UNA RILETTURA DELLA VICENDA ATTRAVERSO I DOCUMENTI
DEL GABINETTO DELLA PREFETTURA DI BOLOGNA
Il 4 aprile, giorno precedente la data del comizio, il comandante la Compagnia dei Reali Carabinieri di Bologna inviava un fonogramma al Prefetto di Bologna, avente ad oggetto “Disoccupazione e Patto colonico”, per fare presente che nella zona potevano esserci turbamenti dell’ordine pubblico essendo state richieste, ed ottenute, ben tre manifestazioni sindacali.
Il fonogramma così segnalava gli avvenimenti:
Partecipasi che oggi nel pomeriggio in Persiceto i braccianti terranno una riunione per discutere sulla disoccupazione. Domani, pure in Persiceto i contadini terranno una riunione privata per discutere sul patto colonico.
A Decima alle ore 17 di domani avrà luogo un pubblico comizio sulla “agitazione dei coloni”. Oratori: CAMPAGNOLI, CAMASTRI [Comastri, n.d.r.], BONAZZI della vecchia camera del lavoro.
Provveduto per la tutela dell’ordine pubblico.
…
La repressione attuata a Decima fu uno dei più gravi fatti di sangue mai accaduti nel Paese; anche perchè venne attuato “a freddo”, non vi erano infatti particolari problemi sociali che richiedessero tale violenta risposta, se non le varie difficoltà dell’allora governo Nitti e quelle dell’Associazione Agraria bolognese di fronte alla compattezza delle Leghe bracciantili per il rinnovo del Capitolato colonico.
“Hanno fatto un camposanto … !”- Con questa frase una popolana sintetizzò ad un giornalista, a poche ore dal fatto, il gravissimo eccidio perpetrato a San Matteo della Decima di Persiceto il 5 aprile 1920.
In effetti così, certamente, apparve a Decima il cortile delle scuole, la strada e l’argine del canale che lo costeggiano, con i morti istantaneamente e le decine e decine di feriti, dopo la sparatoria dei carabinieri che troncò il comizio che vi si svolgeva. L’eccidio, peraltro, con le sue otto vittime, fu uno dei più gravi che tutta la storia moderna d’Italia ricordi.
Prefazione
Raramente nelle inchieste focalizzate sulla storia locale il ricercatore va oltre il recinto angusto in cui confina la propria indagine. Ai limiti di spazio e di tempo, che ancorano la ricerca al livello della semplice cronaca dei fatti e della descrizione dei personaggi, dentro l’orizzonte limitato del folklore paesano e del bozzetto color seppia, quasi sempre si sommano limiti di altra natura, se lo storico non si dota di strumenti critici adeguati e se evita di esplicitare la propria posizione soggettiva, di persona che non rinuncia alla sua visione del mondo. Ognuno di noi infatti ha una sua collocazione culturale e politica – come è logico che sia – che emerge dalle sue parole, dal suo stile di vita, dalle sue frequentazioni. Lo storico non fa eccezione: ha la sua chiave di lettura, in base alla quale seleziona dalla mole dei documenti quelli che gli permettono di allineare i dati con un certo ordine, per dare loro un senso.
Ogni storico, diceva Marc Bloch, ha la sua “direzione di marcia”, la sua visione delle cose. Man mano che i dati confermano o contraddicono la sua tesi, egli modifica, arricchisce o ridimensiona la propria narrazione; si stabilisce così una dialettica continua fra la sua posizione teorica e la materia pragmatica che cresce di giorno in giorno, alimentata dalle fonti archivistiche e dalle testimonianze orali. Nello stesso tempo lo storico vive immerso nel presente, con le sue tensioni, i suoi problemi e le sue discussioni, che inevitabilmente modificano ogni giorno il rapporto del presente con il passato, perché spostano di continuo il punto di osservazione. Accade però che molti affidino alla memoria soltanto il ricordo del passato, mentre invece sarebbe utile affidarle anche il compito di comprendere il presente.
William Pedrini evita di cadere nelle trappole del localismo, del bozzettismo, del pressappochismo, dell’uso rituale e retorico della memoria del passato, dell’ipocrisia di chi si presenta al lettore come un signore “super partes”. Il nostro autore allarga infatti i confini spaziali e cronologici della sua indagine per mostrare come l’eccidio di Decima non fosse né il primo né l’ultimo di una strategia di violenza estesa a tutta l’Italia, nella quale giocarono il loro ruolo anche i Regi Carabinieri. Le sintetiche biografie dei personaggi sono utilizzate per tratteggiare la loro mentalità e comprendere meglio le loro azioni e le loro reazioni nella lunga vertenza agraria che si trascinava da prima della Grande Guerra. Il montaggio impeccabile di una serie interessantissima di documenti della Prefettura di Bologna, molti dei quali inediti, dimostra senza alcun margine di dubbio che nell’eccidio di Decima i Regi Carabinieri rispondono puntualmente alle sollecitazioni telegrafiche di Nitti, presidente del Consiglio, che invitano le forze dell’ordine ad affrontare con le armi le agitazioni sindacali. Per riportare l’ordine e la legalità compromessi dalle agitazioni, “niuna esitanza niuna debolezza”, raccomanda il governo ai prefetti.
Apprezzo il fatto che Pedrini non finga ipocritamente di essere al di sopra delle parti. La sua simpatia per gli scioperanti, dichiarata esplicitamente fin dalle prime battute, è non solo una forma di rispetto verso il lettore, ma anche un’assunzione piena di responsabilità. Chi non prende posizione è sempre dalla parte del più forte, del prepotente, del delinquente, e contribuisce a bastonare il debole, il poveretto, la vittima. Fa bene dunque l’autore a chiarire subito da che parte sta: dalla parte della “canaglia pezzente”, del bracciante abbrutito dalla miseria, “apparentemente cretino”, “sovversivo” come tutti gli anarchici, i socialisti e repubblicani.
Ad alimentare una martellante campagna di stampa contro il sovversivismo caporettista erano gli agrari, autoproclamamatisi difensori del Paese, che indicavano nel “movimento sovvertitore” degli scioperanti il nemico della Patria. Il loro linguaggio riprendeva i temi e i toni della pubblicistica nazionalistica e della propaganda dello Stato Maggiore dell’esercito, concordi nell’attribuire la rotta di Caporetto, nella guerra da poco conclusa, al disfattismo dei socialisti. I vigliacchi e i disertori di ieri sono i sovversivi e i delinquenti di oggi: questo, in estrema sintesi, era il messaggio che le organizzazioni padronali e i partiti moderati lanciavano ai propri lettori. Era in atto una nuova guerra e occorreva difendere con ogni mezzo la Patria in pericolo. A Bologna costoro danno vita all’Associazione di Difesa Sociale, in cui troviamo l’Associazione Agraria, l’Associazione Industriale e commercianti, la Lega commercianti negozianti esercenti, l’Associazione Nazionale Ingegneri, la camera di Commercio, l’Unione Magistrale, la Camera del lavoro intellettuale, il Partito nazionalista, il Partito Liberale, il Partito popolare, i Fasci di Combattimento, l’Associazione Combattenti e il Provveditore agli Studi.
Per prima cosa l’Associazione Bolognese di Difesa Sociale arruolò 300 giovani armati, capeggiati da LeandroArpinati, per effettuare spedizioni punitive in tutta la provincia, dotandoli di un certo numero di camion, ufficialmente adibiti al trasporto di persone durante gli scioperi nei trasporti. Poiché i camion svolgevano un servizio di interesse pubblico, la Difesa Sociale chiese di essere esentata dal pagamento delle tasse dovute per gli automezzi adibiti al trasporto di persone, e il Governo rispose prontamente esaudendo la richiesta. Così i camion poterono scorrazzare in tutta la provincia, trasportando gli squadristi nelle loro spedizioni senza pagare il bollo, visto che svolgevano un pubblico servizio. L’episodio apparentemente marginale getta luce sulla genesi del fascismo: l’interazione fra ceti padronali, partiti moderati e squadre di picchiatori si avvale della complicità delle istituzioni, che ostacolano l’accertamento della verità, depistano e favoriscono in ogni caso i fascisti, rendendo possibile di qui a poco la presa del potere da parte di Mussolini.
Ecco allora che la narrazione di un fatto che appartiene alla cronaca di Decima diventa storia d’Italia, perché si colloca in un processo di costruzione del fascismo comune a tutto il nostro Paese, e ripropone nel micromondo della frazione persicetana le stesse pulsioni, i meccanismi e le contraddizioni della grande storia. Non è solo Decima il luogo in cui si attua l’eccidio: è l’Italia intera a diventare palcoscenico di una immane tragedia della quale nel 1920 si rappresenta l’anteprima. E Bologna la rossa sarà ancora, di qui a poco, l’epicentro di una violenza che si propone di rendere impossibile al sindaco socialista liberamente eletto di governare la città: il 21 novembre di quello stesso 1920 gli squadristi di Leandro Arpinati attaccano Palazzo d’Accursio con armi da guerra, provocando una strage e costringendo il sindaco alle dimissioni. Poi in tutti i comuni della Provincia i sindaci socialisti sono sistematicamente minacciati, assaliti, feriti, costretti a dimettersi.
Opportunamente Pedrini, allargando l’indagine al contesto sociale ed economico da cui scaturiscono miseria e malessere, sottolinea l’intreccio perverso fra repressione degli scioperi e politica economica dei governi. Alla violenza impunita degli squadristi e a quella dei Regi Carabinieri complici si sommava una tradizione di violenza economica tesa a far pagare il pareggio di bilancio ai poveri, che affondava le sue radici nella tassa sul macinato di cinquant’anni prima. Ma allora braccianti e operai non erano rappresentati in Parlamento, perché non avevano diritto di voto, e le Camere erano formate esclusivamente dai rappresentanti dell’aristocrazia e della borghesia. Nel 1920 invece, in seguito alla riforma elettorale giolittiana, i proletari, rappresentati dai socialisti, avevano ottenuto molti seggi, fatto, questo, molto preoccupante per i moderati e i reazionari. Ecco allora la decisione di contrastare le conquiste dei socialisti, ottenute legalmente, attraverso libere elezioni, in tutti i modi possibili, anche con il ricorso alla violenza squadristica.
Questa ricerca si presta ad essere utilizzata per interrogare in qualche misura anche il nostro presente alla luce degli avvenimenti del passato. È vero che l’organizzazione del lavoro e le dinamiche sociali si sono trasformate profondamente, e che le somiglianze fra situazioni lontane nel tempo sono controbilanciate da innegabili differenze, ma almeno su alcuni punti vale la pena di cogliere qualche analogia. Anche oggi come allora siamo in presenza di una profonda crisi economica e di una vasta disoccupazione; il lavoro è precario e mal pagato; non esiste più il collocamento pubblico; la politica economica, all’attacco del welfare, sembra concepita nel Far West; torna l’uso della polizia per reprimere gli scioperi e forzare i picchetti; le formazioni di estrema destra conseguono successi nelle tornate elettorali. Nel 1920 da quel groviglio di tensioni, nonostante la forza e l’organizzazione del partito socialista, scaturì il fascismo. Sarebbe bene non dimenticarlo.
Carlo D’Adamo