di Andrea Montella
Carissime compagne e compagni
riporto qui sotto due articoli del Corriere della Sera usciti lo stesso giorno ma che sembrano di due giornali differenti: uno di Paolo Mieli e l’altro di Paolo Giordano.
L’articolo di Paolo Giordano l’ho trovato molto interessante perché affronta una serie di problemi molto seri, come le persone siano lasciate in solitudine e non siano educate a fare argine al dilagare di comportamenti e propaganda nazifasciste.
Nelle cosiddette democrazie, anche se esistono delle leggi in tal senso, non vengono applicate perché i corpi dello Stato non sono immuni da tali ideologie. L’antifascismo è ben lontano da essere atteggiamento attivo nella società e nello Stato. Atteggiamento che può derivare solo da una capillare educazione antifascista, quindi da una diffusa pratica democratica, che inizia dal sistema elettorale proporzionale puro e senza sbarramenti, seguito poi da un sistema mediatico non asservito agli interessi economici dei proprietari.
Si fa da decenni esattamente il contrario sino a giungere a intaccare la Costituzione antifascista tramite l’articolo 81 sul pareggio del bilancio che ne fa saltare lo spirito solidaristico; si eliminano leggi in linea con la Costituzione, come l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, nascondendo così il ruolo positivo dei lavoratori e del loro Partito comunista dalla storia e dall’antifascismo. Inoltre non si rispetta l’articolo 11 della carta costituzionale che vieta la guerra, ma anzi si costruisce un esercito di contractors e li si manda su tutti gli scenari di guerra imperialisti; non si impediscono i raduni dei nazifascisti, non si sgomberano i locali e i palazzi occupati illegalmente da CasaPound, non si ricorda il ruolo dei fascisti in tutte le stragi avvenute in Italia, si continua nelle scuole, nelle università e sui media a dire che il Comunismo è un sistema peggiore del nazifascismo o equivalente, senza dire che le libertà e le conquiste sociali che oggi tentano di toglierci le dobbiamo essenzialmente al Movimento comunista che con la Rivoluzione d’Ottobre pose le basi del progresso politico sociale moderno. Insomma si fa della menzogna la regola, amplificandola volutamente sui social.
Tutto questo ha aperto le porte dell’inferno dell’antipolitica che poi si fa politica in senso fascista, per diventare in seguito un sistema capitalista totalitario.
Questa deriva verso il fascismo Paolo Mieli, stando a quello che scrive nel suo articolo, non la vede.
Anzi tenta di dimostrare che la democrazia è fortissima in Italia e che i tentativi golpisti o di involuzione reazionaria tentati sono falliti o non sono riusciti grazie alla saldezza del sistema, dimenticando di dire che quei tentativi si sono sgonfiati per la forza, anche militare dell’opposizione comunista, socialista e dei cattolici sociali, non disposti a certe svolte reazionarie.
Quindi il ragionamento sulla saldezza antifascista del nostro paese fa dire al nostro giornalista di razza che le frasi di Salvini prese da Mussolini come: “Noi tiriamo dritti”, “Tanti nemici, tanto onore” dette dal ministro degli Interni, non producono alcun effetto negativo nella nostra società.
Per confutare Paolo Mieli prendo in prestito le parole del filologo tedesco Victor Klemperer:
“Il linguaggio nazista cambia il valore e la frequenza delle parole, esso rende patrimonio comune ciò che prima apparteneva ad un singolo o ad un piccolo gruppo, esso confisca a favore del partito ciò che prima era patrimonio comune e con tutto questo inquina parole e gruppi di parole e frasi con il suo veleno, mette il linguaggio al servizio del suo terribile sistema, trasforma il linguaggio nel suo più forte, più noto e più segreto mezzo di propaganda”.
Oggi, come nei primi decenni del Novecento, i media con i loro specialisti della guerra psicologica, come l’onnipresente Paolo Mieli, negano il pericolo che stiamo correndo, quello di applicare politiche e di eleggere politici che operano per un ritorno al fascismo dall’interno delle istituzioni democratiche. Fascismo che ovviamente solo degli stupidi possono pensare sarà come quello in camicia nera.
Paolo Mieli nega, confonde, sparge nebbie, come faceva in gioventù quando militando in Potere Operaio, con gli uomini dei servizi segreti Valerio Morucci, Corrado Alunni e il cattivo maestro atlantico Toni Negri, attaccavano ingiustamente il P.C.I. e costruivano i paradigmi estremi dell’anticomunismo di “sinistra” utile per ingrossare le fila del terrorismo brigatista, che con quello di matrice nazifascista era funzionale alla strategia della tensione che operava per spostare, in progressione, a destra la cultura e i comportamenti della nostra popolazione. Oggi quel lavorio durato decenni, tra stragi e penne avvelenate dei vari Mieli di turno, che si “dimenticano” nell’articolo di citare gli scopi della loggia massonica P2, del rapimento e uccisione di Aldo Moro, ha prodotto la diffusa incapacità di percepire correttamente la realtà nelle classi subalterne ed ha indotto in loro quei comportamenti masochistici sfociati nell’incapacità di difendere i propri interessi dagli assalti dei massocapitalisti internazionali e nazionali che li hanno portati a votare partiti fasulli come la Lega di Bossi o Berlusconi-Forza Italia, ma anche quel Pd – mutazione genetica del partito di Gramsci e Berlinguer trasformato in Pds, poi Ds – gestito alla fine della mutazione da quella parte della democrazia cristiana fusasi con i peggiori anticomunisti interni al P.C.I. i “miglioristi” di Napolitano, che hanno trovato in Matteo Renzi la loro perfetta sintesi politica reazionaria, sino a votare Grillo-Movimento 5 Stelle. Le penne avvelenate dei vari Mieli sono serviti a non farci percepire il precipizio che avevamo davanti.
Ed oggi Mieli lavora, ancora una volta, per non farci comprendere il pericolo del nuovo fascismo. Il suo è un lavoro, che per ottenere risultati, ha bisogno di un raffinato e costante bombardamento delle menti, imparato sicuramente dal padre Renato (*) – noto agente durante la seconda guerra mondiale del Psycological Warfare Branch, (P.W.B.) organo per la propaganda e guerra psicologica dei servizi segreti angloamericani – che ha lo scopo di impedire che in Italia risorga una nuova resistenza capace di ricostruire il P.C.I. di Gramsci-Togliatti-Longo e Berlinguer strumento necessario per le masse popolari per non pagare la crisi capitalistica.
Saluti comunisti
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Cosa c’entra il fascismo? Le evocazioni pericolose
Si può dissentire da ognuna delle misure prese in questi mesi dal governo Conte. Ma è quasi sempre sbagliato richiamarsi al passato regime
di PAOLO MIELI
Si può dissentire da ognuna delle misure prese in questi mesi dal governo Conte. In molti, moltissimi casi sarebbe persino doveroso reagire. È altresì necessario esprimere queste critiche nei modi più espliciti ed energici. Soprattutto in momenti come questo in cui la manovra economica rischia di provocare uno sconquasso finanziario che potrebbe travolgere l’intero Paese. Ma è quasi sempre sbagliato evocare — per dar forza a discorsi del genere — il ritorno di un regime fascista.
Qualche giorno fa il Commissario europeo agli Affari economici Pierre Moscovici — non nuovo a questa metafora — ha reagito con stizza all’atto inqualificabile di un europarlamentare leghista, Angelo Ciocca, che aveva ostentatamente calpestato i suoi appunti. Moscovici ha detto che quel gesto andava considerato «pericoloso» perché «da qui al fascismo il passo è breve». «Da qui al fascismo il passo è breve»? La guasconata di Ciocca era stata esecrabile, ma che c’entra il fascismo?
Ci guarderemmo bene dal sollevare un caso se si trattasse soltanto di una battuta qualsiasi sfuggita ad un pur importante rappresentante europeo. Ma sappiamo per esperienza che l’evocazione del fascismo è fin dalla seconda metà degli anni Quaranta un rafforzativo quasi obbligatorio della polemica da sinistra (ma non solo) contro i detentori di ogni genere .
Non soltanto politici ma anche personaggi dell’economia, agenti, magistrati, professori d’università e di scuola, preti, padri, fratelli sono stati gratificati con quell’epiteto: «fascista!». L’esercizio — anche non improprio — di ogni tipo di autorità espone quasi naturalmente a questa accusa. Talché il termine «fascista» è venuto a perdere ogni rapporto con la realtà degli anni Venti e Trenta in cui è diventato d’uso comune nell’intera Europa. Restando in Italia e limitandoci alla politica, ben cinque presidenti della Repubblica si sono trovati ad esser lambiti da quella definizione: Giovanni Gronchi ai tempi in cui favorì la nascita del governo guidato da Fernando Tambroni sostenuto dai voti del Movimento sociale italiano (1960); Antonio Segni allorché si trovò coinvolto nel caso Sifar (1964); Giuseppe Saragat accusato di aver incoraggiato la strategia della tensione (1969); Giovanni Leone portato al Quirinale dai voti del Msi (1971); Francesco Cossiga per le sue compromissioni con il caso Stay Behind (1991). Quando il più importante presidente del Consiglio del dopoguerra, Alcide De Gasperi, estromise i comunisti dal governo (1947), di lui si disse e scrisse che aveva «rotto l’unità antifascista» — cosa che in effetti fece — ma con modalità tali da spalancare la porta ad un ritorno in scena degli eredi della Repubblica di Salò. Per Amintore Fanfani che aspirava ad essere eletto presidente della Repubblica (1971) fu creata addirittura la categoria del «fanfascismo». «Fascista» fu definito Mario Scelba che resse per una decina d’anni il ministero dell’Interno con metodi sicuramente duri (anche se la legge del ’52 contro la ricostituzione del partito fascista e l’apologia del fascismo porta il suo nome). L’addebito colpì anche Giulio Andreotti: quando nel ‘72 varò un governo di centrodestra, gli fu rinfacciata la circostanza — in realtà una leggenda — secondo cui nel ‘53 aveva accettato un abboccamento ad Arcinazzo con il maresciallo della Rsi Rodolfo Graziani (cosa mai accaduta nei modi in cui fu poi raccontata). Identiche accuse ricevettero il presidente della Montedison Eugenio Cefis e persino l’avvocato Agnelli per aver tollerato che la Fondazione intitolata a suo nonno, sotto la guida di Ubaldo Scassellati, mettesse le basi di un piano di conquista e gestione del potere (il cosiddetto «cinque per cinque»). Inutile dire di Bettino Craxi costantemente effigiato su «Repubblica» con stivaloni mussoliniani. Ancor più inutile dire di Silvio Berlusconi a cui fu addirittura ostilmente «dedicata» la celebrazione della Resistenza del 25 aprile 1994.
Luca Cordero di Montezemolo con Carlo Rossella e Paolo Mieli
Praticamente dal 1947 ad oggi non ci sarebbe stato anno senza che qualche esponente governativo favorisse un lieve o più deciso slittamento verso soluzioni autoritarie. Neanche uno. Ciò che forse (e sottolineiamo: forse) fu vero solo nel 1964 e in alcune fasi dei primi anni Settanta, sarebbe stata, invece, una costante della politica italiana. Con diversi livelli di intensità, certo. Ma pur sempre una costante. Possibile? Ovvio che no. A quel che gli storici seri hanno potuto accertare, la Dc e i partiti ad essa associati — eccezion fatta per qualche esponente di bassissimo rango — non hanno mai preso neppure in considerazione un’opzione autoritaria. Mai.
Di che cosa è fatto allora questo fantasma? Della stessa impalpabile non materia con la quale nel giudizio sulla politica internazionale è stata costruita l’accusa di «fascismo» nei confronti di quasi tutti gli ex presidenti degli Stati Uniti e persino del capo della Resistenza francese, il generale Charles De Gaulle, per i modi con cui nel 1958 promosse il passaggio dalla Quarta alla Quinta Repubblica. Nell’operato di tutti loro è stata intravista l’apertura di uno spiraglio verso una deriva autoritaria quasi fossero assimilabili a un caudillo, un colonnello o un Putin, un Orbán o un Erdogan ante litteram.
La verità invece è che il fascismo negli ultimi settant’anni non è più stato all’orizzonte dei Paesi occidentali e ad evocarlo ossessivamente si è costantemente rischiato e si rischia ancora di fare lo stesso errore compiuto nel 1924 da Gaetano Salvemini il quale, dopo l’uccisione di Giacomo Matteotti, si allarmava per l’eventualità di un colpo di stato militare monarchico: ciò che gli impedì di notare per tempo alcune specificità del mussolinismo. Specificità dei movimenti nuovi che vanno individuate in ogni epoca senza indulgere alle evocazioni facilone.
C’è infine un ultimo discorso più generale da fare sull’uso del termine «fascista». Lo scrittore inglese Ian McEwan in un’allocuzione tenuta nel giugno del 2015, in occasione della cerimonia per le lauree al Dickinson College, volle tornare agli anni Sessanta quando — raccontò — la sua università «vietò a uno psicologo di promuovere la teoria secondo cui c’è una componente ereditaria nell’intelligenza». Negli anni Settanta poi, proseguì McEwan, il grande biologo americano Edward Wilson fu sommerso da contestazioni che gli impedirono di prendere la parola per aver ipotizzato che esistesse un elemento genetico nel comportamento sociale degli esseri umani. Tutti e due «vennero definiti fascisti». E in seguito? «Le loro teorie adesso sono la norma», ha detto McEwan. Dopo quell’intervento, l’autore di Cortesie per gli ospiti ha continuato a criticare questa o quella iniziativa politica o culturale. Anche con parole molto dure.
Ma non ha mai più fatto riferimento al fascismo. E sarebbe forse il caso di seguire il suo esempio.
29 ottobre 2018
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Mussolini, il calendario all’edicola della stazione: nausea e incredulità
È davvero un calendario di Mussolini. Ed è davvero in vendita all’edicola della stazione Termini, in una mattina di ottobre. Dell’anno 2018
di PAOLO GIORDANO
Domenica, stazione Termini, le otto del mattino, forse per via dell’ora solare la gente sembra più sveglia del solito. Entro in un’edicola per comprare acqua e giornali, c’è un po’ di coda. All’inizio lo noto senza davvero riconoscerlo, come se la mia mente si rifiutasse di registrare quell’anomalia. È un comportamento del cervello abbastanza comune: rifiutarsi di vedere le cose laddove non ci aspetteremmo mai di vederle. Eppure non c’è dubbio che sia proprio lì: tra il calendario della Juventus e quello di Mission Impossible, ma in posizione dominante rispetto agli altri, è in vendita il calendario 2019 di Benito Mussolini. I suoi occhietti neri mi fissano dall’alto. Mi dico dev’essere qualcos’altro, un fascicolo di storia un po’ vistoso, l’uscita di una collana sul Novecento. Guardo meglio. Accanto al ritratto e al nome in caratteri dorati, c’è un corsivo che da quella distanza non riesco a decifrare, ma la firma evidenziata come l’autografo di una star, quella sì, riesco a leggerla. È davvero un calendario di Mussolini. Ed è davvero in vendita all’edicola della stazione Termini, in una mattina di ottobre. Dell’anno 2018.
Di norma sono taciturno con gli estranei, timoroso, ma quando arrivo davanti alla giovane edicolante, non riesco a trattenermi: «Ma davvero vendete i calendari di Mussolini?» Lei tace per un attimo, colta di sorpresa. È chiaro che sono il primo a farle quella domanda. Mi guarda, forse cercando d’intuire le mie vere intenzioni, poi risponde: «Ce li manda la Grande Distribuzione». Non è gentile né scortese. È perfettamente neutrale. Indossa dei guanti in lattice azzurri con cui maneggia la merce e il denaro, che aumentano l’impressione di distacco da tutto ciò che la circonda. «Sì, ma voi li esponete». A quel punto smette di guardarmi. «È una cosa complicata», taglia corto. Io insisto: «Non andrebbe fatto, offende molte persone», ma lei è già passata al cliente successivo. Così mi allontano dall’edicola, verso i binari, con l’acqua, il giornale e un po’ di tremore alle braccia, lo stesso che mi prende ogni volta che discuto con qualcuno. Mi sento come se avessi appena assistito a un incidente stradale. Lo stesso miscuglio di sgomento e disgusto e senso d’inutilità. Quando è successo? Quand’è iniziata l’amnesia? Quando ci siamo distratti al punto di permettere che Mussolini diventasse un poster da appendere in camera? Non vendono calendari di Franco nelle edicole di Madrid. A Berlino non si trovano souvenir graziosi del nazismo. Magari i calendari di Mussolini si sono sempre venduti in Italia, mi dico per tranquillizzarmi, il mercato acefalo si è preoccupato di soddisfare anche quella fetta di pubblico striminzita. Di certo, però, non mi era mai capitato di vederne uno esposto con tanta oscena imparzialità. E, se prima erano schiacciati sotto pile di altra carta, relegati agli angoli come le riviste porno, cosa significa trovarseli, adesso, sbattuti in faccia così? Forse che quella fetta di pubblico non è più così striminzita.
A distanza di ore continua a girarmi in testa quella frase: «Ce li manda la Grande Distribuzione». Mi viene un po’ di nausea, e non so più se sia per il calendario in sé o per il modo indifferente, sconfitto, ignaro con cui la ragazza, che avrà avuto suppergiù i miei anni, se n’è lavata le mani inguantate d’azzurro. Oppure se sia per qualcosa di ancora diverso: per non essermi arrampicato sullo scaffale e non aver strappato quell’abominio dalla parete, e non aver nemmeno mollato lì l’acqua e il giornale, che li vendessero a qualcun altro. Per questa mia, nostra, educata mitezza, un po’ incredula, un po’ smarrita, che si attira addosso la calamità.
28 ottobre 2018
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(*) Biografia di Paolo e Renato Mieli
Paolo Mieli nasce a Milano il 25 febbraio del 1949. Studia al liceo classico di Roma Torquato Tasso; partecipa al movimento del ’68 militando in Potere Operaio con Toni Negri, Franco Piperno e Oreste Scalzone, Valerio Morucci, Corrado Alunni.
È stato allievo e poi assistente all’università di Renzo De Felice, uno dei più grandi revisionisti della storia del fascismo che ha operato nel secolo scorso, riabilitando il ruolo del fascismo e di Mussolini nella coscienza nazionale, operando lo sdoganamento dei fascisti del Movimento Sociale.
Paolo Mieli ha svolto essenzialmente due professioni fondamentali per la veicolazione delle idee dei poteri forti: il giornalista e lo storico revisionista; inizia la sua carriera di giornalista all’Espresso, dove lavora per una quindicina d’anni. Poi Eugenio Scalfari, nel 1985, lo chiama alla Repubblica pensando di aver trovato il suo erede, ma dopo poco cambia idea e Mieli passa alla Stampa, giornale della famiglia Agnelli.
Paolo Mieli con Carlo Caracciolo e Eugenio Scalfari
Nel 1990 ne diventa direttore, sostituendo Gaetano Scardocchia; Mieli portò alla Stampa, Ezio Mauro, che diventerà direttore de la Repubblica. Alla Stampa eliminò tutto il vecchio staff, modificò l’impostazione del giornale mettendo sulla prima pagina notizie di costume, la cronaca, le curiosità e la storia da lui revisionata, continuando quel processo iniziato con il suo maestro di lenta e progressiva equiparazione tra destra e sinistra, con il sotteso intento di togliere valore alla sinistra per spostarlo alla destra. Tra i nuovi collaboratori della Stampa, Mieli chiama il filosofo Marcello Pera (la cortesia viene resa da Pera come presidente del Senato quando ne chiede la nomina al vertice della Rai).
La trasformazione operata alla Stampa fece dire a Giovanni Agnelli che Mieli aveva messo la minigonna al quotidiano e se ne congratulava; questa tendenza viene sviluppata da Mieli quando è chiamato, nel 1992, a dirigere il Corriere delle Sera dove utilizza le fotografie e la titolazione in modo da rendere più superficiale la lettura del giornale distraendo il lettore dall’approfondimento, in perfetta linea con i dettami della TV commerciale del piduista Berlusconi. Mieli viene preferito alla guida del Corriere al posto di Giulio Anselmi, vice del direttore uscente Ugo Stille, perché giudicato troppo critico nei confronti della politica craxiana, rilievo mosso ovviamente da Craxi stesso, che gli oppone il veto.
Paolo Mieli nel salotto con Bobo Craxi
Mieli è stato recentemente vittima di un episodio di razzismo: una scritta, in cui si ricordano le sue origini ebraiche, è comparsa sui muri della Rai di Milano, in occasione della sua candidatura alla presidenza della TV di Stato; è interessante vedere che sul Corriere della Sera nel ’97, nel periodo della sua direzione, l’uso del termine dispregiativo, razzista e disumanizzante “vu’ cumprà”, riferito alle persone provenienti dall’Africa è usato 28 volte nei testi, 9 volte nella titolazione e anche in una vignetta.
Il Corriere aveva iniziato questa campagna di stampo razzista il 27 agosto 1987; è chiaro che se il più importante quotidiano nazionale attacca degli esseri umani declassandoli favorisce l’insorgere di quei fenomeni d’inciviltà che poi in politica trovano il loro naturale approdo nei partiti razzisti e fascisti, che fanno leva sull’ignoranza e l’incultura ma sono utili per spostare a destra il quadro politico.
Fa parte della tradizione della famiglia Mieli lavorare per la destra, il padre Renato giornalista e direttore dell’edizione milanese dell’Unità, fu espulso nel 1958 dal Partito Comunista Italiano perché in contatto – fin dai tempi della Resistenza – con il Psycological Warfare Branch, (P.W.B.) organo per la propaganda e la guerra psicologica dei servizi segreti angloamericani, partecipa nel 1965 al convegno di studio, all’hotel Parco dei Principi di Roma, promosso dall’Istituto Alberto Pollio La guerra rivoluzionaria, in cui gli organizzatori si proponevano di promuovere lo studio critico della “guerra rivoluzionaria”, cioè dell’offensiva planetaria del comunismo. L’Istituto Pollio, finanziato dal SIFAR, chiama per quel convegno anche venti studenti universitari tra i quali Stefano Delle Chiaie e Mauro Michele Merlino, in seguito colpiti da mandato di cattura per la strage di piazza Fontana. Tra i relatori Guido Giannettini, il repubblichino Enrico De Boccard e Pino Rauti del Centro studi Ordine Nuovo; dopo il suo intervento prende la parola Renato Mieli che dice: «Dovremmo adoperarci perché i comunisti conoscano se stessi. L’esperienza del comunismo porterà il comunismo al suo dissolvimento e possiamo trovare il punto debole del comunismo proprio all’interno del comunismo stesso. Dobbiamo contrapporre una nuova strategia più efficace alla strategia comunista se vogliamo dissolvere il mondo comunista che si presenta compatto e minaccioso, ma che in verità non è così compatto come si crede anche se è molto minaccioso».
Lella Bertinotti bacia la mano di Paolo Mieli
Ma non solo: Renato Mieli partecipa all’ARCES (Associazione per il Rinnovo della Cultura dell’Economia e della Società) struttura messa in piedi dalla destra intellettuale per arginare i comunisti anche dal punto di vista culturale. Questa Associazione verrà appoggiata anche dalla destra cattolica di Civiltà Cristiana; nel Consiglio dell’Associazione entreranno a fianco di Renato Mieli: Renzo De Felice (docente del figlio Paolo) Domenico Bartoli, Sergio Ricossa, Luigi Barzini, Enzo Bettiza, Cesare Zappulli, Gustavo Selva (P2), Alberto Ronchey. Segretario generale Livio Caputo, altri aderenti Giuseppe Are, Sergio Cotta e Pietro Bucalossi. Strumento della propaganda sarà il Giornale nuovo, di Indro Montanelli che il 29 marzo 1977 dirà: «Una nuova alleanza di intellettuali che non si arrendono al compromesso storico».