di Antonio Gramsci, dai “Quaderni del carcere” (risalente agli anni 1931-34).
Alcuni principi della pedagogia moderna. Cercare l’origine storica esatta di alcuni principi della pedagogia moderna: la scuola attiva ossia la collaborazione amichevole tra maestro e alunno; la scuola all’aperto; la necessità di lasciar libero, sotto il vigile ma non appariscente controllo del maestro, lo sviluppo delle facoltà spontanee dello scolaro. La Svizzera ha dato un grande contributo alla pedagogia moderna (Pestalozzi, ecc.), per la tradizione ginevrina di Rousseau; in realtà questa pedagogia è una forma confusa di filosofia connessa ad una serie di regole empiriche. Non si è tenuto conto che le idee di Rousseau sono una reazione violenta alla scuola e ai metodi pedagogici dei gesuiti e in quanto tali rappresentano un progresso: ma si è poi formata una specie di chiesa che ha paralizzato gli studi pedagogici e ha dato luogo a delle curiose involuzioni (nelle dottrine di Gentile e del Lombardo-Radice). La “spontaneità” è una di queste involuzioni: si immagina quasi che nel bambino il cervello sia come un gomitolo che il maestro aiuta a sgomitolare. In realtà ogni generazione educa la nuova generazione, cioè la forma e l’educazione è una lotta contro gli istinti legati alle funzioni biologiche elementari, una lotta contro la natura, per dominarla e creare l’uomo “attuale” alla sua epoca. Non si tiene conto che il bambino, da quando incomincia a “vedere e a toccare”, forse da pochi giorni dopo la nascita, accumula sensazioni e immagini, che si moltiplicano e diventano complesse con l’apprendimento del linguaggio. La “spontaneità”, se analizzata, diventa sempre più problematica. Inoltre la “scuola” cioè l’attività educativa diretta, è solo una frazione della vita dell’alunno, che entra in contrasto sia con la società umana che con la societas rerum e si forma criteri da queste fonti “extrascolastiche” molto più importanti di quanto comunemente si creda. La scuola unica, intellettuale e manuale, ha anche questo vantaggio che pone contemporaneamente il bambino con la storia umana e con la storia delle “cose” sotto il controllo del maestro.
Pedagogia meccanicistica e idealistica. Per costruire un compiuto saggio su Antonio Labriola occorre tener presenti, oltre gli scritti suoi, che sono scarsi e spesso soltanto allusivi o estremamente sintetici, anche gli elementi e i frammenti di conversazione riferiti dai suoi amici ed allievi (il Labriola ha lasciato memoria di eccezionale “conversatore”). Nei libri di B. Croce, sparsamente, si possono raccogliere parecchi di tali elementi e frammenti. Così nelle Conversazioni critiche (serie seconda), pp. 60-61: “Come fareste ad educare moralmente un papuano?” domandò uno di noi scolari, tanti anni fa al prof. Labriola, in una delle sue lezioni di pedagogia, obiettando contro l’efficacia della pedagogia. “Provvisoriamente (rispose con vichiana ed hegeliana asprezza l’hebartiano professore), provvisoriamente lo farei schiavo; e questa sarebbe la pedagogia del caso, salvo a vedere se pei suoi nipoti e pronipoti si potrà cominciare ad adoperare qualcosa della pedagogia nostra”. Questa risposta del Labriola è da avvicinare alla intervista da lui data sulla quistione coloniale (Libia) verso il 1903 e riportata nel volume degli Scritti vari di filosofia e politica. E’ da avvicinare anche al modo di pensare del Gentile per ciò che riguarda l’insegnamento religioso nelle scuole primarie. Pare si tratti di uno pseudo-storicismo, di un meccanicismo abbastanza empirico e molto vicino al più volgare evoluzionismo. Si potrebbe ricordare ciò che dice Bertrando Spaventa a proposito di quelli che vorrebbero tenere sempre gli uomini in culla (cioè nel momento dell’autorità, che pure educa alla libertà i popoli immaturi) e pensano tutta la vita (degli altri) come una culla (1). Mi pare che storicamente il problema sia da porre in altro modo: se, cioè, una nazione o un gruppo sociale che è giunto a un grado superiore di civiltà non possa (e quindi debba) “accelerare” il processo di educazione dei popoli e dei gruppi sociali più arretrati, universalizzando e traducendo in modo adeguato la sua nuova esperienza. Così quando gli inglesi arruolano reclute tra popoli primitivi, che non hanno mai visto un fucile moderno, non istruiscono queste reclute all’impiego dell’arco, del boomerang, della cerbottana, ma proprio le istruiscono al maneggio del fucile, sebbene le norme di istruzione siano necessariamente adattate alla “mentalità” di quel determinato popolo primitivo. Il modo di pensare implicito nella risposta del Labriola non pare pertanto dialettico e progressivo, ma piuttosto meccanico e retrivo, come quello “pedagogico” religioso del Gentile che non è altro che una derivazione del concetto che la “religione è buona per il popolo” (popolo=fanciullo=fase primitiva del pensiero cui corrisponde la religione ecc.), cioè la rinunzia (tendenziosa) a educare il popolo. Nella intervista sulla quistione coloniale il meccanismo implicito nel pensiero del Labriola appare anche più evidente. Infatti: può darsi benissimo che sia “necessario ridurre i papuani alla schiavitù” per educarli, ma non è meno necessario che qualcuno affermi che ciò non è necessario che contingentemente, perché esistono determinate condizioni, che cioè questa è una necessità “storica” e non assoluta: è necessario anzi che ci sia una lotta in proposito, e questa lotta è proprio la condizione per cui i nipoti o pronipoti del papuano saranno liberati dalla schiavitù e saranno educati con la pedagogia moderna. Che ci sia chi affermi recisamente che la schiavitù dei papuani non è che una necessità del momento; e che ci si ribelli contro tale necessità è anch’esso un fatto filosofico-storico: 1) perché contribuirà a ridurre al tempo necessario il periodo di schiavitù; 2) perché indurrà gli stessi papuani a riflettere su se stessi, ad autoeducarsi, in quanto sentiranno di essere appoggiati da uomini di civiltà superiore; 3) perché solo questa resistenza mostra che si è realmente in un periodo superiore di civiltà e di pensiero, ecc. Lo storicismo del Labriola e del Gentile è di un genere molto scadente: è lo storicismo dei giuristi per i quali il knut non è un knut quando è un knut “storico”. Si tratta d’altronde di un modo di pensare molto nebuloso e confuso. Che nelle scuole elementari sia necessaria una esposizione “dogmatica” delle nozioni scientifiche o sia necessaria una “mitologia” non significa che il dogma debba essere quello religioso e la mitologia quella determinata mitologia. Che un popolo o un gruppo sociale arretrato abbia bisogno di una disciplina esteriore coercitiva per essere educato civilmente, non significa che debba essere ridotto in schiavitù; a meno che non si pensi che ogni coercizione statale è schiavitù. C’è una coercizione di tipo militare anche per il lavoro che si può applicare anche alla classe dominante, e che non è “schiavitù”, ma l’espressione adeguata della pedagogia moderna rivolta ad educare un elemento immaturo (che è bensì immaturo, ma è tale vicino ad elementi già maturi, mentre la schiavitù organicamente è l’espressione di condizioni universalmente immature). Lo Spaventa, che si metteva dal punto di vista della borghesia liberale contro i “sofismi” storicistici delle classi retrive, esprimeva, in forma sarcastica, una concezione ben più progressiva e dialettica che non il Labriola e il Gentile.
L’Umanesimo. Studiare la riforma pedagogica introdotta dall’Umanesimo: la sostituzione della “composizione scritta” alla “disputa orale”, per esempio, che ne è uno degli elementi “pratici” più significativi. (ricordare alcune note sul modo di diffusione della cultura per via orale, per discussione dialogica, attraverso l’oratoria, che determina un’argomentazione poco rigorosa, e produce la convinzione immediata più che altro per via emotiva).
Ordine intellettuale e morale. Brani del libro Lectures and Essays on University Subjects del cardinale Newman. Anzitutto e in linea generalissima, la università ha il compito umano di educare i cervelli a pensare in modo chiaro, sicuro e personale, districandoli dalle nebbie e dal caos in cui minacciava di sommergerli una cultura inorganica, pretenziosa e confusionaria, ad opera di letture male assortite, conferenze più brillanti che solide, conversazioni e discussione senza costrutto: ” Un giovane d’intelletto acuto e vivace, sfornito di una solida preparazione, non ha di meglio da presentare che un coacervo di idee, quando vere quando false, che per lui hanno lo stesso valore. Possiede un certo numero di dottrine e di fatti, ma scuciti e dispersi, non avendo principi attorno ai quali raccoglierli e situarli. Dice, disdice e si contraddice, e quando lo si costringe a esprimere chiaramente il suo pensiero, non si raccapezza più. Scorge le obiezioni, meglio che le verità, propone mille quesiti ai quali nessuno saprebbe rispondere, ma intanto egli nutre la più alta opinione di sé e si adira con quelli che dissentono da lui”.
Il metodo che la disciplina universitaria prescrive per ogni forma di ricerca è ben altro e ben altro è il risultato: è “la formazione dell’intelletto, cioè un abito di ordine e di sistema, l’abito di riportare ogni conoscenza nuova a quelle che possediamo, e di aggiustarle insieme, e, quel che più importa, l’accettazione e l’uso di certi principi, come centro di pensiero… Là dove esiste una tale facoltà critica, la storia non è più un libro di novelle, né la biografia un romanzo; gli oratori e le pubblicazioni della giornata perdono la infallibilità; la eloquenza non vale più il pensiero, né le affermazioni audaci o le descrizioni colorite tengono il posto di argomenti”. La disciplina universitaria deve essere considerata come un tipo di disciplina per la formazione intellettuale attuabile anche in istituzioni non “universitarie” in senso ufficiale.
Le università italiane. Perché non esercitano nel paese quell’influsso di regolatrici della vita culturale che esercitano in altri paesi? Uno dei motivi deve ricercarsi in ciò che nelle università il contatto tra insegnanti e studenti non è organizzato. Il professore insegna dalla cattedra alla massa degli ascoltatori, cioè svolge la sua lezione, e se ne va. Solo nel periodo della laurea avviene che lo studente si avvicini al professore, gli chieda un tema e consigli specifici sul metodo della ricerca scientifica. Per la massa degli studenti i corsi non sono altro che una serie di conferenze, ascoltate con maggiore o minore attenzione, tutte o solo una parte: lo studente si affida alle dispense, all’opera che il docente stesso ha scritto sull’argomento o alla bibliografia che ha indicato. Un maggior contatto esiste tra i singoli insegnanti e singoli studenti che vogliono specializzarsi su una determinata disciplina: questo contatto si forma, per lo più, casualmente ed ha una importanza enorme per la continuità accademica e per la fortuna delle varie discipline. Si forma, per esempio, per cause religiose, politiche, di amicizia famigliare. Uno studente diventa assiduo di un professore, che lo incontra in biblioteca, lo invita a casa, gli consiglia libri da leggere e ricerche da tentare. Ogni insegnante tende a formare una sua “scuola”, ha suoi determinati punti di vista (chiamati “teorie”) su determinate parti della sua scienza, che vorrebbe veder sostenuti da “suoi seguaci o discepoli”. Ogni professore vuole che dalla sua università, in concorrenza con le altre, escano giovani “distinti” che portino contributi “seri” alla sua scienza. Perciò nella stessa facoltà c’è concorrenza tra professori di materie affini per contendersi certi giovani che si siano già distinti con una recensione o un articoletto o in discussioni scolastiche (dove se ne fanno). Il professore allora guida veramente il suo allievo; gli indica un tema, lo consiglia nello svolgimento, gli facilita le ricerche, con le sue conversazioni assidue accelera la sua formazione scientifica, gli fa pubblicare i primi saggi nelle riviste specializzate, lo mette in rapporto con altri specialisti e lo accaparra definitivamente. Questo costume, salvo casi specifici di camorra, è benefico, perché integra la funzione delle università. Dovrebbe, da fatto personale, da iniziativa personale, diventare funzione organica: non so fino a che punto, ma mi pare che i seminari di tipo tedesco, rappresentino questa funzione o cerchino di svolgerla. Intorno a certi professori c’è ressa di procaccianti, che sperano raggiungere più facilmente una cattedra universitaria. Molti giovani invece, che vengono dai licei di provincia specialmente, sono spaesati e nell’ambiente sociale universitario e nell’ambiente di studio. I primi sei mesi del corso servono per orientarsi sul carattere specifico degli studi universitari e la timidezza nei rapporti personali è immancabile tra docente e discepolo. Nei seminari ciò non si verificherebbe o almeno non nella stessa misura. In ogni modo, questa struttura generale della vita universitaria non crea, già all’università, alcuna gerarchia intellettuale permanente tra professori e massa di studenti; dopo l’università anche quei pochi legami si sciolgono e nel paese manca ogni struttura culturale che si impernii sull’università. Ciò ha costituito uno degli elementi della fortuna della diade Croce-Gentile, prima della guerra, nel costituire un gran centro di vita intellettuale nazionale; tra l’altro essi lottavano anche contro l’insufficienza della vita universitaria e la mediocrità scientifica e pedagogica (talvolta anche morale) degli insegnanti ufficiali.
Quistioni scolastiche. Confrontare l’articolo Il facile e il difficile di Metron nel “Corriere della Sera” del 7 gennaio 1932. Metron fa due osservazioni interessanti (riferendosi ai corsi d’ingegneria e agli esami di Stato per gli ingegneri): 1) che durante il corso l’insegnante parla per cento e lo studente assorbe per uno o due; 2) che negli esami di Stato i candidati sanno rispondere alle quistioni “difficili” e falliscono nelle quistioni “facili”. Metron non analizza però esattamente le ragioni di questi due problemi e non indica nessun rimedio “tendenziale”. Mi pare che le due deficienze siano legate al sistema scolastico delle lezioni-conferenze senza “seminario” e al carattere tradizionale degli esami che ha creato una psicologia tradizionale degli esami. Appunti e dispense. Gli appunti e le dispense si formano specialmente sulle quistioni “difficili”: nell’insegnamento stesso si insiste sul “difficile”, nell’ipotesi di un’attività indipendente dello studente per le “cose facili”. Quanto più si avvicinano gli esami tanto più si riassume la materia del corso, fino alla vigilia, quando si “ripassano” solo appunto le quistioni più difficili: lo studente è come ipnotizzato dal difficile, tutte le sue facoltà mnemoniche e la sua sensibilità intellettuale si concentrano sulle quistioni difficili ecc. Per l’assorbimento minimo: il sistema delle lezioni-conferenze porta l’insegnante a non ripetersi o a ripetersi il meno possibile: le quistioni sono così presentate solo entro un quadro determinato, ciò che le rende unilaterali per lo studente. Lo studente assorbe uno o due del cento detto dall’insegnante: ma se il cento è formato di cento unilateralità diverse, l’assorbimento non può essere che molto basso. Un corso universitario è concepito come un libro sull’argomento. Ma si può diventare colti con la lettura di un solo libro? Si tratta quindi della quistione del metodo nell’insegnamento universitario: all’università si deve studiare o studiare per saper studiare? Si devono studiare “fatti” o il metodo per studiare i “fatti”? La pratica del “seminario” dovrebbe appunto integrare e vivificare l’insegnamento orale.
Scuole progressive. Nel “Marzocco” del 13 settembre 1931, G. Ferrando esamina un lavoro di Carleton Washburne, pedagogista americano, che è venuto appositamente in Europa per vedere come funzionano le nuove scuole progressiste, ispirate al principio dell’autonomia dell’alunno e della necessità di soddisfare per quanto è possibile i suoi bisogni intellettuali (New School in the old World by CARLETON WASHBURNE, New York, The John Day Company, 1930). Il Washburne descrive dodici scuole, tutte diverse fra loro, ma tutte animate da uno spirito riformatore, in alcune temperato e che si innesta sul vecchio tronco della scuola tradizionale, mentre in altre assume un carattere addirittura rivoluzionario. Cinque di queste scuole sono in Inghilterra, una nel Belgio, una in Olanda, una in Francia, una in Svizzera, una in Germania e due in Cecoslovacchia e ognuna ci presenta un aspetto del complesso sistema educativo.
La Public School di Oundle, una delle più antiche scuole inglesi, si differenzia dalle scuole dello stesso tipo solo perché accanto ai corsi teorici di materie classiche e scientifiche ha istituito dei corsi manuali e pratici. Tutti gli studenti sono obbligati a frequentare a loro scelta un’officina meccanica o un laboratorio scientifico: il lavoro manuale si accompagna col lavoro intellettuale e sebbene non ci sia nessuna relazione diretta tra i due, pure l’alunno impara ad applicare le sue cognizioni e sviluppa le sue capacità pratiche. [Questo esempio mostra come sia necessario definire esattamente il concetto di scuola unitaria in cui il lavoro e la teoria sono strettamente riuniti: l’accostamento meccanico delle due attività può essere uno snob. Si sente dire di grandi intellettuali che si divagano facendo i tornitori, i falegnami, i legatori di libri, ecc.; non si dirà per questo che siano un esempio di unità del lavoro manuale e intellettuale. Molte di tali scuole moderne sono appunto di stile snobistico che non ha niente che vedere (altro che superficialmente) colla quistione di creare un tipo di scuola che educhi le classi strumentali e subordinate a un ruolo dirigente nella società, come complesso e non come singoli individui].
La scuola media femminile di Streatham Hell applica il sistema Dalton (che il Ferrando chiama “uno sviluppo del metodo Montessori”); le ragazze sono libere di seguire le lezioni, pratiche e teoriche, che desiderano, purché alla fine di ogni mese abbiano svolto il programma loro assegnato; la disciplina delle varie classi è affidata alle alunne. Il sistema ha un grave difetto: le alunne in genere rimandano agli ultimi giorni del mese lo svolgimento del loro compito, ciò che nuoce alla serietà della scuola e costituisce un inconveniente serio per le insegnanti che debbono aiutarle e sono sopraffatte dal lavoro, mentre nelle prime settimane hanno poco o nulla da fare. [Il sistema Dalton non è che l’estensione alle scuole medie del metodo di studio seguito nelle università italiane, che all’alunno lasciano tutta la libertà per lo studio: in certe facoltà si danno venti esami al quarto anno di università e poi la laurea, e il professore non conosce neanche l’alunno].
Nel piccolo villaggio di Kearsley, E.F. O’Neill ha fondato una scuola elementare in cui è abolito “ogni programma e ogni metodo didattico”. Il maestro cerca di rendersi conto di quello che i bambini hanno bisogno di apprendere e comincia poi a parlare su quel dato argomento, mirando a risvegliare la loro curiosità e il loro interesse; appena vi è riuscito, lascia che essi continuino per conto proprio, limitandosi a rispondere alle loro domande e a guidarli nella loro ricerca. Questa scuola, che rappresenta una reazione contro tutte le formule, contro l’insegnamento dommatico, contro la tendenza a rendere l’istruzione meccanica, “ha dato risultati sorprendenti”; i bambini si appassionano talmente alle lezioni che talvolta rimangono a scuola fino a sera tardi, si affezionano ai loro maestri che sono per loro dei compagni e non degli autocratici pedagoghi e ne subiscono l’influenza morale; anche intellettualmente il loro progresso è assai superiore a quello degli alunni delle scuole comuni. [E’ molto interessante come tentativo, ma potrebbe essere universalizzato? Si troverebbero i maestri sufficienti numericamente allo scopo? E non ci saranno inconvenienti che non sono riferiti, come per esempio quello dei bambini che devono abbandonare la scuola ecc. ? potrebbe essere una scuola di élites o un sistema di “doposcuola”, in sostituzione della vita familiare].
Un gruppo di scuole elementari di Amburgo: libertà assoluta ai bambini; nessuna distinzione di classi, non materie di studio, non insegnamento nel senso preciso della parola. L’istruzione dei bambini deriva solo dalle domande che essi rivolgono ai maestri e dall’interesse che dimostrano per un dato fatto. Il direttore di queste scuole, signor Gläser, sostiene che l’insegnante non ha diritto neppure di stabilire quello che i ragazzi debbono imparare; egli non può sapere quello che essi diverranno nella vita, come ignora per quale tipo di società essi debbono essere preparati; l’unica cosa che egli sa è che essi “posseggono un’anima che deve essere sviluppata” e quindi egli deve cercare di offrir loro tutte le possibilità di manifestarsi. Per Gläser l’educazione consiste “nel liberare l’individualità di ogni alunno, nel permettere alla sua anima di aprirsi e di espandersi”. In otto anni gli allievi di queste scuole hanno ottenuto risultati buoni.
Le altre scuole di cui il Washburne parla sono interessanti perché sviluppano certi aspetti del problema educativo; così per esempio la scuola “progressista” del Belgio si fonda sul principio che i bambini imparano venendo in contatto con il mondo e insegnando agli altri. La scuola Cousinet in Francia sviluppa l’abitudine allo sforzo collettivo, alla collaborazione. Quella di Glarisegg in Svizzera insiste in special modo nello sviluppare il senso della libertà e responsabilità morale di ciascun alunno, ecc. [E’ utile seguire tutti questi tentativi che non sono altro che “eccezionali” forse più per vedere ciò che non occorre fare che per altro].
L’orientamento professionale. Confrontare lo studio del Padre Brucculeri nella “Civiltà Cattolica” del 6 ottobre, 3 novembre, 17 novembre 1928: vi si può trovare il primo materiale per una prima impostazione delle ricerche in proposito. Lo studio della quistione è complesso: 1) perché nella situazione attuale di divisione sociale delle funzioni, certi gruppi sono limitati nella loro scelta professionale (intesa in senso largo) da diverse condizioni economiche (non poter attendere) e tecniche (ogni anno di più di scuola modifica le disposizioni generali in che deve scegliere la professione); 2) perché deve sempre esser tenuto presente il pericolo che gli istituti chiamati a giudicare sulle disposizioni del soggetto, lo indichino come capace di fare un certo lavoro anche quando egli non voglia accettare (questo caso è da tener presente dopo l’introduzione della razionalizzazione ecc.; la quistione non è puramente tecnica, è anche salariale. L’industria americana si è servita degli alti salari per “selezionare” gli operai dell’industria razionalizzata, almeno entro una certa misura: altre industrie invece, ponendo avanti questi schemi scientifici e pseudo-scientifici, possono tendere a “costringere” tutte le maestranze tradizionali a lasciarsi razionalizzare senza aver ottenuto le possibilità salariali per un sistema di vita appropriato, che permetta di reintegrare le maggiori energie nervose consumate. Ci si può trovare dinanzi a un vero pericolo sociale; il regime salariale attuale è basato specialmente sulla reintegrazione di forze muscolari. L’introduzione della razionalizzazione senza un cambiamento di sistema di vita, può portare a un rapido logoramento nervoso e determinare una crisi di morbosità inaudita). Lo studio della quistione deve poi esser fatto dal punto di vista della scuola unica del lavoro.
Servizi pubblici. Servizi pubblici intellettuali: oltre la scuola, nei vari gradi, quali altri servizi non possono essere lasciati all’iniziativa privata, ma in una società moderna, devono essere assicurati dallo Stato e dagli enti locali (comuni e province)? Il teatro, le biblioteche, i musei di vario genere, le pinacoteche, i giardini zoologici, gli orti botanici, ecc. E’ da fare una lista di istituzioni che devono essere considerate di utilità per l’istruzione e la cultura pubblica e che tali sono infatti considerate in una serie di Stati, le quali non potrebbero essere accessibili al grande pubblico (e si ritiene, per ragioni nazionali, devono essere accessibili) senza un intervento statale. E’ da osservare che proprio questi servizi sono da noi trascurati quasi del tutto; tipico esempio le biblioteche e i teatri. I teatri esistono in quanto sono un affare commerciale: non sono considerati servizio pubblico. Data la scarsezza del pubblico teatrale e la mediocrità delle città, in decadenza. In Italia invece abbondanti le opere pie e i lasciti di beneficenza: forse più che in ogni altro paese. E dovuti all’iniziativa privata. E’ vero che male amministrati e mal distribuiti. [Questi elementi sono da studiare come nessi nazionali tra governanti e governati, come fattori di egemonia -. Beneficenza elemento di “paternalismo”; servizi intellettuali elementi di egemonia, ossia di democrazia in senso moderno].
Le biblioteche popolari. ETTORE FABIETTI, Il primo venticinquennio delle Biblioteche popolari milanesi, “Nuova Antologia”, I° ottobre 1928. Articolo molto utile per le informazioni che dà sull’origine e sullo sviluppo di questa istituzione che è stata la più cospicua iniziativa per la cultura popolare del tempo moderno. L’articolo è abbastanza serio, sebbene il Fabietti abbia dimostrato di non essere lui molto serio: bisognerà riconoscergli tuttavia molte benemerenze e una indiscutibile capacità organizzativa nel campo della cultura operaia in senso democratico. Il Fabietti mette in luce come gli operai fossero i migliori “clienti” delle biblioteche popolari: curavano i libri, non li smarrivano [a differenza delle altre categorie di lettori: studenti, impiegati, professionisti, donne di casa, benestanti (?), ecc.]: le letture di “belletristica” rappresentavano una percentuale relativamente bassa, inferiore a quella di altri paesi: operai che proponevano di pagar la metà di libri costosi pur di poterli leggere: operai che davano oblazioni fino di cento lire alle biblioteche popolari; un operaio tintore divenuto “scrittore” e traduttore dal francese con le letture e gli studi fatti nelle biblioteche popolari ma che continuava a rimanere operaio.
La letteratura delle biblioteche popolari milanesi dovrà essere studiata per avere spunti “reali” sulla cultura popolare: quali libri più letti come categoria e come autori ecc.; pubblicazioni delle biblioteche popolari, loro carattere, tendenza ecc. Come mai una tale iniziativa solo a Milano in grande stile? Perché non a Torino o in altre grandi città? Carattere e storia del “riformismo” milanese; università popolare, Umanitaria, ecc. Argomento molto interessante ed essenziale (2).
Le accademie. Funzione che esse hanno avuto nello sviluppo della cultura in Italia, nel cristallizzarla e nel farne una cosa da museo, lontana dalla vita nazionale-popolare (ma le accademie sono state causa o effetto? Non si sono moltiplicate forse per dare una soddisfazione parziale all’attività che non trovava sfogo nella vita pubblica ecc.?)
L’Encyclopédie (ediz. del 1778) assicura che l’Italia contava allora 550 Accademie.
Cultura italiana e francese e accademie. Un confronto delle culture italiana e francese può essere fatto confrontando l’Accademia della Crusca e l’Accademia degli Immortali. Lo studio della lingua è alla base di ambedue: ma il punto di vista della Crusca è quello del “linguaiolo”, dell’uomo che si guarda continuamente la lingua. Il punto di vista francese è quello della “lingua” come concezione del mondo, come base elementare, popolare-nazionale dell’unità della civiltà francese. Perciò l’Accademia Francese ha una funzione nazionale di organizzazione dell’alta cultura, mentre la Crusca… (qual è l’attuale posizione della Crusca? Essa ha certamente cambiato carattere: pubblica testi critici, ecc.; ma il Dizionario in che posizione si trova nei suoi lavori?)
Bibliografia. In altra nota, ho accennato alle Accademie italiane e all’utilità di averne una lista ragionata. Nella “Nuova Antologia” del I° settembre 1929 (p.129) è annunziato un libro di E. SALARIS, Attraverso gli Istituti culturali italiani, opera di prossima pubblicazione sulle Accademie d’Italia.
La Federazione delle Unioni Intellettuali. Il principe Carlo di Rohan ha fondato nel 1904 la Federazione delle Unioni Intellettuali e dirige una rivista (“Europäische Gespräche”). Gli italiani partecipano a questa federazione: il suo Congresso del ’25 è stato tenuto a Milano. L’Unione italiana è presieduta da S.E. l’on. Vittorio Scialoja. Nel 1927 il di Rohan ha pubblicato un libro sulla Russia (Moskau – Ein Skizzenbuch aus Sowietrussland, Verlag G. Braun in Karlsruhe), dove aveva fatto un viaggio. Il libro deve essere interessante data la personalità sociale dell’autore. Egli conclude che la Russia “seinen Weg gefunden hat”
Organizzazione della vita culturale. Studiare la storia della formazione e della attività della “Società Italiana per il progresso della Scienza”. Sarà da studiare anche la storia della “Associazione britannica” che mi pare sia stata il prototipo di questo genere di organizzazioni private. La caratteristica più feconda della “Società Italiana” è nel fatto che essa raggruppa tutti gli “amici della scienza”, chierici e laici, per così dire, specialisti e “dilettanti”.
Essa dà il tipo embrionale di quell’organismo che ho abbozzato in altre note, nel quale dovrebbe confluire e rinsaldarsi il lavoro delle Accademie e delle università con le necessità di cultura scientifica delle masse nazionali-popolari, riunendo la teoria e la pratica, il lavoro intellettuale e quello industriale che potrebbe trovare la sua radice nella “scuola unica”.
Lo stesso potrebbe dirsi del Touring Club, che è essenzialmente una grande associazione di amici della geografia e dei viaggi, in quanto si incorporano in determinate attività sportive (turismo=geografia sport), cioè la forma più popolare e dilettantesca dell’amore per la geografia e per le scienze che vi si connettono (geologia, mineralogia, botanica, speleologia, cristallografia, ecc.). Perché dunque il Touring Club non dovrebbe organicamente connettersi con gli Istituti di geografia e con le Società geografiche? C’è il problema internazionale: il Touring ha un quadro essenzialmente nazionale, mentre le società geografiche si occupano di tutto il mondo geografico. Connessione del turismo con le società sportive, con l’alpinismo, canottaggio ecc., escursionismo in genere: connessione con le arti figurative e con la storia dell’arte in generale. In realtà potrebbe connettersi con tutte le attività pratiche, se le escursioni nazionali e internazionali si collegassero con periodi di ferie (premio) per il lavoro industriale e agricolo.
I libri. Si insiste molto sul fatto che sia aumentato il numero dei libri pubblicati. L’Istituto italiano del Libro comunica che la media annuale del decennio 1908-1918 è stata esattamente di 7300. I calcoli fatti per il 1929 (i più recenti) danno la cifra di 17.718 (libri ed opuscoli; esclusi quelli della Città del Vaticano, di San Marino, delle colonie e delle terre di lingua italiana non facenti parte del Regno). Pubblicazioni polemiche e quindi tendenziose. Bisognerebbe vedere: 1) se le cifre sono omogenee, cioè se si calcola oggi come nel passato, ossia se non è cambiato il tipo dell’unità editoriale base; 2) bisogna tener conto che nel passato la statistica libraria era molto approssimativa e incerta (ciò si osserva per tutte le statistiche, per es. quella della raccolta del grano; ma è specialmente vero per i libri: si può dire che oggi non solo è mutato il tipo di unità calcolata, ma niente sfugge all’accertamento statistico); 3) è da vedere se e come è mutata la composizione organica del complesso librario: è certo che si sono moltiplicate le case editrici cattoliche, per esempio, e quindi la pubblicazione di opericciuole senza nessuna importanza culturale (così si sono moltiplicate le edizioni scolastiche cattoliche ecc.). In questo calcolo occorrerebbe tener conto delle tirature, e ciò specialmente per i giornali e le riviste. Si legge meno o più? E chi legge meno o più? Si sta formando una “classe media colta” più numerosa che in passato, che legge di più, mentre le classi popolari leggono molto meno; ciò appare dal rapporto tra libri, riviste e giornali. I giornali sono diminuiti di numero e stampano meno copie; si leggono più riviste e libri (cioè ci sono più lettori di libri e riviste). Cfr. tra Italia e altri paesi nei modi di fare la statistica libraria e nella classificazione per gruppi di ciò che si pubblica.
(1) Hegel aveva affermato che la servitù è la culla della libertà. Per Hegel, come per il Machiavelli, il “principato nuovo” (cioè il periodo dittatoriale che caratterizza gli inizi di ogni nuovo tipo di Stato) e la connessa servitù è giustificata solo come educazione e disciplina dell’uomo non ancora libero. Però B. Spaventa (Principi di etica, Appendice, Napoli, 1904) commenta opportunamente: “Ma la culla non è la vita. Alcuni ci vorrebbero sempre in culla“. Un esempio tipico della culla che diventa tutta la vita è offerto dal protezionismo doganale, che è sempre propugnato e giustificato come “culla” ma tende a diventare una culla eterna.
(2) Cfr. l’interessante articolo di ALFREDO FABIETTI, Per la sistemazione delle Biblioteche Pubbliche “nazionali” e “popolari”, nella “Nuova Antologia” del I° aprile 1930.