Inviatoci da Angelo Ruggeri per una riflessione ed una sensata discussione … iskrae
SI NEI REFERENDUM NO ALLA SOPRAFFAZIONE DEL “PREMIER” E DEL GOVERNO SU PARLAMENTO, MAGISTRATURA E POPOLO
REFERENDUM: VOTARE QUATTRO SI – per, soprattutto, il POTERE DELLA MAGISTRATURA di reintegrare i lavoratori ingiustamente licenziati;più tutela dei lavoratori precari, sicurezza sul lavoro e l’indennità per lavoratori nelle piccole imprese.
Certo contro il “jobs act” che ha incrementato il calo dei salari e la crescita dei profitti, ma senza dimenticare che crescita dei profitti e calo di salari e del potere d’acquista, datano da quando la scala mobile fu definitivamente abolita da accordi come quelli firmati dal sindacato il 31 luglio ‘92 col governo Amato e la Confindustria (e poi quello del 93), accordi che non hanno altro riferimento storico che l’accordo di Palazzo Vidoni del 1925 (tra sindacato e governo Mussolini).
QUATTRO SI, senza dimenticare ne questo ne che lo snaturamento della democrazia italiana deriva dall’abbandono da parte del sindacato (e della “sinistra”) della costituzionalmente sancita concezione “classista” dei rapporti tra società civile e società politica; e che per questo si è persino giunti a stravolgere la natura classiste dello Statuto dei lavoratori e dell’Art.18, che anziché come proprio dei diritti specifici e unicamente del lavoratore in fabbrica, con Cofferati, fu difeso come “diritto della persona”, parificandolo al padrone che anche lui è una “persona”.
Senza dimenticare il contesto in cui ci troviamo anche a causa di questi pregressi, per cui si vede solo ora quanto aberrante sia stato l’impulso verso la deriva che oggi si vorrebbe frenare – pur apprezzando alcune impennate, speriamo non tardive, di alcuni dirigenti della CGIL e della “sinistra” avverse al presidenzialismo, solo ora che ci si è improvvisamente resi conto che è quasi alle porte – ma imputabile in modo irrefutabile proprio al “centrosinistra” che per oltre un ventennio ha puntato a spezzare l’organica continuità/interdipendenza tra Prima Parte – quella dei diritti sciali- e la Seconda Parte della Costituzione – organizzazione di stato e governo – arrivando a mistificare che in tal modo – dando in realtà per scontato che Maastricht ha cancellato anche quelli – “i Principi fondamentali non si toccano”: come diceva appunto la “sinistra” con CGIL la traino, che ora per essere adesso credibili dovrebbe fare atto di sottomissione autocritica rinunciando ad una strategia che per trenta anni ha posto la “sinistra” sulla stessa lunghezza d’onda della destra. Artatamente nascondendo ad un elettorato irretito nell’irresponsabilità della logica “bipolare” – sospinta soprattutto da sinistra -, la gravità antidemocratica della c.d. “modernizzazione” del sistema di governo, che ora col presidenzialismo viene proposta dal governo della neofascista Meloni, ad imitazione di quelli di cui una epigone in sedicesimo, con la “modernizzazione” della forma di governo che concorse all’instaurazione dello stesso regime fascista, come regime del “capo del governo” e del “carattere nazionale dell’iniziativa economica privata” (1927) a cui corrisponde la modifica del Titolo V fatta dall’Ulivo. E mitigando con vistosa reticenza quanto oggi sia più grave e più bieco proporre la modifica del sistema di governo che fu deciso dalla Costituente che, sconfiggendo Calamandrei e il partito d’azione – che per questo si sciolse – e il MSI erede del fascismo che però non era in Costituente, vide la Costituente pronunciarsi e respingere sia il presidenzialismo e sia il federalismo come “fratelli gemelli” dell’autoritarismo – perciò l’uno e l’altro sono incostituzionali – per rompere col modello monarchico/liberale dello Statuto Albertino, su cui e in coerenza con esso – all’opposto della nostra Costituzione – si innestò il regime fascista come regime e del “capo del governo” e “della sussidiarietà dello stato“: cioè, mutatis mutandis, quanto oggi propongono neofascisti e leghisti insieme e tra loro convergenti, col “premierato” e il regionale/federalismo pluriverticista e separatista, con la subalterna sussidiarietà dello stato rispetto al privato e quindi alle imprese, come il Titolo V dell’Ulivo ha fatto, persino peggiorando ciò che fece il fascismo, cioè non solo nelle attività economico-sociale come fece il fascismo con la “Carta del lavoro”, ma rendendo sussidiario lo stato persino nelle funzioni tipicamente pubbliche e in quelle concernenti i servizi.
Stato federale fondato sulla cancellazione del potere “dal basso” e sulla “concentrazione” verticistica dei poteri degli esecutivi centrale e decentrati, in nome dell’esigenza di coniugare la stabilità degli “interessi” capitalistici e la stabilità del sistema di governo.
Sottomessi all’egemonia della varesina Lega di Bossi a tal punto che le premesse addirittura “costituzionali” del federalismo, sono state poste nel 2001 dal centrosinistra, incurante di liquidare, in tal modo, i residui di una contrapposizione di classe, sbiaditasi proprio con il confluire dello stesso voto operaio, anche di iscritti alla CGIL, nella varesina Lega di Bossi e successivamente nelle centrali del leghismo lombardo-veneto.
Lega che ha potuto avvalersi della rottura del ruolo della democrazia di massa, perpetrata dall’introduzione del “presidenzialismo” mediante elezione diretta di sindaci, presidenti di provincia e presidenti di regione – autoproclamatisi pomposamente “governatori – come rete di un potere di vertice, antitetico al ruolo democratico delle assemblee elettive delle autonomie locali della nostra Repubblica delle autonomia. Mentre la “sinistra” alimentava la dicotomia e la separazione tra “sociale” e “istituzionale” la lega si alimentava di entrambi (come faceva il PCI fino a Berlinguer), occultando dietro l’apparente “localismo” il disegno volto a rilegittimare un centro nazionale persino più autoritario – nelle forme equivalenti del premierato, del presidenzialismo, del semi presidenzialismo e simili – in qualsiasi modo purché sia coerente con l’obiettivo dei “leghisti” di installarsi in prima persona ai vertici dei territori , come per primo avvenne a Varese con la prima giunta leghista d’Italia nata col sostegno del PDS-DS-PD, per organizzare il primato delle imprese private di tutte le dimensioni, contro l’autonomia sociale delle forze del lavoro e contro l’autonomia politica delle istituzioni locali, ridotte dal regionale/federalismo pluriverticista, al ruolo di ratifica subalterna del neo-corporativismo serpeggiante nei rapporti tra sistema produttivo e istituzioni regionali federate, da cui la cosiddetta “autonomia differenziata” che non contrasta ma converge col premierato, che già vige nelle Regioni, in quanto “premierato” e “federalismo” convergono in uno stato fondato sulla cancellazione del potere “dal basso” e sulla “concentrazione” verticistica dei poteri degli esecutivi centrale e decentrati, in nome dell’esigenza di coniugare la stabilità degli “interessi” capitalistici e la stabilità del sistema di governo.
Un contesto, dunque, in cui ora, grazie anche a tale pregresso, il governo attuale non solo ha resa implicitamente superata l’intera prima parte della C. – quella dei diritti sociali ad affossare i quali diedero una mano anche i promotori del referendum nel modo di cui sopra e di cui parliamo più avanti – ; resa superata tramite un indirizzo politico autoritario, neo-centralistico e obbediente alle ben note sollecitazioni di governabilità contro la democraticità, favorevole agli interessi delle imprese da parte del governo.
Ma dietro gli atteggiamenti farseschi e da macchietta della “capo” del governo – la storia si ripete prima come dramma e poi come farsa – ora si punta ora più organicamente a cancellare, con metodi da “colpo di stato”, quali le permanenti deroghe alle procedure costituzionali, l’intero disegno della nostra forma di stato e di governo.
Questo, va detto e non si dice mai, grazie all’abbattimento della proporzionale e alla manipolazione maggioritaria dei voti, sicché pur essendo un’infima minoranza del corpo elettorale e anche dei votanti, il governo ha potuto avere una maggioranza con cui da subito ha espropriato il potere di iniziativa e di indirizzo del Parlamento, ha soppresso la forma di governo parlamentare ed esautorato in toto il Parlamento – che i governi precedenti avevano prevaricato ma non del tutto esautorato -, riducendolo a strumento di ratifica di decisioni politiche-economico-sociali assunte incostituzionalmente, aprendo una voragine contro la democrazia, con una maggioranza con cui il governo vuole persino ergersi a potere “costituente”, con riforme come quella del DDL del governo, nonostante che la natura proporzionalista dell’art.138 esclude “riforme” da parte di maggioranze che non siano state elette col proporzionale: come fu eletta la Costituente, perché o il suo compito era di fare la democrazia e non di disfarla come vuole questo governo, con l’elezione diretta del “capo di governo” vietata anche perché in base al sistema di Costituzione “rigida” non si può incidere sulla forma di stato e di governo , tanto più se si vuole trasformarle in stato e governo presidenziale.
In una situazione resa più drammatica dagli effetti reali che il presidenzialismo esercita senza essere ancora formalmente in vigore, la deriva della democrazia italiana è stata bruscamente accelerata dal passaggio dei “pieni poteri” a questo governo: sicché, mentre ci si lamenta del numero dei decreti ripetendo a pappagallo che sono stati fatti anche dagli altri governi, non si coglie che ora la decretazione in deroga alle procedure costituzionali , al di la del numero e della quantità senza precedenti, è diventata metodo, espressione di un esautoramento totale del parlamento, non più solo parziale come avveniva con i precedenti governi; espressione di un passaggio di fase ad un governo che, rispetto ai precedenti che lo limitavano, ha confiscato totalmente il potere di iniziativa del parlamento: che quando è in capo al Parlamento è indice di democrazia e quando è in capo al governo è indice di autocrazia: come è ormai da tre anni. Per cui non c’è solo un governo che ricorre a tanti decreti legga, ma che, a fronte di una Costituzione “rigida” che come tale non ammette deroghe alle procedure costituzionali, cioè con metodi da “colpo di stato”, ha creato un regime delle deroghe, un vero e proprio “regime del decreto legge”, con l’espansione anche del regime del “decreto legge” che si determina con le cosiddette “leggi delega”, con cui il governo impone al Parlamento di auto/espropriarsi del suo potere legislativo, per cui siamo in una situazione in cui ormai è solo un gruppo ristretto di personaggi dell’alta finanza che, direttamente o indirettamente, prende le decisioni a carico delle masse e dei cittadini.
Considerare il quadro istituzionale in cui si inserisce lo strumento del referendum, è d’obbligo. Intanto perché come ogni strumento istituzionale, non è neutro, e che perciò altro è il referendum di iniziativa presidenziale e governativa, altro il referendum di iniziativa popolare; nel senso cioè che senza una valutazione del tipo di forma di stato e di forma di governo nel cui ambito sia previsto lo strumento, non è possibile dare spiegazione coerente a quella che si chiama un po’ affrettatamente ”democrazia diretta”.
Ma se è decisivo tenere conto del sistema di governo cui il referendum inerisce, mentre è pseudo-democratico il referendum che con iniziativa dall’alto consolida il primato dell’esecutivo, si tratta di vedere come il referendum promosso socialmente dal basso, si rapporti con una prospettiva di democrazia diretta, che in quanto tale è incompatibile con l’ideologia della “governabilità”, che è il punto teorico di omologazione di tutte le forme storiche di organizzazione del potere, comprese quella di democrazia “formale”.
Esso non può essere facilmente assimilato a livello di massa – però – se non spiega che nell’ideologia giuridica dominante, la forma di governo riguarda solo i luoghi del potere centrale e, quindi, essenzialmente i rapporti tra governo e parlamento e non anche le forme del potere decentrato e locale. Sicché per tale via, si finisce per occultare un’operazione ideologica che accomuna le assemblee parlamentari – ma anche quelle regionali, provinciali, comunali, circoscrizionali -, in una istituzionale subalternità ai rispettivi esecutivi, governo e giunte, ma sottacendo quel dato teorico che, in concreto, manifesta i suoi effetti più devastanti proprio al livello territoriale, in cui sarebbe possibile conferire un effettivo primato istituzionale alle assemblee elettive, e dove quindi la contraddizione è più acuta tra domanda sociale e disponibilità delle istituzioni.
Ora, l’idea dominante che perviene alla conseguenza di fare dei governi, degli esecutivi, delle variabili indipendenti dalla società – come sarebbe col premierato -, finendo per omologare specie nei momenti di crisi o di emergenza, i regimi di tipo autoritario e reazionario con i regimi di tipo democratico, è quella secondo cui il nucleo di fondo del potere di governare, come potere di “direzione” o di determinare “l’indirizzo politico”, è il potere di “iniziativa”, termine con il quale si intende legittimare o l’esclusiva nei regimi autoritari o la preminenza relativa o assoluta (nei regimi di democrazia formale) del potere governativo. Per trent’anni coi governi precedenti c’è stata una prevalenza relativa e poi assoluta del potere governativo, ora,dopa la fase della fase di tipo “prefascista”, siamo nella fase in cui, come nei regimi autoritari, vige l’esclusiva del potere di iniziativa dell’esecutivo di governo.
Tanto che non si esita ad affermare addirittura che il potere di indirizzo politico si riassume nel potere di direzione e di iniziativa dell’esecutivo. Ma se in base a tale assunto ideologico, che trascende le stesse forme differenziali delle forme di Stato e di governo, si arriva a mistificare con tanta grossolanità la cosiddetta teoria della “divisione dei poteri”, perché il potere “esecutivo” in verità è il potere “dominante” delle istituzioni statali di qualunque forma di governo – presidenziale o parlamentare, pluripartitico, bipartitico o a partito unico -, si comprenderà meglio come occorra affiancare ai referendum, l’analisi della forme di governo parlamentare, in cui si possono annidare gli equivoci più stravolgenti, a cominciare da quelli concernenti il tipo di “rappresentatività” realizzata in modo opposto con la legge elettorale proporzionale o maggioritaria). Ed è proprio con riferimento a tale questione che, in Italia, l’affermazione dell’istituto referendario ha acquistato un senso meritevole di grande attenzione, se si vuole che se ne traggano lezioni positive non tanto per il destino del referendum in se stesso considerato, quanto piuttosto per la costruzione di una forma di governo che faccia della sovranità popolare l’effettivo baricentro del rapporti tra società e istituzioni.
Va cioè considerato che il referendum è stato introdotto nel nostro sistema istituzionale, nella stessa fase di sviluppo sociale e democratico in cui vigeva il proporzionale e sono state istituite concretamente le Regioni a statuto ordinario – facendo prendere corpo effettivo alla riforma “politica” dello Stato – e con la riforma dei regolamenti parlamentari si e avviata un’esperienza di “centralità” del parlamento, superando i principi che regolavano, dal l922, il sistema parlamentare proprio dello Stato “liberale” e non come quello odierno, “democratico-sociale”. Dato che la natura specifica del referendum previsto dalla Costituzione è, al tempo stesso, di iniziativa popolare quanto alla legittimazione e di natura abrogativa quanto all’efficacia, ne è derivato che dopo un avvio di tipo contraddittorio – nel senso che, come per il divorzio, risultava coerente con i principi una vittoria dei “no” contro le iniziative per abrogare importanti istituti conquistati con le lotte sociali tramite il ruolo preminente del parlamento sul governo -, ora siamo pervenuti ad una fase nella quale si tende a far prevalere sotto il segno dei “sì”, a favore di proposte di iniziativa popolare rivolte a spianare la strada legislativa – come nel caso del referendum contro il taglio della scala mobile o nel caso particolare del nucleare e dell’acqua – , in una strada nella quale negli anni si sono sparse norme che rendono subalterno tutto l’assetto istituzionale, centrale e decentrato, alle scelte governative che mettono in pericolo il rapporto tra sviluppo, risorse, energia e ambiente: tanto che come nel caso dell’acqua, vanificano anche i risultati ottenuti con il referendum.
Per questo i poteri dominanti puntano da sempre sul rafforzamento dell’esecutivo ora proposto in nome del presidenzialismo, che è sempre attuale perché non è altro che il riflesso delle reiterate sollecitazioni del capitalismo ad avere istituzioni strettamente funzionali ai suoi obbiettivi di dominio sulla società, per cui già una volta ricorse al totalitarismo fascista.
VOGLIONO CANCELLARE LA DEMOCRAZIA INTRODUCENDO IL PRESIDENZIALISMO E LA DITTATURA DEL PREMIER E DEL GOVERNO SU PARLAMENTO, MAGISTRAURA E POPOLO
I COSTITUENTI NEL 1948 RESPINSERO IL PRESIDENZIALISMO E IL FEDERALISMO COME APRIPISTA AD UN RITORNO DEL FASCISMO E FORME DELL’AUTORITARISMO MONARCHICO/LIBERALE, RISPETTO AL QUALE LA COSITUZIONE VOLLE ROMPERE DEFINITIVAMENTE PERCHE IL PRESIDENZIALSIMOE’ VOLTO A RIPROPORRE I VALORI “GERARCHICI! CHE QUALIFICANO IL PRIMATO DEL “PRIVATO” E DELL’”ECONOMIA” SULLA DEMOCRAZIA, PER CONIUGARE AUTORITARISMO “SOCIALE” DELL’IMPRESA E AUTORITARISMO “POLITICO” DELLE ISTITUZIONI, SENZA POSSIBILITA DI PREVENIRE UN NUOVO DEBORDO VERSO IL TOTALITARIMO CHE, STORICAMENTE, HA GIA DIMOSTRATO NEL 900, L’INIDONEITA DI UNA “DEMOCRAZIA” SOLO “FORMALE” DI CONTENERE LE CONTRADDIZIONI CONNATURATE AL SISTEMA DI PRODUZIONE E DI ACCUMULAZIONE CAPITALISTICO DEL PROFITTO, PER CUI SUL MODELLO AUTORITARIO LIBERALE POTE’ INNESATRSI IL FASCISMO DETTO APPUNTO REGIME DEL “CAPO DEL GOVERNO”A CUI OGGI VOGLIONO RIPORTARCI COL “GOVERNO DEL CAPO”, CIOE’ DEL “PREMIER” PER POTENZIARE IL POTERE E IL DOMINIO DELL’ESECUTIVO SU PARLAMENTO, SOCIETA, ISTITUZIONI COME LA MAGISTRATURA E SUL POPOLO, CONTRO LA SUPREMAZIONE DELLA SOVRANITA’ POPOLARE (stato comunità) SULLA SOVRANITA’ STATALE (dello stato-apparato-governo-burocrazia).
FERMARE L’EVERSIONE E DENUNCIARE IL RITORNO ALLA DITTATURA DEL PREMIER E DEL GOVERNO SU PARLAMENTO, SOCIETA’, MAGISTRATURA E POPOLO
La democrazia italiana è in pericolo perché è stata cancellata la proporzionale e la forma di governo parlamentare propria dello Stato di democrazia sociale della nostra Costituzione, forma già abolita dall’attuale governo che ha confiscato in toto il potere di iniziativa e acquisito i “pieni poteri” – che ora punta a sancire tutto questo in nome del presidenzialismo modello sia del premierato che del regionale federalismo pluriverticista
Senza dimenticare come perché e per colpa di cosa e di chi siamo arrivati a questo é ciò che dovremo discutere, in modo, però, da non contenere più la critica entro il chiuso dottrinarismo e verticismo di pochi, per coinvolgere finalmente le masse alla più piena consapevolezza anche della assoluta diversità tra diritti dei lavoratori e diritti della persona.
“LAVORATORE E PERSONA TRA CLASSISMO E INTERCLASSISMO”
…“già il contrasto interno a CGIL e DS che si verificò sul referendum per estendere il potere di reintegro della magistratura anche alle piccole imprese, rivelò la conseguenza della scelta di eliminare ogni valore di classe al rapporto di lavoro, facendo dei diritti dei lavoratori una variante dei diritti della “persona” umana.
…“ A questo contribuirono “sinistre” e CGIL e anche una parte dei promotori del referendum, che avendo abbandonata la lotta di classe e condiviso il bipolarismo come strumento di legittimazione del “monopolio” del governo a favore del vincitore delle elezioni politiche, non possono pensare che il “centro-destra” possa prenderli in considerazione e ascoltarli su scelte che il governo può imporre con la maggioranza precostituita …. Maggioranza ottenuto grazie alla manipolazione maggioritaria dei voti, voluta e sostenuta dalle “sinistre” di regime, che ancora oggi non si battono per la reintrodurre la proporzionale, abolita dagli anni ’90 non a caso insieme anche alla abolizione della scala mobile.
Il calo dei votanti e il calo del potere d’acquisto dei salari sono andati di pari passo all’antiproporzionale sistema maggioritario e uninominale che ha rafforzato la simbiosi tra i poteri di vertice dello stato e del governo e i poteri di vertice delle imprese, nazionali e multinazionali.
Maggioritario, presidenzialismo, federalismo, sono parole d’ordine di politica istituzionale tra loro convergenti nel ricostruire nella attuale fase di sviluppo/crisi del capitalismo gerarchie sociali di vecchia matrice, cui è necessario rispondere coniugando strategia costituzionale e strategia politica, in nome degli interessi di classe raccolti già nella Costituzione formale, tuttora vigente e che nessun richiamo al mistificatorio concetto di “costituzione materiale” (concetto giuridico del fascismo e del nazismo) tanto abusato dal 18 aprile del 1948 ad oggi, ma che non può intaccare il fato che sia vigente, ad onta di giudizi liquidatori che sono stati formulati nel 1948 da una cultura giuridica scientificamente debole o connivente con gli interessi dominanti, interessata dare valore e importanza anziché a mettere in luce l’illegittimità e illegalità della c.d. costituzione “materiale” della classe dominante, che è l’equivoco modo di esprimersi da parte di una cultura dominante mistificatoriamente rivolta a coprire un“sovversivismo della classi dirigenti” (Gramsci)
All’inizio, però, c’è sempre il sistema elettorale. La crisi di regime favorita dai partiti protagonisti – a sinistra come a destra – della cosiddetta “seconda repubblica”, nel cancellare le basi della dialettica democratica ispirata nella cosiddetta “prima repubblica” dalle forze sociali e politiche che fondarono negli anni 1944-47 la Repubblica e la Costituzione, ha confermato come gli interessi atavici del capitalismo di conservazione degli assetti di potere nella società e nello Stato trovino appigli decisivi nel piegare le “istituzioni politiche” alle esigenze di dominio di gruppi sociali ristretti, contro gli interessi generali della società, pur di impedire l’avvento del movimento operaio alla direzione dello Stato. Difatti la cosiddetta “ seconda repubblica” ispirata dalla P2 di Licio Gelli e da G.F. Miglio consigliere del fondatore della varesina Lega di Bossi, è stata avviata e man mano plasmata dal sistema elettorale misto (ma prevalentemente maggioritario) escogitato nel 1993 e ormai noto come Mattarellum.
Da questo e per questo, si è creata e si è vissuti dagli anni ‘90, una fase di tipo “prefascista”, che con questo governo e dal 22 ottobre 2022, cento anni esatti dal primo governo Mussolini (31 ottobre 1922), è sfociata in una situazione drammatica: che rende il Parlamento da titolare del potere di iniziativa e delle “riforme istituzionali a strumento di ratifica di decisioni incostituzionalmente già prese, senza alcuna reale opposizione.
Decisioni già prese da un governo in cui i neofascisti – che si insiste a non chiamarli col loro nome – debbono tutto, ma proprio tutto, a quanto è stato incubato, creato e fatto dalla varesina Lega di Bossi, alla svolta reazionaria che ha impresso al paese e alla formazione di un “suo” sociale reazionario di massa come non si vedeva dal tempo fascismo.
Un sociale reazionario diventato di massa nella fase di tipo “prefascista” dominata dal protagonismo della Lega di Bossi, vero cemento ideologico di ogni destra e di tutta la destra, ma che ha iniziato a formarsi nella provincia più industriale d’Italia, a causa della indisponibilità a proseguire le lotte del 68-75 contro la grande impresa, da parte della “destra comunista” varesina che, nel 1976 – dieci anni prima che a livello nazionale – , fu imposta al vertice del PCI di Varese: una destra di vecchio conio, (le “famiglie” amendoliane e staliniste, come Amendola stesso, che erano state emarginate dalla sinistra comunista negli anni di lotta 68-75), e quella di nuovo conio (giovani privi di cultura marxista).
Occorre prendere coscienza del fatto che il sindacato e le “sinistre” (tutte), da anni si sono impigliati nell’inganno e raggiro di “riforme istituzionali”, che sono state assunte come espediente utile a porre in causa la Costituzione tramite, ispirate dal craxismo e dal leghismo di Bossi per realizzare l’antiparlamentare rafforzamento dell’esecutivo, di cui ora gode l’attuale governo e la sua “capo”, per il semplice fatto che tutto quanto si riferisce alla scelta per il “maggioritario” e l’”uninominale invece della proporzionale costituisce la base di partenza per fissare una forma di governo contraria al pluralismo sociale e perciò politico, edificabile con sistemi di tipo “presidenzialista” o equivalenti.
Sicché ora, con più coerenza della “sinistra” con la propria storia, i neofascisti perseguono, come da sempre, in nome del presidenzialismo un “esecutivo forte – già in atto di fatto – che è frutto delle reiterate sollecitazioni del capitalismo ad avere istituzioni strettamente funzionali ai suoi obbiettivi di dominio sulla società: per cui, alla bisogna, ora si serve del governo di leghisti e neofascisti – che come mosche cocchiere credono di essere loro a controllare lo spostamento a destra che, perseguito in nome del “governo forte” è esattamente quella “controrivoluzione” dall’alto della classe dominante, che non sarebbe stata mai possibile se in soccorso non fossero venute le forze che si dicono democratiche e ”di sinistra”.
… In tali condizioni ogni forma di dialogo sociale si configura come una “concessione” del governo, conseguente alle scelte sbagliate sia politiche, sia sociali che istituzionali fatte dalla CGIL e dal “centrosinistra” per valorizzare il capitalismo nei termini di quella “globalizzazione” che hanno vantato come emblema di una europeizzazione monetaria che avvantaggia solo l’impresa capitalistica finanziaria e industriale, col supporto subalterno della nuova “sinistra di regime”, e oggi ancor più dei governi dell’ultra destra reazionaria e neofascista come quello Italiano
Quello che si vuol colpire ad opera dei neofascisti attuali per conto del capitalismo nazionale e internazionale è il modello costituzionale che ha prefigurato una concezione della democrazia come forma di stato volta ad aprire una fase inedita di costruzione di istituti non solo di democrazia politica, ma anche di democrazia sociale ed economica, imperniando le nuove forme dell’organizzazione dello stato su un assetto di rapporti politico-istituzionali tale da superare i limiti della forma di governo propria dello stato liberale e quindi autoritario, dando al parlamento per la prima volta un ruolo non subalterno all’esecutivo, e puntando ad istituire una coerenza tra il pluralismo sociale e istituzionale e l’autonomia delle forze sociali e politiche nei luoghi istituzionali, non solo nel luogo centrale – il parlamento, appunto – ma anche locale, a partire dal comune sino al nuovo istituto regionale.
Più si è sviluppata la strategia delle «riforme istituzionali», più si è sviluppata – nella contraddizione meschina tra «presidenzialisti» e «uninominalisti» – una tendenza generalizzata a perseguire gli obiettivi antisociali e antidemocratici degli uni e degli altri, cancellando la sovranità popolare «in nome del popolo» e contro la «partitocrazia». Nel frattempo sono stati conseguiti risultati «sociali» contro i lavoratori e i ceti deboli: a partire dall’attacco alla scala mobile nel 1984 – e poi la sua abrogazione nel 92-, la controriforma delle Ferrovie nell’85, la politica di “privatizzazione” delle partecipazioni statali e del sistema bancario in tutti gli anni 80 e 90, la legge di riduzione dello sciopero nel 1990, la controriforma delle autonomie locali sempre nel 1990.
Questi sono tutti istituti esattamente contrari alla Costituzione e ai contenuti del processo di democratizzazione portato avanti tra il 1956 e il 1975, per attuare la Costituzione.
Donde che in controtendenza con le c.d. “riforme istituzionali”, va specificato sia cosa sono le “riforme istituzionali”, sia la diversità radicale tra proporzionale e maggioritario; sia che la forma di governo, non può essere posta in contrasto con la forma di stato, come verrebbe con la forma di governo presidenziale, che “cancellerebbe” la “forma di stato”, di democrazia sociale, prospettato dalla Costituzione per dare allo stato e quindi ai pubblici poteri la responsabilità di determinare i fini ed i ritmi dello sviluppo economico intervenendo direttamente e indirettamente nel processo di accumulazione incidendo gli assetti proprietari con un ordinamento democratico dello stato al fine di una definizione pluralistica di un piano nazionale, non centralistico ma attivatore anzitutto di una partecipazione di base alla formulazione di scelte sociali, economiche e politiche: di qui una lettura del ruolo autonomo dei partiti e dei sindacati e della cultura, per dare espansione e non riduzione verticistica alla vita organizzata e alla lotta delle masse, in uno sforzo di sintesi unitaria di carattere opposto a quelle perseguite con un attacco interessato contro il sistema dei partiti condiviso anche del PSI e del PDS non più solo dalla destra e dalla forze conservatrici contrarie alla supremazia della sovranità popolare, cioè dello stato comunità sulla sovranità statale dello stato-apparato, di governo e burocrazia.
Donde le degenerazioni organizzate da quando con il concorso determinante della sinistra storica si è venuto sostituendo il primato dell’economia e quindi del “privato” e del “profitto”, sul primato della politica e quindi della democrazia e del “pubblico”, con gli esisti disastrosi per la sovranità popolare che sono sotto li occhi tutti.
In questo modo la costituzionale centralità del lavoro e dei lavoratori è stata sostituita dalla centralità dell’impresa privata come “centro”, da cui in modo dipendente da essa si irradiano le istituzioni e la società, la politica e la democrazia stessa, cosi dando centralità al carattere oggettivamente eversivo del “sistema delle imprese” che sono istituzionalmente contrarie alla democrazia, convivendo in modo naturale ed organico dentro e fuori di esse, con un sistema politico di dittatura di classe e di autoritarismo di stato, e disponibili a forme residuale di democrazia politica, in esclusione della democrazia politica-sociale-economia della Costituzione, ma solo alla condizione di poter usare tutti i sotterfugi adottabili al coperto delle regole del codice sulle società anonime per azione, del codice civile derivato da quello fascista del 1942 a sua volta derivato dalla Carta del lavoro fascista del 1927.
Fino a quando la Costituzione è stata assunta e praticata realmente come fondamento dell’organizzazione sociale e politica – ancorché non pienamente attuata – la convivenza dialettica nel regime di economia mista tra principi dell’impresa e principi dell’utilità sociale e collettiva era valsa sia nel Mezzogiorno che nel Centro-Nord a spingere la democrazia sociale a varcare i confini dei luoghi di lavoro, dei cancelli di fabbrica e della impermeabilità dell’economia privata, in nome della programmazione democratica dell’economia. E’ cosi che si sono ottenute tutte e le tante conquiste sociali, politiche ed economica e di potere democratico/sociale, che poi si sono progressivamente perse: senza prospettive di recupero. Perché?
TRA DIRITTI DEI LAVORATORI E DIRITTI DELLA PERSONA E IL SINDACATO TRA CLASSISMO E INTERCLASSISIMO
Le conseguenze traumatiche dell’abbandono da parte della CGIL e PDS-DS-PD della ideologia marxista sono andate stratificandosi comportando anche l’abbandono dell’ideologia della Costituzione, senza prospettive di recupero, essendo che le posizione rubricate come “di sinistra” sono diventate del tutto assimilabili a quelle della sinistra borghese liberale-capitalista, della fase precedente il passaggio alla società di massa, con ciò rendendo implicitamente superata l’intera Prima Parte della Costituzione, quella dei “diritti sociali”.
Tra le molteplici implicazioni di tale snaturamento – non già imposto dalla natura della cosiddetta “post-modernità” ma dalle insane ambizioni di un professionismo politico che ha annullato la distinzione tra pre-modernità, modernità e post-modernità – quella che si è palesata come più eclatante sul terreno teorico oltre che dei comportamenti e dei loro esiti contrari agli interessi dei lavoratori dipendenti dall’impresa, è stata quella insita nella scelta di svuotare completamente – contro la realtà dei rapporti sociali, e quindi per identificarsi con gli interessi dell’ideologia dominante – il carattere di classe della posizione e funzione del “lavoro” nel sistema dei rapporti tra società e stato. Con una operazione mirata a fare dei diritti dei lavoratori una variante dei diritti della “persona” umana, per cui nel 2000, contro la Costituzione, si è tornati ad una semplice distinzione tra diritti “civili” e diritti “politici” quale era stata teorizzata agli albori dello stato di diritto nelle forme dello stato liberale e costituzionale, che delegittimavano la classe operaia persino dei più elementari diritti civili e politici proprio perché in materia economico-sociale garantiva solo quei diritti della proprietà e quindi dell’impresa che in realtà sono e si configurano più ancora come “poteri”, di “pochi” contro quelli di “tanti” e di “tutti”.
Donde che la circostanza di quando in seno sia alla CGIL che si DS ci si è divisi anziché sostenere uniti la estensione del diritto al reintegro dei lavoratori licenziati illegittimamente non solo nella grande e media impresa ma anche nella piccola impresa, è stata rivelatrice non tanto dell’atteggiamento mendace di quando con il Cofferati si fece una grande mobilitazione in nome della difesa dell’art.18 dello Statuto dei lavoratori dall’attacco del governo di centro-destra – quando cioè si enfatizzo l’arroccamento sulla formula letteraria di tale norma, senza volerne sottolineare il suo incisivo significato classista – ma sopratutto della scelta di eliminare in linea di principio ogni valore di classe al rapporto di lavoro, equiparando la situazione di sfruttamento e di alienazione del lavoratore a quello di una qualsiasi “persona” nei rapporti di diritto civile, che non implicano una relazione “determinata” dall’organizzazione capitalistica del lavoro come quella che nasce e vige all’interno dell’impresa capitalistica, ma una relazione più generale con la società e quindi con la concezione cui si ispira il rapporto tra società e stato tramite il diritto costituzionale e il diritto civile.
Confondere e mescolare i diritti civili del cittadino e i diritti sociali dei lavoratori, benché siano notoriamente tra loro profondamente diversi, in un contesto di generici principi sulla “dignità della persona”, in nome di una cittadinanza “sociale” che nasconde la specificità dell’organizzazione capitalistica rispetto ad ogni altra relazione sociale, ha mirato a realizzare due obbiettivi convergenti:
a) sollecitare le spinte “irrazionali” a credere che tutte le posizioni sociali siano identificabili in nome della dignità della persona anche nell’impresa privata, per legittimare ben di più che la garanzia dai licenziamenti, la possibilità di come concorrere in modo subalterno a governare l’impresa parificando, in quanto “persona” anch’esso, i diritti dell’imprenditore, dei dirigenti e dei lavoratori sotto l’asserito presupposto che tali figure siano tutte “persone”; e nel contempo;
b) indurre il lavoratore a subire la perpetuazione dello status di soggetto “ deminutus”, che il lavoratore ha sempre avuto e continua ad avere a causa della inconfondibile natura dell’organizzazione dell’impresa capitalistica, per indurre il lavoratore a rinunciare a organizzare quel conflitto autonomo costituzionalmente garantito, senza del quale sarebbe destinata ad imporsi, come vediamo bene oggi, incontrastatamente la sovranità dell’impresa, sovranità totale e illimitata che invece la Costituzione prevede sia limitata e finalizzata all’interesse sociale, pubblico e generale, attraverso il conflitto di classe e il diritto di sciopero costituzionalmente garantiti.
Prova di questo grave snaturamento di cui è oggi forse consapevole – per quel che è dato conoscere – anche una parte dei promotori del referendum che ha puntato a ripristinare il diritto al reintegro, è data dal fatto che si approfitta della natura specifica dello strumento referendario che induce ad optare semplicisticamente per un “si” o per un “no” ad un quesito “delimitato”, per evitare di cogliere della questione affrontata dal referendum la funzione stessa assunta dallo “statuto dei lavoratori”. Statuto che con la modifica dell’art.18 operata dal governo Renzi, l’attuale governo di centro destra, neofascista e leghista, punta ad aggredire nella sua portata più emblematica – altro che solo astenersi dal voto -, con l’obbiettivo strategico di trascinare il rapporto tra stato, impresa e lavoratori alla situazione sociale e politica precedente gli anni ’70, con l’intento cioè di capitalizzare tutto l’arretramento che il fronte dei lavoratori ha visto compiersi dalla fine degli anni ’70 ad oggi.
In concreto, infatti, non va mai dimenticato che l’istituto del referendum abrogativo – anche in una rara circostanza come quella in oggetto in cui si riesce a far e in certa misura “dal basso” – è funzionale agli interessi antisociali e antidemocratici delle forze conservatrici che, tradizionalmente, hanno puntato sulla cosiddetta “democrazia diretta” per recuperare quanto in sede “parlamentare” l’iniziativa politica democratica abbia saputo operare per innovare il sistema di potere dominante. Così che l’istituto del referendum si presta ad entrare in un campo egemonizzabile da quella che, non a caso, si stigmatizza come “maggioranza silenziosa” per contrastare la razionalità e la processualità del formarsi di maggioranze “parlamentari” che sono ben lungi dall’operare scelte “istantanee” come quelle del voto referendario.
Sicché le opzioni che sono su varie bocche – tra favorire l’astensionismo, invitando a non andare a votare, lasciare “liberi” i votanti di scegliere, presentare un progetto di legge che faccia cessare la materia del contendere – puntano ad evitare l’approfondimento della reale posta in gioco, che si configura bensì –formalisticamente- nei termini dell’obbiettivo di ripristinare l’operatività del diritto al reintegro, ma che – sostanzialmente – attiene non già la salvaguardia del diritto della persona (come ambiguamente e pervicacemente si sostiene) ma, ben oltre, alla legittimità di perseverare nel conflitto di classe, rivendicando oggi e domani, come negli anni ’70, il diritto dei lavoratori di far valere pienamente la loro autonomia: anche – eventualmente – contro gli interessi corporativi delle dirigenze sindacali che (come la storia degli anni 50-60 da un lato, e dagli anni 80-90 ad oggi, dall’altro lato dimostra), sono portate a far prevalere il loro “centralismo” a danno degli interessi sociali delle masse dei lavoratori.
Discende da tutto ciò la difficoltà di dare delle valide interpretazioni, se non si rievocano le circostanze in cui lo Statuto dei lavoratori è stato elaborato, é entrato in vigore, ed è poi stato variamente interpretato nel periodo che va dalla fine degli anni ‘70 in poi, attraverso le contraddittorie vicende che hanno portato alla “concertazione” e alla collaborazioni di classe della c.d. “codeterminazione” nella aziende.
Si viene così a riscoprire, in termini non meccanicistici ma analitici, il peso che ha avuto nella storia della democrazia repubblicana italiana quel rapporto conflittuale tra comunisti e socialisti che – nel tormentato passaggio dagli anni 68-69 – ha visto dilatarsi a livello di massa (“di base”, come si diceva) una domanda di democratizzazione e socializzazione dell’economia e della politica.Democratizzazione e socializzazione che sono state “bloccate” non solo dal vertice dei partiti “centristi” contrari all’attuazione della Costituzione, ma anche dalle dirigenze di socialdemocratici e socialisti, e dalle riserve di quella che si sarebbe poi palesata come la “destra” comunista, dirigenze che tutte, anche se in diversa misura, esitavano ad assecondare una richiesta di democrazia, delle forze critiche o antagoniste del capitalismo.
Non è quindi un caso che lo Statuto dei lavoratori sia stato elaborato ed emanato da un governo del “centro-sinistra” (DC-PSI) – prima della sua crisi finale –, e che il suo contenuto (nonostante il titolo formale riferito ai “lavoratori”) sia stato improntato al ruolo preminente del “sindacato” e non dei lavoratori: nella logica a cui si ispirava il PSI e contrastata da un PCI più sensibile alla contestazione sia del movimento studentesco sia del movimento operaio. Non è infatti per caso (come risulta dalle cronache del tempo) che il PCI volesse addirittura votare contro (per poi astenersi) di fronte ad un testo che, nonostante le sue importanti innovazioni, non rispecchiava però quella impostazione che già Di Vittorio, nel 1952, aveva indicato per fare entrare “la Costituzione” in fabbrica, e quindi non solo i sindacati ma anche i partiti, se è vero che essi venivano allora intesi come la democrazia che si organizza.
E che lo Statuto, nel testo entrato in vigore, avesse una valenza contraddittoria – per cui è valso come strumento importante di legittimazione di lotte più avanzate, ma anche come puntello delle dirigenze dei sindacati “maggiormente rappresentativi” – è comprovato dalla copertura che la strategia moderata di Craxi (con la convergenza più o meno coperta della destra comunista sia in CGIL (tra cui Cofferati) che nel PCI (Napolitano, ecc.) ha potuto trovare nello “Statuto”, ai fini del passaggio strisciante alla “concertazione”.
“Concertazione” che dopo il lodo “Scotti” (1985) e di li fino ai governi “tecnici” – e incostituzionali – degli anni ’90 e 2000, è divenuta addirittura la parola d’ordine di un sindacato diventato interclassista, contrario al conflitto e favorevole alle “triangolazioni”, per quello “scambio diseguale” connaturato al fatto che almeno due dei soggetti della triangolazione – il governo come istituzione e la controparte padronale – si trovava in una posizione pregiudizialmente “omogenea” sul terreno politico sociale, contro i lavoratori.
E’ di questo che oggi si dovrebbe discutere, per chiarire perché l’impatto sull’art.18 rappresenta la cartina di tornasole della lotta di potere che la questione del “reintegro” comporta, in un contesto che non vede riduttivamente per quanto enfaticamente al centro un “diritto della persona”, ma la sanzione, sulla base della legge, del potere d’intervento della magistratura – organo dello stato democratico – a carico dell’impresa, per far retrocedere un potere imprenditoriale rivelatosi illegittimamente usato per ledere lo “status” dei lavoratori. Status a sua volta derivante da una legittimazione conseguita con il concorso del potere dell’autonomia collettiva.
E del “potere” – ripetesi – si discuteva, a proposito di visione “rivoluzionaria” o “riformista” di una politica che per i “riformisti” vede coniugare stabilità dei governi e stabilità dei rapporti di classe ed economico-sociale: mentre per il PCI – che si trovava all’opposizione sia politica che sociale al pari della CGIL che si trovava all’opposizione sociale con una pregiudizialità che aveva anche un’incidenza politica coerente con la partecipazione di massa – la “concertazione” implicava la necessità di denunciare quella “duplicazione” di incostituzionalità che derivava dalla rinuncia al conflitto, per effetto del sommarsi alla già consolidata “conventio ad excludendum” dal governo della Repubblica, anche della delegittimazione del Parlamento – organo che comprende maggioranza e opposizione – dall’intervenire su un patto ristretto all’iniziativa dei soli “vertici” di governo, delle imprese e delle centrali sindacali. Con l’ulteriore conseguenza che – stante il determinarsi dal 1968 in poi dell’autonomia istituzionale del sindacato dal partito politico – a causa della concertazione il vertice della CGIL si poneva sia istituzionalmente che nella strategia, in conflitto con il PCI, già relegato all’opposizione per la storica discriminazione.
E’ quindi stucchevole, ora, che la CGIL – una volta abbandonata la lotta di classe e condiviso il bipolarismo come strumento di legittimazione del “monopolio del governo a favore del vincitore delle elezioni politiche – pensi che il centro-destra possa prendere in considerazione proposte e richiese della CGIL quando – viceversa – può imporre scelte con la sua maggioranza precostituita. Ovvio che in tali condizioni, il “dialogo sociale” che si configura come una “concessione” (del governo) conseguente alla scelta della stessa “ sinistra”, promotrice del referendum, di valorizzare il capitalismo, nei termini di quella “globalizzazione” che è stata vantata come emblema di una europeizzazione monetaria e – come tale -, antisociale, salvo che per l’impresa capitalistica finanziaria e industriale che può godere del supporto subalterno della nuova “sinistra di regime”.
Tutto questo è bene ricordare e ricordarlo, data da quando la destra socialista e la destra comunista per cupidigia di promozione ai vertici di governo, sono riuscite a rafforzare l’ideologia della destra sociale e politica, sia quella annidata nel Pli, nel Pri e nella DC, sia quella annidata nel MSI e nei suoi eredi, ma sopratutto nella varesina Lega di Bossi, nelle “leghe” e nel vario radicalismo palese e parlamentare e quello dei gruppi neofascisti, eversive e terroristi operanti sul piano occulto, per cui la deriva delle democrazia è stata avviata e gestita pericolosamente e con la furia del neofita proprio da chi, in nome dell’ideologia antifascista democratica e socialista aveva aperto, proprio in virtù della Costituzione, una breccia nei principi su cui si regge la sovranità dell’impresa e i poteri del grande capitale. L’alternativa è tra sovranità della società per azione e sovranità del popolo e per esso delle istituzioni democratiche.
Viceversa sovranità e centralità dell’impresa coeva al “craxismo istituzionale” è stato assunto già nel 1976 dalla destra comunista di Varese, che dopo essere stata marginalizzata dalla sinistra comunista di partito e sindacato che guidava le lotte degli anni 68-69-75, fu imposta al vertice della Federazione PCI e sospese le lotte operaie nella provincia più industriale d’Italia. Questo proprio negli anni in cui si stava incubando e formando la varesina Lega di Bossi, che così senza reale contrasto ha potuto formarsi e crescere indisturbata tra ceti medi e anche classe operaia, a causa di una destra comunista che, per cupidigia di promozione ai vertici di governo locali, di comune e provincia – dieci anni prima che la stessa cosa avvenisse sul piano nazionale – ha tralasciato del tutto la strategia di lotta per le riforme sociali per attuare i principi costituzionali della democrazia sociale e del controllo sociale e democratico dell’economia. Volutamente abbandonandoli col solo scopo e risultato di consegnare a una destra sociale e politica reazionaria e neofascista, che non ha mai saputo strapparlo sul campo, quel potere classista incontrollato che oggi vediamo dominante e dominare tutta la scena non solo economica ma anche politica e istituzionale, a causa del fatto che da un certo punto in poi, gli ex comunisti e gli ex socialisti, in senso contrario alla Costituzione, sono stati disposti a riconoscere a tale potere classista la rappresentanza esclusiva degli interessi generali della società e dello stato.
Di questo occorre ricordarsi e discutere specialmente oggi ci troviamo con un governo favorevole ad un potere classista e del capitale – dai tempi del fascismo come del neofascismo -, che tenta di occultare dietro la ipostatizzazione degli eventi rotanti attorno alla propria accettazione subalterna all’atlantismo e all’europeismo, al capitalismo e al mercato euro-atlantico e alla strategia di guerra angloamericana, un indirizzo politico autoritario e centralisti, obbediente alle sollecitazioni a favore della governabilità e contro la democraticità, da parte delle imprese.
Per cui non solo non vanno isolate le questioni “istituzionali” da quelle economiche-sociali, ma occorre sottolineare sia la loro stretta interdipendenza sia la convergente linea di incostituzionalità che ciascuna di essa esprime: cosa che va tempestivamente rilevata sia che ci si orienti verso modifiche con leggi di “revisione costituzionale” sia che si apprestino leggi ordinarie.
Cosi come la questione del capitale e la questione dello stato sono due facce di una stessa analisi che non sia espressione di subalternità culturale, due facce di una stessa analisi se il marxismo viene assunto come visione non “totalizzante” ma “organica” e “totale” certamente.
Angelo Ruggeri


06 Giu 2025
Posted by Iskra
