L’esplosivo del Sismi. Le mezze banconote. Il covo del terzo uomo. Nuovi elementi rivelano le complicità di Stato. I familiari delle vittime: «Ancora oggi esiste un pezzo delle istituzioni che rema contro la verità»
di Paolo Biondani e Giovanni Tizian
Strage di Stato. È la definizione-shock che fu coniata, in origine, per piazza Fontana: la prima bomba nera, quella del 12 dicembre 1969 a Milano (17 morti). Significa che pezzi dello Stato sono stati complici degli stragisti. È la più tragica anomalia italiana. Il terrorismo colpisce in tutto il mondo, ma nei Paesi civili è contro lo Stato, che unisce le sue forze per combatterlo. In alcune nazioni, invece, è dentro lo Stato. Per anni la tesi della strage di Stato fu liquidata come “un’invenzione della sinistra”. Oggi è il marchio ufficiale del terrorismo di destra italiano, confermato già da quattro sentenze definitive. Ignorate o dimenticate. Anche se raccontano gli anni più neri della nostra democrazia. E offrono una chiave che potrebbe aprire l’armadio dei misteri anche delle stragi mafiose. Strategia della tensione. Dal passato al presente. Da Milano a Bologna. Da Palermo a Roma.
Per la bomba che nel 1969, l’anno delle lotte operaie e studentesche, devastò una banca di Milano precipitando l’Italia nel terrorismo politico, sono stati condannati in tutti i gradi di giudizio, per favoreggiamento, due ufficiali dei servizi segreti militari (l’allora Sid): il generale Gianadelio Maletti e il capitano Antonio La Bruna. Entrambi affiliati alla loggia massonica P2. Invece di aiutare la giustizia, distruggevano le prove e facevano scappare all’estero i ricercati per terrorismo, con documenti falsi e soldi dello Stato. Per l’eccidio in piazza della Loggia a Brescia (28 maggio 1974, otto morti e 102 feriti) è stato dichiarato colpevole anche dalla Cassazione, nel giugno 2017, dopo decenni di depistaggi, un neofascista che era a libro paga dello stesso Sid, Maurizio Tramonte: un confidente nero che avvisò della bomba, ma i servizi non fecero nulla e poi bruciarono i verbali.
Anche per la strage di Peteano (31 maggio 1972, tre carabinieri dilaniati da un’autobomba) le indagini e i processi di Venezia hanno comprovato depistaggi gravissimi, orditi da altri ufficiali dei servizi, tutti militari, come le vittime. E poi c’è Bologna, la bomba del 2 agosto 1980 alla stazione dei treni, che ha ucciso 85 innocenti. Per questo attentato, il più sanguinario, c’è un processo in corso contro un terrorista di destra accusato di essere il quarto complice, dopo i tre stragisti già condannati. E c’è una nuova indagine, ancora aperta, sui mandanti occulti. L’Espresso ha recuperato tutte le sentenze e altri documenti, finora inediti, che disegnano la stessa trama nera: strage di Stato. Anche a Bologna.
Le linguette delle bombe a mano
Valerio Fioravanti è un terrorista di destra condannato in via definitiva come esecutore materiale dell’attentato alla stazione. La giustizia al suo massimo livello (Cassazione a sezioni unite) ha confermato che fu lui, con la sua complice e convivente Francesca Mambro, a portare il micidiale ordigno in stazione. Dopo l’arresto nel 1981, i due killer neri hanno confessato dieci omicidi. Ma per la strage si sono sempre proclamati innocenti. In un processo separato, altri giudici hanno riconfermato la loro colpevolezza condannando un terzo terrorista dei loro Nuclei armati rivoluzionari (Nar), Francesco Ciavardini, 17enne all’epoca della strage. Dopo l’arresto, nel tentativo di sminuire la gravità degli indizi, Fioravanti dichiarò che lui e la Mambro erano «vittime dei servizi». Ma le sentenze certificano il contrario: furono protetti dal Sismi (l’ex Sid). Dopo la carneficina di Bologna, con una serie di depistaggi esplosivi. Ma anche all’inizio della carriera criminale. Come se fossero sempre stati creature dei servizi.
Francesca Mambro e Giuseppe Valerio Fioravanti
Vito Zincani, il giudice istruttore della maxi-inchiesta sulla strage, ricorda bene le vecchie carte ora ritrovate da L’Espresso: «Fioravanti aveva rubato un’intera cassa di bombe a mano, modello Srcm, quando faceva il servizio militare a Pordenone. Era stato ammesso alla scuola ufficiali quando risultava già denunciato e implicato in gravi reati. Per capire come avesse fatto, abbiamo acquisito i suoi fascicoli. E negli archivi della divisione Ariete abbiamo trovato un documento dell’Ufficio I, cioè dei servizi militari: indicava proprio Fioravanti e Alessandro Alibrandi come responsabili del furto delle Srcm. Quelle bombe sono state poi utilizzate per commettere numerosi attentati. Sono fatti accertati, mai smentiti. Le Srcm hanno una linguetta metallica, con impresso un codice che identifica la partita. E noi abbiamo trovato le linguette, staccate dai terroristi, nei luoghi degli attentati. Quindi erano proprio quelle rubate da Fioravanti e Alibrandi. I servizi lo sapevano da anni. Ma non dissero niente ai magistrati che indagavano su quelle bombe».
Alessandro Alibrandi è un terrorista nero che fu ucciso in una sparatoria con la polizia nel 1981. È stato uno dei fondatori dei Nar con lo stesso Fioravanti e con Massimo Carminati, arrestato di nuovo nel 2014 come presunto capo di mafia Capitale, ma già condannato negli anni Ottanta come armiere della Banda della Magliana. Tra Nar e Magliana era nata un’alleanza criminale, cementata da un arsenale misto di armi ed esplosivi. Il patto tra terroristi neri e big della delinquenza romana permise di allacciare rapporti con boss di Cosa nostra, riciclatori di denaro sporco, complici piduisti e servizi segreti.
Le mille lire spezzate
L’imputato del nuovo processo di Bologna, Gilberto Cavallini, è al centro di un caso ancora più inquietante. Il mistero di una banconota spezzata. Il 12 settembre 1983 i carabinieri perquisiscono a Milano un covo di Cavallini. Tra le sue cose, elencate nel rapporto, il reperto numero 2/25 è una stranezza: una mezza banconota da mille lire, con il numero di serie che termina con la cifra 63. All’epoca nessuno vi diede peso. Oggi, tra migliaia di atti ufficiali dell’organizzazione Gladio, la famosa rete militare segreta anticomunista, spuntano foto di banconote da mille lire, tagliate a metà, e fogli protocollati che spiegano a cosa servivano: erano il segnale da utilizzare per accedere agli arsenali, per prelevare armi o esplosivi, in particolare, dalle caserme in Friuli. Su una foto si legge il numero di una mezza banconota: le ultime due cifre sono 63. Le stesse delle mille lire spezzate di Cavallini. A Bologna oggi emerge che pure un altro terrorista nero, legato a Cavallini, custodiva una banconota tagliata, questa volta da centomila lire, scoperta durante il suo arresto. «Su queste coincidenze bisogna riflettere», ha commentato in udienza il presidente della corte d’assise, il giudice Michele Leoni. I legali di parte civile hanno già chiesto di acquisire quelle carte di Gladio.
Per la strage di carabinieri a Peteano, le indagini del pm veneziano Felice Casson hanno già dimostrato (come si legge nella sentenza d’appello diventata definitiva) che il particolarissimo innesco dell’autobomba era uscito da un arsenale friulano di Gladio. Fu proprio quell’inchiesta a svelare l’esistenza dell’organizzazione segreta militari-civili, che il governo Andreotti presentò, nel 1990, come una struttura della Nato, destinata ad attivarsi solo in caso di invasione sovietica. In realtà quel deposito di Gladio, il cosiddetto “Nasco 203”, come ricorda oggi Casson, «fu trovato aperto: mancavano proprio due accenditori a strappo, registrati ma spariti, identici all’innesco di Peteano». Segno che, sotto l’ombrello di Gladio, operavano nuclei ristretti non militari, segretissimi, autorizzati a usare l’arsenale di Stato. Per finalità opposte alla difesa della patria.
I servizi manovrati dalla P2 hanno sicuramente usato esplosivo di Stato per inquinare le indagini di Bologna. I vertici del Sismi iniziano a depistare subito dopo la strage, inventando una lunga serie di false «piste internazionali», prima di sinistra, poi di destra, ma contro i nemici dei Nar. Il 13 gennaio 1981 i depistaggi raggiungono l’apice: il Sismi fa ritrovare, sul treno Taranto-Milano, una valigia con un mitra, un fucile a canne mozze e otto contenitori con due tipi di esplosivi, identici alla miscela utilizzata per la strage di Bologna. Nella valigia ci sono passaporti e biglietti aerei intestati a due inesistenti terroristi stranieri. Con un’inchiesta da manuale, i magistrati dimostrano che è un’altra montatura del Sismi: l’ennesima «pista estera», costruita per salvare Fioravanti e i suoi complici. Il processo si chiude con la condanna definitiva del generale Pietro Musumeci, del colonnello Giuseppe Belmonte e del faccendiere dei servizi Francesco Pazienza.
Due mesi dopo, il 17 marzo 1981, i magistrati di Milano, indagando su tutt’altro (il finto sequestro del banchiere Michele Sindona, organizzato da Cosa nostra) scoprono le liste degli affiliati alla P2: ci sono tutti i vertici dei servizi segreti, compresi Musumeci e il capo, il generale Santovito (morto prima del processo). Lo stesso Licio Gelli, da anni grande burattinaio dei servizi, viene condannato come regista del maxi-depistaggio di Bologna: un indizio decisivo è la scoperta che ha incontrato personalmente il capocentro di Roma del Sisde, il servizio segreto civile, e gli ha ordinato di smettere di indagare sui terroristi di destra per concentrarsi sulla (falsa) «pista internazionale». Una deviazione prontamente eseguita dal funzionario piduista. Nonostante le condanne definitive, alcuni politici della destra di oggi continuano a pubblicizzare fantomatiche «piste estere».
Finora si pensava che i capi del Sismi fedeli a Gelli, con la valigia sul treno, avessero potuto duplicare l’esplosivo della strage grazie a una soffiata, una fuga di notizie sugli accertamenti, ancora segreti, dei periti giudiziari. Ma l’origine della bomba resta un mistero: non si è mai saputo chi fornì il composto militare (T4) che moltiplicò la potenza dell’ordigno. Ora il caso delle mezze banconote solleva un interrogativo spaventoso: i servizi sapevano tutto dell’esplosivo perché erano stati loro a procurarlo? Nella strage di Bologna anche la bomba ha il marchio di Stato?
Di certo i legami con i servizi riguardano intere cordate di terroristi di destra. Fioravanti, nella gerarchia nera, è subentrato a Giuseppe Dimitri, arrestato nel 1979: nel suo covo furono sequestrate armi e 20 chili di esplosivo. E nell’agenda Dimitri aveva il numero riservato di Musumeci.
Sergio Picciafuoco è un ex delinquente comune, reclutato nei Nar, che rimase ferito nella strage di Bologna, facendosi curare sotto nome falso. Sospettato di essere il basista, è stato assolto. Anche lui ha beneficiato di coperture straordinarie. Prima della strage viene fermato dai carabinieri in Alto Adige: è latitante da anni, viaggia su un’auto rubata e ha un documento vistosamente falso. Eppure viene lasciato libero, come scoprono i magistrati di Bologna. E continua a girare l’Italia con lo stesso documento in teoria “bruciato”. Viene arrestato solo nell’aprile 1981, mentre rientra dall’Austria con un falso passaporto molto particolare: ha lo stesso numero del vero documento di Riccardo Brugia, un altro terrorista dei Nar; e fa parte di un pacchetto di sette documenti falsificati con lo stesso metodo. Brugia è stato riarrestato nel 2014 come braccio destro di Carminati in mafia Capitale. Era il presunto responsabile del reparto estorsioni e pestaggi. La grande criminalità che ha spadroneggiato impunita per anni a Roma, secondo l’accusa, nasce dall’eredità nera dei Nar. Ed è cresciuta grazie alle complicità create negli anni del terrorismo.
Nel nuovo processo di Bologna, ha dovuto testimoniare anche Luigi Ciavardini, il terzo condannato per la strage. E ha finito per confermare un fatto mai emerso prima: a Treviso, nei giorni della strage, i Nar non disponevano solo dell’appartamento dove viveva Cavallini, sotto falso nome. C’era un secondo covo, rimasto segreto. In aula, davanti alla corte, Ciavardini non ha difficoltà a ripercorrere le tappe della sua fuga da Roma dopo l’assalto armato al liceo Giulio Cesare, con l’assassinio dell’agente Francesco Evangelista e la sparatoria in cui restò ferito al volto, diventando riconoscibile. Così arrivò a Treviso, via Milano, per raggiungere Cavallini, che però non poteva ospitarlo. Di qui il rifugio segreto. Le parti civili gli chiedono l’indirizzo e chi lo ha ospitato. Ciavardini non risponde. Il presidente lo rassicura: qualunque ipotetica accusa per i suoi fiancheggiatori è ormai cancellata dalla prescrizione. Ciavardini ha ormai scontato la pena, è libero, per la giustizia non rischia nulla. Eppure lo stragista si trincera ancora nel silenzio. Perché tanto mistero? Le parti civili indagano ancora e hanno un’idea precisa: quel covo era vicino a una caserma e fu procurato dai servizi. Personaggi ancora in grado di impaurire un ex terrorista.
Nell’atto d’accusa finale sulla strage di Bologna, il giudice Vito Zincani ha riassunto così i risultati della maxi-istruttoria, che portò a inquisire, con accuse diverse, decine di terroristi neri: «Non c’è alcuna delle persone coinvolte nelle indagini che non risulti collegata ai servizi segreti».
Il documento “Bologna” e i soldi segreti
Licio Gelli è morto nel 2015, senza aver scontato neppure un giorno di carcere per il depistaggio ordito dopo la strage di Bologna. A suo carico, oggi, emergono nuovi fatti, su cui indaga la Procura generale. Tutto parte dal crack del Banco Ambrosiano. Il capo della P2 è stato condannato come responsabile e primo beneficiario della colossale bancarotta dell’istituto di Roberto Calvi (il banchiere ucciso nel 1982 a Londra). Sui conti svizzeri di Gelli sono stati sequestrati oltre 300 milioni di dollari, usciti dalle casse dell’Ambrosiano. Tra le sue carte dell’epoca ora emerge un documento classificato come «piano di distribuzione di somme di denaro»: svariati milioni di dollari usciti dalla Svizzera proprio nel periodo della strage e dei depistaggi, tra luglio 1980 e febbraio 1981. Il documento ha questa intestazione: «Bologna – 525779 XS». Numero e sigla corrispondono a un conto svizzero di Gelli con il tesoro rubato all’Ambrosiano. Altre note, scritte di pugno da Gelli, riguardano pacchi di contanti da portare in Italia: solo nel mese che precede la strage, almeno quattro milioni di dollari.
La commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2, presieduta da Tina Anselmi, ha concluso che Gelli, già nei primi anni Settanta, aveva finanziato «gruppi terroristici toscani di ispirazione neofascista o neonazista», compresi i responsabili dei «primi attentati ferroviari». Ora si tratta di capire se il capo della P2, oltre a depistare, possa aver finanziato anche gli stragisti di Bologna.
Paolo Bolognesi è il presidente dell’associazione dei familiari delle vittime del 2 agosto 1980. «A 38 anni dalla strage non conosciamo ancora i mandanti, ma sappiamo molte verità. Milano, Brescia, Bologna, le bombe sui treni, non sono attentati scollegati: sono stragi inserite in una più ampia strategia della tensione. Con mani esterne che hanno sempre lavorato contro la verità». L’associazione ha presentato i due esposti che hanno portato al processo contro Cavallini e alle nuove indagini sui mandanti. Bolognesi ha acquisito nuovi elementi anche come parlamentare della commissione Moro, nella scorsa legislatura: «Paolo Inzerilli, già capo di Gladio, ha ammesso che esisteva una “Gladio nera”, formata da ex fascisti e militari. Quindi abbiamo chiesto al ministero di fornirci gli elenchi di questi “nuclei neri”, ma il dirigente si è opposto con la scusa della privacy. Vista la reticenza, la commissione ha chiesto ai vertici dell’Aise, l’attuale servizio segreto militare, che ci ha mandato un plico di 600 pagine, ma senza alcun nome. Carta straccia, insomma. A questo punto ho chiesto alla commissione di indagare per depistaggio. E la procura di Roma ci ha chiesto gli atti e ha aperto un fascicolo. Questo dimostra che esiste ancora un pezzo delle nostre istituzioni che rema in direzione contraria alla verità».
Tra i pochi che conoscono i segreti del terrorismo nero c’è Roberto Fiore, oggi leader di Forza nuova, che verrà sentito come testimone nel processo a Cavallini, con l’obbligo di dire la verità. Fiore fu condannato per banda armata come capo di Terza Posizione, l’incubatore dei Nar. Il 4 agosto 1980, due giorni dopo la strage, era a Castelfranco Veneto, dove accolse Ciavardini, che lo chiamava «capo». In giugno era in Sicilia, a casa di Francesco Mangiameli, assassinato da Fioravanti e Mambro perché aveva parlato della strage ad Amos Spiazzi, un ex colonnello dei servizi. La Cassazione nella sentenza definitiva scrive che Fioravanti e Mambro, dopo la strage, volevano uccidere anche Fiore: anche lui sapeva troppo?
Poco prima della bomba, il 23 giugno 1980, l’attuale imputato Cavallini e il condannato Ciavardini avevano ammazzato, a Roma, il giudice Mario Amato. Come Vittorio Occorsio, ucciso quattro anni prima da Pierluigi Concutelli. Il giudice stava indagando sull’intreccio criminale fra terroristi di destra, banda della Magliana, servizi e loggia P2, che fu smascherata proprio dai due magistrati assassinati. Nel 1993, interrogato a Bologna, lo stesso Fioravanti, nel proclamarsi innocente, se ne uscì con una frase memorabile: «Siamo cresciuti col dubbio se le stragi siano opera di uno dei servizi infiltrato nell’estrema destra o se era uno di destra che tentava di infiltrarsi nei servizi». Luigi Ilardo, il boss di Cosa nostra che fu ucciso quando stava per pentirsi, confidò ai carabinieri che la mafia seguiva la stessa trama nera: «Per capire le stragi del 1992 e 1993 bisogna guardare agli anni della strategia della tensione. Cosa nostra le ha eseguite, ma quelle stragi sono state decise con settori deviati delle istituzioni, massoneria e servizi segreti». Di certo, anche nelle indagini sulla morte di Paolo Borsellino e della scorta, non sono mancati i depistaggi di Stato.