Detestiamo il demo-pretismo della chiesa e il demo-assistenzialismo laico, qualunque tonaca o tight indossi.
Il caritatismo cristiano si associa con il filantropismo laico, che, pure con le loro specificità culturali, hanno concorso ad originare e mantenere in vita la filosofia della miseria, quella che nell’articolo fa l’apologia degli ultimi, ossia del sotto-proletariato.
Filosofia della miseria che lascia immutata la condizione dei derelitti cui vorrebbe prendersi carico, che non intacca le condizioni economiche e politiche che causano questi scompensi economici e questa condizione di emarginazione sociale, economica e culturale.
Il sottoproletariato è una categoria debole contrattualmente, perché alla deriva economica e priva di coscienza politica, composta da soggetti economicamente e socialmente instabili, facenti parte dell’esercito industriale di riserva espulso dal processo produttivo, in quanto inoccupati e disoccupati ciclici o cronici.
Marx considerava questi i vagabondi, i nomadi, gli alcolizzati, i tossici, gli avanzi di galera dimessi, i galeotti evasi, i truffatori di strada, i saltimbanchi, i nullafacenti, i borseggiatori, i giocatori d’azzardo, i papponi, i suonatori di organetto, gli straccivendoli, gli accattoni, ecc., ossia la massa di disintegrati sociali ed economici, buttati qua e là dalle ricorrenti crisi di sovraproduzione del sistema economico capitalistico.
Nel Diciotto Brumaio, Marx descrive il sottoproletariato come una “frazione di classe” che costituiva la base del potere politico per Luigi Bonaparte nella Francia del 1848,in quanto soggetto sociale senza base economica e privo di coscienza ed organizzazione politica, facilmente governabile dal potere politico e dallo Stato contro la classe operaia.
Ben diversamente, è il proletariato, con al suo centro la classe operaia, che determina la formazione del valore del prodotto che, cosciente ed organizzato nel partito, è il soggetto della lotta per la dittatura del proletariato stesso, che si realizzerà con la rivoluzione proletaria.
Quando il proletariato organizzato nel partito prenderà il potere politico e causerà la distruzione della struttura economica e statuale del sistema capitalistico, si prepareranno le condizioni per l’avvento della società senza classi.
Un progetto rivoluzionario universalistico, agito da una classe a vocazione totalizzante, che riscatterà tutti i soggetti sociali, senza distinzione tra ultimi e primi.
Ai nostri giorni, ricade in questa filosofia della miseria la rivendicazione del “salario sociale”, promossa dal movimentismo, dal centro-socialismo e dal comunitarismo, che lascia, in una parte dei paesi occidentali (Gran Bretagna in testa) e vorrebbe lasciare in Italia, gli espulsi dai processi produttivi in uno stato economico e politico permanentemente sepolcrale.
Una nuova leva di emarginati, inevitabilmente subordinati alle decisioni del welfare di stati sempre più instabili nella loro disponibilità finanziarie e, quindi, stati che non possono garantire né durata temporale delle erogazioni economiche, né assicurare proporzionalità alla cifra economica del “salario sociale”.
I “salariatu sociali” saranno un nuovo elemento del Lumpenproletariat senza forza e potere contrattuale.
Come se già non bastassero i quasi due milioni e 900 mila disoccupati, gli oltre due milioni di lavoratori in cassa integrazione e i tre milioni e mezzo di lavoratori con contratto flessibile e duttile.
27 giugno 2013
A DON ANDREA GALLO, PER SEMPRE
Io, ebreo, suo capo spirituale marxista
di Moni Ovadia
Quando certi alti prelati lo apostrofavano dicendogli: “Un buon sacerdote deve avere un direttore spirituale!”, allora lui rispondeva: “Ma io ce l’ho, è un ebreo, si chiama Moni Ovadia!”. (…) Il messaggio di Cristo è un messaggio radicale. E la radicalità sta proprio nell’annunciare che “gli ultimi saranno i primi”.
Attenzione, però, solitamente la più celebre delle beatitudini viene tradotta dal greco così: “Beati gli ultimi perché saranno i primi”. Ricordandovi che Gesù parlava e predicava in aramaico, ma pregava in ebraico, desidero soffermarmi sulla parola ashrey’, tradotta nell’italiano con “beato” o anche “felice”.
La radice ebraica ashrey’ contiene in sé un significato di felicità dinamico più che statico. Prendendola un po’ alla larga provo a spiegare questa interpretazione con un’idea di felicità che apparteneva a Karl Marx.
Il grande filosofo di Treviri era un uomo che amava stare in famiglia. Nel corso delle riunioni con amici, in casa Marx, si faceva solitamente un gioco di società che consisteva in dieci domande rivolte a ciascuno degli astanti. Una delle domande era: “Che cosa è per te la felicità?”. Quando essa veniva rivolta a Marx, magari da una delle sue figlie, il celebre rivoluzionario rispondeva convinto: “Felicità per me è lottare”.
Ecco allora che un traduttore geniale delle Scritture, André Chouraqui, primo ebreo che abbia mai tradotto i Vangeli, traduce la celebre beatitudine non “beati gli ultimi”, ma “in marcia gli ultimi che saranno i primi”. Questa traduzione porta a far emergere il senso rivoluzionario della predicazione cristica.
La felicità è movimento, è lotta. Proprio collocandosi in questo orizzonte, il Gallo riusciva a essere uno e trino – e scusate se mi permetto l’irriverenza, ma essa è privilegio del saltimbanco – era cioè in continua tensione dialettica fra la pienezza del suo essere umano in carne e ossa, il “compagno” partigiano, militante per l’uguaglianza e la giustizia sociale, e il suo essere cristiano-cattolico, cioè luminosamente credente e uomo di chiesa.
La sua radicalità umana e cristiana – e in suo onore voglio usare anch’io una radicalità di linguaggio, contro la melassa conformista sparsa a profusione di questi tempi – lo rese “divisivo”! Proprio come Gesù Cristo! Se Gesù fosse stato “unitivo”, non sarebbe finito su una croce, ma avrebbe avuto un posto d’onore nel Parlamento italiano.
Don Andrea mi ha insegnato cosa vuol dire essere compagno, prima di lui non lo sapevo. Compagno è parola da tempo bandita, come fosse una parola infame della burocrazia stalinista. Non è così. Ha una radice cristiana: cum panis. Il compagno è colui con cui spezzi il pane. Solo in seguito il movimento operaio ha proiettato il termine nella sua grandezza fino all’orizzonte di quella giustizia sociale che promana dal lavoro come status di nobiltà. Ebbene, qual è il pane che si spezza come cristiani, come ebrei, come compagni, come democratici? È il pane della giustizia sociale! È questo il pane che dobbiamo spezzare, perché senza giustizia sociale, il tanto parlare di equità è solo un raggiro, uno strumento di confusione e perversione.
L’unica volta che ho pregato in una chiesa è stato con lui. Sì, io, ebreo agnostico, ho pregato col Gallo. (…) Una domenica dovevo andare a pranzo da lui, come facevo spesso. Andrea stava terminando di celebrare la messa, entrai in chiesa restandomene in fondo, ma lui mi vide con la coda dell’occhio e mi chiamò: “Stiamo per dire il Padre nostro”. Lui e tutti i suoi parrocchiani si tenevano per mano stando in cerchio, e allora m’invitò: “Vieni qua, che tanto questa preghiera ha radici ebraiche e va bene anche per te”.