni sono tratte da Ferrari 2016, p. 78.
[9] Si veda anche: Geremia (34, 17) [17]Perciò, così dice il Signore: Voi non mi avete ascoltato proclamando ciascuno la liberazione del proprio fratello e del proprio prossimo; ebbene, io ordino che contro di voi, oracolo del Signore, sia concessa libertà alla spada, alla peste e alla fame e vi consegnerò alla derisione presso tutti i regni della terra; Deuteronomio (8, 2-3) [2]Ricorda il cammino che ti ha fatto compiere il Signore tuo Dio in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti, per provarti, per conoscere ciò che c’era nel tuo cuore, se tu avresti osservato o no i suoi precetti. [3]Ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, ti ha fatto mangiare la manna, che tu non conoscevi né conoscevano i tuoi padri; (28, 47-48) [47]Siccome in mezzo all’abbondanza di ogni cosa non hai servito il Signore tuo Dio con gioia e letizia di cuore, [48]servirai i nemici che il Signore manderà contro di te in mezzo alla fame, alla sete, alla nudità e nella privazione di ogni cosa; Secondo libro di Samuele (17, 28) [28]portarono letti, anfore, utensili di terracotta, frumento, orzo, farina, grano abbrustolito, fave e lenticchie, [29]miele, burro, pecore e formaggio di vacca a Davide e alla gente che era con lui, perché mangiassero. Infatti essi avevano detto: «Questa gente deve aver patito fame, stanchezza e sete nel deserto (24, 13): [13]Gad entrò da Davide e l’informò dicendogli: «Vuoi che vengano tre anni di fame nel tuo paese, o tre mesi di fuga davanti al tuo avversario che ti insegue o tre giorni di peste nel tuo paese?; Secondo libro dei Re (8, 1) 1]Eliseo disse alla donna a cui aveva risuscitato il figlio: «Alzati e parti con la tua famiglia e va’ ad abitare dove credi meglio, perché il Signore ha chiamato la fame, che durerà nel paese per sette anni»; Giobbe (5, 20) [20]In tempo di fame ti scamperà dalla morte… [10] Cohen (1908) mostra come, nella mentalità generale e giuridica in particolare, il principio dell’esclusione dello straniero dalla proprietà dei terreni della nazione sia rimasto a lungo in Occidente. Così nella Gran Bretagna moderna, fino alla promulgazione del Naturalisation Act del 1870, agli stranieri era vietato affittare o acquistare terreni britannici. [11] Shakespeare usa il verbo to inherit – ereditare, per indicare il possesso, sotto l’influsso probabile della versione inglese della Bibbia (Cohen 1934-35). [12] La stessa narrazione si trova in 2 Cronache (1, 11). [13] Altre citazioni interessanti si trovano: 2 Cronache (18,1), (32, 27); Proverbi (3, 16), (8, 18); Ecclesiaste (Qohèlet) (6, 2).[14] Le decime avevano un significato religioso e un valore celebrativo: Deuteronomio (14, 22-26) [22]Prenderai la decima di ogni prodotto della tua semente che il campo produce ogni anno. [23]Mangerai al cospetto del Signore tuo Dio, nel luogo che egli avrà scelto come sede del suo nome, la decima del tuo frumento, del tuo mosto, del tuo olio, i primogeniti del tuo bestiame grosso e minuto, perché tu impari a temere sempre il Signore tuo Dio. […] Mangerai davanti al Signore tuo Dio e ti rallegrerai tu e la tua famiglia. [15] Si vedano anche: Numeri (33, 54) (34, 13) (36, 2) (Giosuè 14, 2). I più volte citati Jenni e Westermann, sostengono che l’assegnazione veniva risorteggiata ogni sette anni. [16] Cholewinski 1984, p. 165. [17] Cholewinski (1984, p. 171) annota anche l’interpretazione secondo la quale il giubileo, con la sua lunga periodizzazione (49/50 anni), sia una norma tagliata sulle esigenze di ripristino delle proprietà di un popolo che prevede di uscire dall’esilio. [18] Si veda anche : Esodo (22, 24) [24]Se tu presti denaro a qualcuno del mio popolo, al povero che è con te, non ti comporterai con lui da usuraio: non gli imporrete alcun interesse; Levitico (25, 35-38) [35]Se il tuo fratello si trova in difficoltà ed è inadempiente con te, aiutalo: egli vivrà con te come ospite e forestiero. [36]Non prenderai da lui denaro per interesse o profitto, ma temi il tuo Dio e fa’ vivere il tuo fratello presso di te. [37]Non gli presterai il tuo denaro per ricavarne interesse, né gli darai il tuo cibo a usura. [38]Io sono il Signore Dio vostro, che vi ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, per darvi la terra di Canaan, per essere il vostro Dio. [19] Oltre a neshèk si può trovare: tarbìt. [20] Si veda, oltre al già considerato Neemia (5, 6-13) anche: Deuteronomio (23, 20); Levitico (25, 36-38); Proverbi (28, 8); Ezechiele (18, 13) (18, 17) e (22, 12); Abacuc (2, 6-8). [21] In effetti il termine kasaph, come tale, non esiste nella Bibbia: si trovano solo alcune forme coniugate che derivano da questa radice. In Giobbe (14, 15) e nel Salmo (17, 12) si trova una terza persona maschile che si traduce: desiderò. Un’altra occorrenza si può trovare in Sofonia. Nel significato di languire per desiderio si trova in Genesi (31, 30) riferito a Giacobbe [30]Certo, tu te ne sei andato perché avevi una grande nostalgia della casa di tuo padre… [22] Questa parola, esistente solo nel Nuovo Testamento, richiama il termine aramaico, mamon, in greco: mamonas, derivata dalla radice aman, la stessa di amen e indica il denaro, ricchezza, ma nel senso di ricchezza ingiusta, guadagnata con mezzi illeciti.