Non è questione di dietrologia e complotti. Sono i documenti a parlare. E i documenti mostrano che non erano solo le Brigate rosse a vedere in Aldo Moro un nemico. E’ il filo conduttore del libro di Giovanni Fasanella Il puzzle Moro (Chiarelettere, 368 pagine, 17,60 euro), basato su testimonianze e documenti inglesi e americani oggi desecretati. Negli anni Sessanta e Settanta Londra, Washington, Parigi e Berlino temono innanzitutto che in Italia il Partito comunista italiano più forte d’Europa possa andare al potere, sia pur legittimamente attraverso il voto, sconfiggendo una Dc minata da scandali e clientele. E neppure gradiscono le aperture del nostro Paese verso il mondo arabo, Libia e Palestina incluse. Moro era il volto che meglio incarnava questi pericoli, come dimostra il brano tratto dal libro che pubblichiamo di seguito per gentile concessione di Chiarelettere.

 

Questo non significa che le potenze straniere siano state partecipi del sequestro e dell’assassinio del presidente della Democrazia cristiana, avvenuti quarant’anni fa a Roma. Ma, scrive Fasanella, i brigatisti sono rimasti ancora oggi “convinti di essere stati il motore esclusivo di avvenimenti che sono invece più grandi di loro”, pur non ammettere il loro ruolo da “utili idioti”. Lasciati fare, in quei 55 giorni, in nome di altri interessi. E se l’ultima commissione parlamentare d’inchiesta ha concluso che quella accumulata finora dai processi è solo “la verità dicibile”, i documenti desecretati illuminano quella indicibile: “Ciò che non si poteva dire”, scrive ancora l’autore, “era che l’assassinio di Moro fu un vero e proprio atto di guerra contro l’Italia anche da parte di Stati amici e alleati, un attacco alla sovranità di una nazione e alle sue libertà politiche portato da interessi stranieri con la complicità di quinte colonne interne”. Ecco un estratto dal libro.

 

Il «direttorio politico» dei «Quattro», nato su iniziativa americana per decidere che fare per risolvere una volta per tutte il caso italiano, si riunì la prima volta a Helsinki il 31 luglio 1975. Subito dopo le elezioni amministrative che, in giugno, avevano decretato un clamoroso successo del Pci e una secca sconfitta della Dc, travolta da scandali a ripetizione. Nella capitale finlandese era in corso la conferenza sulla sicurezza europea. E in quell’occasione, i rappresentanti di Usa, Gran Bretagna, Francia e Germania approfittarono di una pausa per appartarsi e discutere lontani da occhi indiscreti. Si videro a pranzo nella sede dell’ambasciata inglese. Ma senza alcun risultato utile. Tutti erano d’accordo sui rischi che avrebbe corso l’Alleanza atlantica nel caso in cui il Pci si fosse avvicinato al governo. Tutti pensavano che si dovesse fare qualcosa. Ma quando cominciarono a esaminare le varie opzioni, la discussione si arenò. Prevalse un atteggiamento di prudenza fra gli europei, ancora molto «sensibili riguardo alla macchia di un’ingerenza così vicino a casa», come emerge dai documenti americani pubblicati dalla storica Lucrezia Cominelli. Così, l’unica decisione presa fu quella di tornare a incontrarsi un paio di mesi dopo, a New York.

L’appuntamento negli Usa fu fissato per il 5 settembre 1975. E anche quella volta i «Quattro» si videro nella sede diplomatica britannica. C’erano, oltre a Kissinger, i ministri degli Esteri inglese, James Callaghan, francese, Jean Sauvagnargues, e tedesco, Hans-Dietrich Genscher. In quel secondo incontro, le rispettive posizioni cominciarono a delinearsi con più chiarezza.
Il padrone di casa, Callaghan, prospettò un quadro drammatico della situazione. L’intera Europa meridionale rischiava di finire sotto l’influenza comunista, disse. Ma non per colpa dell’Urss, che «non sembra avere tutta questa fretta di aggiudicarsi altri costosi clienti», si affrettò a precisare. Anzi, secondo lui il Cremlino avrebbe accettato «una dottrina Brežnev rovesciata», in base alla quale l’Alleanza atlantica era autorizzata a intervenire con la mano pesante in un paese a rischio del proprio campo; così come il Patto di Varsavia aveva fatto in Cecoslovacchia in base al principio della «sovranità limitata» teorizzato da Leonid Brežnev per i satelliti dell’Urss. In ogni caso, per il ministro degli Esteri inglese, era necessario escogitare qualcosa che fosse «a metà strada fra metodi per noi ripugnanti e la necessità di scoraggiare l’influenza sovietica». Insomma, anche se dal Cremlino non arrivavano incoraggiamenti al Pci, un intervento era comunque necessario per frenare eventuali, future tentazioni.

 

Per Callaghan la situazione italiana era tale da non giustificare ulteriori esitazioni. Durante l’estate aveva incontrato Rumor (trasferitosi alla Farnesina dopo che Moro ne aveva preso il posto a Palazzo Chigi) e dal colloquio ne era uscito con l’impressione che non ci fosse niente, fra i metodi democratici, che potesse «fermare la presa del potere da parte dei comunisti». E allora, come impedirlo? Il ministro britannico non si sbilanciò. Probabilmente voleva che fossero gli altri a scoprirsi, per capire fino a che punto fossero disposti a spingersi. Sul tavolo, una delle opzioni per bloccare l’avanzata comunista era costringere la Dc a rinnovare la propria classe dirigente, troppo chiacchierata per la sua disinvolta gestione del potere. Ma Kissinger non nutriva molte speranze in proposito: «Mi sento bloccato, non ho alcuna idea brillante per riformare la Dc» disse. «Ci vorrebbe un partito che spazzasse via tutta la spazzatura» commentò Callaghan con un moto di sconforto. Una radicale riforma morale della Democrazia cristiana, ai «Quattro» doveva sembrare un’impresa davvero titanica, che richiedeva troppo tempo. Ma il tempo a disposizione si stava paurosamente consumando. E quell’opzione, benché auspicabile, non era certo la più efficace per una situazione che si era trasformata ormai in un’emergenza internazionale. (…)

L’ultima delle tre riunioni, quella del gennaio 1976, si tenne nel quartier generale della Nato, a Bruxelles. C’erano tutti i ministri degli Esteri, tranne il tedesco Genscher, che questa volta inviò a rappresentarlo un funzionario, Günther van Well. Il clima era ancora più cupo. Il Psi di Francesco De Martino, con una mossa a sorpresa, aveva appena provocato la crisi di governo, e Moro si era dimesso. La decisione socialista, in effetti, aveva complicato ancora di più le cose. De Martino si sentiva schiacciato nella morsa del dialogo a distanza tra Moro e Berlinguer. Non era più disposto ad accettare che, a sinistra,fosse solo il suo partito a pagare il prezzo elettorale per una politica economica di sacrifici. La rabbia dei ceti più deboli si stava scaricando sul Psi che, pur non avendo propri ministri nel governo Moro, lo aveva comunque appoggiato dall’esterno.

 

Insomma, De Martino non intendeva più dissanguarsi a vantaggio del Pci, che continuava a guadagnare consensi nell’opinione pubblica. Perciò fece sapere che non avrebbe più fatto parte di una maggioranza se anche i comunisti non si fossero assunti delle responsabilità dirette. La sua decisione gettò tutti nel panico. E fu giudicata intempestiva anche da Berlinguer.
Il quale, ben conscio dei condizionamenti internazionali e dei rischi che correva l’Italia, aveva tarato la sua strategia su tempi molto più lunghi, quindi non fremeva certo dal desiderio di vedere i comunisti nel governo. Né Moro, d’altra parte, ce li voleva. Ma De Martino era irremovibile. E l’Italia stava andando a passi veloci verso elezioni anticipate.
Al tavolo dei «Quattro», a Bruxelles, ora si stava materializzando lo scenario più drammatico che potessero immaginare: quello di una disfatta della Dc e, per la prima volta nella storia repubblicana, il sorpasso comunista, pronosticato ormai da tutti gli osservatori. Se il Pci fosse diventato il primo partito italiano, sarebbe stato impossibile escluderlo dal governo senza ricorrere a una soluzione alla cilena. Di qui il senso di impotenza e di frustrazione, come riferisce Lucrezia Cominelli. (…)

A Kissinger non interessava quanto Berlinguer fosse autonomo da Mosca, ma soltanto il grado di pericolosità della sua politica per Usa e Urss. Quanto agli inglesi, la preoccupazione principale, molto ben mimetizzata dietro la loro continua, sistematica esasperazione della minaccia comunista, era che la scena politica italiana continuasse a essere dominata dalla figura di Aldo Moro. E lo fecero capire ancora più chiaramente alla vigilia delle elezioni italiane.
I «Quattro» stavano valutando la possibilità di un nuovo vertice segreto. Prevaleva l’idea di tenerlo subito dopo il voto. Ma per Callaghan sarebbe stato troppo tardi. Disse al cancelliere tedesco Schmidt: «Se vogliamo cercare di avere una qualche influenza dovremmo farlo prima. In caso contrario avremmo il vecchio Moro seduto e mezzo addormentato per tutto il tempo come un primo ministro con la spina dorsale spezzata e i comunisti che hanno ottenuto un grande successo».
Ecco perché, fra i «Quattro», la Gran Bretagna spingeva con più forza. Voleva che gli alleati l’aiutassero a sbarazzarsi di Moro.

16 marzo 2018

 

 

(da Il Puzzle Moro, di Giovanni Fasanella, Chiarelettere)