Quando i proletari perdono la capacità di osservare criticamente la società capitalistica si disumanizzano
di Domenico Marino
segretario Sezione Gramsci-Berlinguer di Pisa
“per la prima volta nella storia del pianeta terra, gli umani di tutti i paesi avevano lo stesso scopo: guadagnare abbastanza da poter assomigliare a una pubblicità” (F Beigbeder)
Il consumismo è il risvolto “sociale” macroscopico del sistema capitalistico, che ha sempre più bisogno di acquirenti bramosi e compulsivi per forzare la domanda di merci, per fare conseguentemente più profitti e attenuare uno dei suoi maggiori difetti: la sovrapproduzione di merci, che è causa di grandi squilibri politico-economico-sociali.
Mai come oggi l’uomo è ridotto alla stregua di un animale da batteria – e viste le premesse le cose possono solo peggiorare – allevato per lavorare a condizioni sempre peggiori e per consumare sempre più merci a loro volta sempre più scadenti. Nella pseudo democrazia liberale l’uomo è semplicemente un oggetto atto a consumare voracemente e soddisfare i mercati.
Appare sempre più chiaro che la politica ha più a cuore la soddisfazione dei mercati che delle persone. D’altronde la fraseologia mediatica ricorrente nei politici oggi è più che mai: il mercato ce lo chiede, il mercato ne ha bisogno, il mercato ha confermato, il mercato ce lo impone, e così via.
Il mercato, trattato come essere vivente e pensante, da luogo fisico è diventato sempre più virtuale e i suoi bisogni astratti hanno finito col sostituire i bisogni materiali e spirituali dell’uomo. La democrazia ha definitivamente ceduto il passo alla mercatocrazia. Per imporre questo “stile di vita” siamo vittime di un marketing selvaggio e sempre più soggiogati da pubblicità invasive e forvianti, le quali puntando sui bassi istinti ci ipnotizzano letteralmente, trattandoci come fossimo eterni bambini: voglio quello, voglio quell’altro…
Tra poco uscirà l’iPhone 6 negli USA, patria del consumismo più becero. I consumatori (questo appellativo più caratterizzante che è rimasto alle persone), fanno file chilometriche, dormono per strada pur di accaparrarsi il nuovo status symbol, perché di questo si tratta. Questa follia collettiva è frutto di una solitudine collettiva e di massa.
L’essere umano è sempre più schiavo di un prodotto, di una merce che al di là del suo valore vero: il valore d’uso, è scelta per un valore emotivo e sociale che arbitrariamente gli viene attribuito – e in questo sostituisce gli uomini – nelle relazioni sociali; infatti in questa società sono sempre più le cose a parlare per noi, a farci sentire per un momento migliori.
Questo irrazionalismo è favorito (indotto) dalle mode e dai miti, dove il glamour è un punto di arrivo che però non si raggiunge mai. Il “glam” è un non luogo dove non si arriva mai. Siamo continuamente drogati da novità che paradossalmente (e volutamente) non restano mai nuove. C’è sempre una novità più nuova che fa invecchiare la precedente.
Come disse il sociologo Z. Bauman: “la società dei consumi si fonda d’altronde sull’insoddisfazione permanente, cioè sull’infelicità”. E questo mondo non sembra proprio sprizzare felicità, al limite forzata e superficiale gaudenza.