Catanzaro, 4 febbraio 1971 – Un primo fragore, improvviso, frantuma la vetrina dell’orologeria al numero quattordici del vicoletto Vinci. La gente, in preda al panico, inizia a correre mentre altre due deflagrazioni aumentano la paura e il fuggi fuggi generale.
Un uomo, colpito, si trascina lungo il Vicoletto II Duomo e, appena svoltato l’angolo, si accascia al suolo in un lago di sangue. Quell’uomo, che si chiama Giuseppe Malacaria, arriva in ospedale presentando ferite profonde agli arti inferiori e superiori ed è subito condotto in sala operatoria, gli vengono asportati il pollice e l’indice della mano sinistra ma non c’è nulla da fare, decede per trauma cranico ed emorragico causato dallo spappolamento della coscia sinistra.
Insieme a lui, quel martedì pomeriggio, finiranno in ospedale molte altre persone variamente ferite.
La giornata di Pino Malacaria era iniziata presto, come sempre del resto. Verso le 7.30 esce dalla sua abitazione al numero 7 di Pianicello, per recarsi al lavoro, lavoro faticoso il suo, fatto di impasti e murature. L’aria è più fresca del solito e Pino decide di prendersi mezza giornata di riposo. Così, dopo aver pranzato, si reca in un’abitazione privata per quei lavoretti che gli consentono di arrotondare la magra paga di un muratore. Verso le 17.00 rientra a casa, fa colazione e saluta la moglie con tre semplici parole “Vado al comizio”.
Sono i giorni in cui la Rivolta di Reggio Calabria contro la designazione di Catanzaro come capoluogo di Regione, iniziata il 14 luglio dell’anno precedente ed egemonizzata dai boiachimolla neofascisti, sta volgendo verso la conclusione dopo mesi di scontri, barricate, incendi, morti e feriti. Nella notte tra il 3 e il 4 febbraio una NSU Prinz 1000 si ferma davanti al salone di esposizione del palazzo della Provincia di Catanzaro, che all’epoca ospita gli uffici della Regione, in Piazza Prefettura. Un uomo, con in mano un fagotto, scende dalla vettura, si guarda intorno con occhiate rapide e nervose, si avvicina ad una delle colonne dell’edificio, appoggia in terra il pacco e risale velocemente nell’auto che sfreccia lungo Corso Mazzini imboccando il senso vietato.
Un agente di polizia, che si trova nelle vicinanze, nota il movimento, cerca di avvicinarsi, ma dopo aver percorso qualche passo, è respinto indietro dalla detonazione. L’ordigno esplode e manda in frantumi le vetrate del palazzo e quelle dei fabbricati vicini, tra cui quelle delle Poste, del Credito Italiano e dell’Ina. La tragedia è sfiorata, il custode del palazzo provinciale e la sua famiglia ne escono miracolosamente illesi. Da lì a poco si svuota il Teatro Comunale e gli spettatori ignari piombano in una situazione surreale: una bomba… a Catanzaro!! L’aria diviene pesante, un misto di incredulità, indignazione e spavento percorre i volti rossi per il freddo di tutti coloro che accorrono in piazza: forze dell’ordine, curiosi, gente semplice e autorità pubbliche.
La mattina successiva tira vento, come accade spesso da queste parti, e la giornata si preannuncia particolarmente fredda; Catanzaro si sveglia lentamente con i suoi rumori, le saracinesche si alzano, e chi non sapeva lo viene a sapere così, fuori da scuola, comprando il pane o, semplicemente, leggendo un ciclostilato che spunta sui muri della città.
Il volantino, sottoscritto da Dc, Pci, Psi, Pri, Psiup e Pli, è semplice e essenziale, scritto velocemente, trasuda sdegno e chiama alla mobilitazione; le forze democratiche invitano i cittadini a partecipare ad una manifestazione antifascista che si terrà il pomeriggio stesso alle 17 in Piazza Grimaldi. Le ore passano e in città il brusio aumenta, la notizia dell’attentato è, ormai, sulla bocca di tutti; le sedi dei partiti fermentano, i telefoni delle autorità squillano in continuazione.
Verso le 17 Piazza Grimaldi inizia a riempirsi di persone: dirigenti di partito, militanti e simpatizzanti, rappresentanti delle istituzioni, gente comune accorsa chi per sdegno chi per curiosità.
Dal palco, montato per l’occasione, Franco Politano, all’epoca segretario della federazione provinciale comunista, annuncia che è stata negata l’autorizzazione per la manifestazione: la motivazione ufficiale è il mancato rispetto del termine dei tre giorni previsti per la richiesta. Si decide, così, unanimemente di rinviare la manifestazione a data da destinarsi e di tenere comunque in serata un’assemblea pubblica nei saloni della Provincia.
La folla prende atto della solerzia burocratica ma il muovere dei passi verso Corso Mazzini è interrotto dal rumore di un altro microfono e dal beccheggiare di altre parole. Dalla sede del Movimento Sociale Italiano, collocata ad una cinquantina di metri, iniziano ad arrivare frammenti di discorsi e slogan ritmati. C’è chi si allontana e chi si muove verso la parte bassa del Corso, chi invita a non raccogliere le provocazioni e chi inveisce.
Alcuni funzionari della polizia irrompono nella sede del Msi. A questo punto le urla e il fragore della strada sono interrotti dalle esplosioni; il resto sono grida, sangue e gente che fugge cui, poco dopo, si aggiunge il suono delle sirene delle ambulanze.
Giuseppe Malacaria, muratore trentasettenne, era un uomo semplice, lontano dagli estremismi e dalla violenza, ucciso senza aver fatto nulla di male. E poi ucciso una seconda volta, ancora senza colpa, dalle mistificazioni di chi ha avuto interesse a dipingerlo come un bombarolo distratto. E ancora ucciso dall’indifferenza della sua città, che invece di ricordarlo con affetto per troppo tempo ha voluto dimenticarlo.
Fu proprio l’iniziativa dell’allora Laboratorio Sociale “Altracatanzaro” a portare, il 4 febbraio 2007, all’apposizione della targa che ricorda l’omicidio di Pino Malacaria nel luogo in cui cadde ferito a morte, in Piazzetta della Libertà, lungo il Corso. Tre giorni dopo fu sfregiata disegnandoci sopra una svastica con la vernice. Dopo è stata ricollocata e protetta a presidiare e preservare una memoria che tutti abbiamo il dovere di custodire e alimentare.
È vero che la vicenda fu dolorosa e, in qualche modo, mai risolta. È vero che l’unico processo fu contro ignoti. È anche vero, però, che ciò che rende una comunità tale non è la sentenza di un Tribunale dello Stato ma la capacità di far tesoro del proprio passato.
La lontananza degli eventi, l’impossibilità di reperire la documentazione processuale ci costrinsero ad una ricostruzione incompleta ma, comunque, sempre disponibile ad accogliere ogni pezzettino di “verità” pronto a venire fuori. Anche oggi, a distanza di cinquant’anni, non sappiamo chi ha lanciato le bombe quel 4 febbraio 1971 né, tanto meno, chi fu il mandate di tutto ciò e, forse non lo sapremo mai. La storia del nostro paese è fatta di stragi impunite e morti senza giustizia ma ciò non può far venir meno la necessità del ricordo di chi ne è stato vittima e dell’impegno che la difesa della democrazia richiede ogni giorno.
Altracatanzaro – Laboratorio sociale
4 febbraio 2021