L’eterna lotta fra tassisti e Uber deve farci riflettere sul futuro del lavoro in un mondo sempre più governato dalla tecnologia. E su come questa lotta potrebbe molto presto riguardare tutti noi
Martedì scorso, a poche ore dallo sciagurato sorteggio che ha determinato la vittoria di Amsterdam come sede dell’Agenzia europea del farmaco, a Milano andava in scena l’ennesimo sciopero dei tassisti per protestare contro Uber.
Questi due fenomeni, all’apparenza indipendenti, nel micromondo della Stazione Centrale dell’avanzatissimo capoluogo lombardo venivano invece messi in una bizzarra relazione di causa-effetto. Tra i viaggiatori costretti a tirare fuori gli spiccioli dalle tasche per comprare un biglietto del tram, l’opinione diffusa era che “cose come questa” accadano “solo da noi”, noi “soliti Italiani” che non siamo ancora “un Paese civile”, noi che – unici nel Mondo – ancora tolleriamo simili disservizi in nome di biechi interessi corporativi. Per forza che a Bruxelles preferiscono Amsterdam: se nemmeno siamo in grado di far funzionare i taxi, di che ci lamentiamo?
Se qualcuno, davanti alla sventura di una corsa in metropolitana, fosse stato in grado di resistere al richiamo della foresta del vittimismo (specialità in cui noi italiani vinciamo per acclamazione – altro che sorteggio) forse si sarebbe ricordato che poche settimane fa, nella civilissima Londra di dame e baronetti, Uber è stata addirittura proibita in toto da un giudice, e che il destino della start-up che ha rivoluzionato i trasporti è attualmente appeso alla decisione di un giudice d’appello. La decisione è arrivata dopo mesi di agitazione durante i quali i tassisti londinesi hanno più volte bloccato completamente la circolazione, causando disagi che, se a subirli fosse stata la cittadinanza meneghina, il sindaco Sala sarebbe già stato costretto a richiedere l’intervento delle Nazioni Unite.
Il fatto è che a Londra fare il tassista non è solo una questione di soldi e licenze: per guidare uno degli iconici taxi neri bisogna mandare a memoria una mappazza comunemente chiamata “the Knowledge” (“la Conoscenza”) in cui sono segnate tutte le vie, i monumenti, i semafori e i parchi di una delle città più grandi e incasinate del mondo; e imparata quella si deve sostenere un test, dove il candidato deve essere in grado di illustrare, nel dettaglio, la via più breve per collegare due punti a caso della città.
Lo studio della Conoscenza non è roba per tutti: pare servano, in media, quaranta ore settimanali distribuite su tre anni. Un team di scienziati ha dimostrato che alcuni tassisti inglesi, per effetto del massacrante studio mnemonico, hanno perfino sviluppato un ingrossamento dell’ippocampo.
Immaginate la reazione dei tassisti di Sua Maestà che, dopo aver passato buona parte della giovinezza a leggere, ripetere e visualizzare all’infinito migliaia di strade e di nomi, si sono visti arrivare una schiera di concorrenti che grazie ad una sola parola – GPS – erano in grado di offrire un servizio più puntuale e preciso del loro.
Detto che, come si sa, proteste contro Uber sono esplose ovunque – da San Francisco a Città del Capo, da Barcellona a New York passando per Copenaghen – la lotta dei tassisti londinesi ha però un significato diverso. In quella sfida impari tra l’uomo e la macchina, in quella grottesca sproporzione tra la terribile difficoltà dello studio del “the Knowledge” e la disarmante facilità di download di Uber c’è infatti tutto il dramma con cui non solo i tassisti ma l’intera umanità dovrà misurarsi nel futuro prossimo.
Marc Andreessen, uno dei venture capitalist più noti della Silicon Valley, ha detto una volta che nel futuro ci saranno solo due tipi di lavoro: quelli che diranno ai computer cosa fare – un’esigua minoranza – e quelli a cui i computer diranno cosa fare – la stragrande maggioranza degli individui.
La citazione, ritenuta catastrofista, è di pochi anni fa, e all’epoca pareva un’esagerazione. Pochi anni dopo, la previsione è uscita dal dominio del possibile per entrare in quello dell’ineluttabile, e secondo alcuni è perfino troppo ottimista.
Già oggi, grazie alle nuove Intelligenze Artificiali, Goldman Sachs e i responsabili dei maggiori hedge funds del mondo stanno completando la transizione dalla gestione umana a quella computerizzata: trattandosi dei fondi più grossi del pianeta c’è da essere sicuri che il sistema offra le necessarie garanzie.
Nel giro di pochi anni, sviluppando tecnologie già esistenti, le AI saranno in grado di pilotare ogni tipo di veicolo pubblico e privato – costringendo alla disoccupazione milioni di persone attive nel trasporto pubblico ad ogni latitudine. Vivek Wadhwa, editorialista del Washington Post e autore del saggio The Driver in the Driverless Car calcola che per il 2025 oltre 5 milioni di persone avranno già perso il lavoro e il numero aumentarà esponenzialmente nel giro di pochi anni. In piazza bisognerà allora stringersi, perché ai tassisti uniti contro Uber si uniranno gli stessi guidatori di Uber, rottamati dalla app che del loro lavoro non saprà più cosa farsene.
In campo medico, le stampanti 3D cancelleranno professioni come quella dell’odontotecnico e, immagazzinandone a milioni, saranno in grado di analizzare ed elaborare le lastre molto meglio di un radiologo. Stesso destino per gli avvocati, specie quelli d’affari: potendo contare su una massa di dati pressoché infinita ed elaborata in tempo reale, ci si potrà presentare in tribunale con una app, far decidere a lei la linea difensiva da adottare e lasciare che sia Siri a perorare la nostra difesa.
Questo per fermarsi all’oggi o al massimo al domani: perché il dopodomani appare ancora più spietato.
Lo scorso luglio, all’università californiana di Stanford, l’equipe di scienziati coordinata dal professor Schoucheng Zhang ha scoperto le prime evidenze circa l’esistenza del fermione di Majorana – una scoperta rivoluzionaria (da noi passata completamente sotto silenzio) che nelle intenzioni degli scienziati costituisce uno dei primi tasselli lo sviluppo dei quantum computer, i cosiddetti Computer del Futuro, il cui funzionamento si basa sui fenomeni della meccanica quantistica e la cui capacità di calcolo sarà migliaia di volte superiore a quelli che utilizziamo oggi.
Da un lato, i quantum computer permetteranno lo sviluppo di nanotecnologie e applicazioni in campo medico o metereologico tali da rendere possibile, in qualsiasi momento, la prevenzione di un infarto al miocardio o di un terremoto in Giappone. Dall’altro, obbligheranno a un totale ripensamento del ruolo dell’essere umano in un ambiente in cui le più strampalate fantasie fantascientifiche novecentesche, incluse quelle apocalittiche alla Terminator, diventeranno improvvisamente reali.
In un simile scenario, le opzioni a nostra disposizione appaiono essenzialmente due.
La prima porta dritta a una nuova ondata di luddismo globale e indiscriminato: bastoni alla mano, uniamoci ai tassisti e sfasciamo tutto ora che siamo in tempo, dichiariamo guerra alla Silicon Valley e ai miliardari vegani e fighetti di San Francisco e instauriamo una dittatura analogica dove il massimo della tecnologia concessa è il primo livello di Mario Bros per Nintendo 8 bit.
Se questo sembra poco credibile e soprattutto molto faticoso – perché poi bisognerebbe rinunciare pure a Netflix e allo smart-phone, e ritornare a guardarsi Bruno Vespa e ad andare in giro col marsupio – si può iniziare a riflettere, nel modo più laico possibile, su come possiamo convivere oggi con le nuove tecnologie, su come le tecnologie possono integrare le professioni già esistenti e, soprattutto, su come crearne di nuove, possibilmente con un’utilità sociale superiore a quella del fashion blogger.
Un’impresa all’apparenza impossibile, in un Continente dove la politica ha come orizzonte temporale massimo il fine settimana e le elezioni si vincono e si perdono sul terreno di un’allungamento di cinque mesi all’età per la pensione. Un’impresa, tuttavia, tanto necessaria quanto urgente, pena conseguenze ancora più radicali delle fantasie apocalittiche alla Terminator.
Di certo, la cosa peggiore di tutte è fare come i viaggiatori di passaggio martedì scorso alla Stazione Centrale di Milano. Nel giro di qualche anno, quella folla che ora si accanisce contro i tassisti a colpi di “vergogna!” sarà obbligata a fare i conti con il loro identico problema, e ciò che oggi appare come una seccatura dettata da interessi corporativi diventerà, molto prima di quanto pensiamo, la tragedia di una corporazione grande come l’intera razza umana.
Anche se ancora non lo sappiamo, siamo tutti tassisti. È ora di iniziare a farsene una ragione.
25 Novembre 2017