Il 9 febbraio la Corte di Cassazione dovrebbe pronunciarsi in maniera definitiva sui sigilli alle parabole della base Usa di Niscemi. Gli avvocati dei comitati che in questi anni si sono battuti contro l’impianto sottolineano i punti deboli della decisione che, sei mesi fa, ha posto fine al sequestro
Salvo Catalano
È rimasto per un anno e mezzo sotto sequestro, fino ad agosto del 2016. Dopodiché sono bastati due mesi al Pentagono per rendere operativo il Muos di Niscemi, il sistema satellitare per le telecomunicazioni militari degli Stati Uniti d’America. Tra qualche giorno, il 9 febbraio, ci sarà l’ultima parola in merito al dissequestro dell’impianto: a pronunciarsi dovrà essere la Corte di Cassazione.
Nella lunga vicenda giudiziaria – sia amministrativa che penale – si sono contrapposti da un lato la Procura di Caltagirone, che ha chiesto e ottenuto il sequestro, e quella di Catania; dall’altro il ministero della Difesa, che sostanzialmente ha difeso gli interessi del governo Usa. Ed è proprio su quest’ultimo punto che i legali del Coordinamento regionale dei comitati No Muos (Nello Papandrea, Paola Ottaviano e Nicola Giudice) sollevano le prime perplessità.
Chi è il proprietario del Muos? Per gli avvocati non c’è dubbio che non sia il ministero della Difesa, bensì il governo degli Stati Uniti. E che, di conseguenza, il dicastero italiano non avrebbe avuto i titoli per opporsi al sequestro. Per motivare questa tesi, i legali fanno riferimento all’Accordo sottoscritto il 6 aprile del 2006 tra Italia e Usa, in merito alla base militare di Niscemi. «Il governo degli Stati Uniti – si legge nel 18esimo paragrafo di quel documento – manterrà la proprietà di tutte le proprietà rimovibili costruite da/per il governo degli Stati Uniti a sue sole spese e di tutti gli equipaggiamenti, materiali e rifornimenti importati o acquistati in Italia da/per il governo degli Stati Uniti per la costruzione, lo sviluppo, l’utilizzo e la manutenzione delle installazioni».
In un passaggio successivo, l’accordo precisa che queste «proprietà possono essere cedute, in caso di non utilizzo dal governo degli Stati Uniti, al governo italiano al valore residuo». «Tuttavia – sottolineano gli avvocati – il ministero della Difesa, già nel 2006, dando il via libera all’opera, dichiarava di non essere interessato all’acquisizione». Eppure, al momento del dissequestro del Muos, il giudice «non spiega per quale motivo si ritenga che il Ministero della difesa, malgrado non sia proprietario del bene posto sotto sequestro, sia legittimato a chiederne il dissequestro e ciò – a detta dei legali – farebbe pensare che il Tribunale sconosca tale circostanza e non l’abbia di conseguenza valutata».
A togliere i sigilli dalle parabole era stato, sei mesi fa, il Tribunale del Riesame di Catania, basandosi in gran parte sulle conclusioni a cui era arrivato il Consiglio di giustizia amministrativa. Quest’ultimo – dopo aver esaminato l’iter autorizzativo e aver fatto accendere per la prima volta le parabole (seppure sulla base di parametri contestati dagli attivisti, perché forniti dagli Usa) – aveva stabilito sostanzialmente due cose: che i campi elettromagnetici emanati dalle parabole non superano i limiti di legge e che le autorizzazioni paesaggistiche acquisite sono regolari e sufficienti.
Per gli avvocati degli attivisti però si è sempre glissato sulla violazione del vincolo di inedificabilità posto dal regolamento della riserva della Sughereta, sito di interesse comunitario dove sorge il Muos. Un tema non affrontato dai giudici amministrativi perché sollevato in ritardo dalle parti civili. «La violazione del vincolo di assoluta inedificabilità posto dal regolamento della riserva – precisano adesso i legali – mai valutato dal Cga, deve essere preso in considerazione dal giudice penale che correttamente, applicando il potere di disapplicazione delle autorizzazioni illegittime, valuta le opere assolutamente abusive».
Infine c’è il nodo legato alla natura militare del Muos. Al momento del dissequestro, il giudice ha ricordato che le opere militari godono di una deroga rispetto alle norme urbanistiche. «Ma non per quelle ambientali», contestano Papandrea, Ottaviano e Giudice. «A tali opere – sottolineano – si applica l’articolo 356 del Codice dell’ordinamento militare che le assoggetta, in caso siano da realizzarsi in area sottoposta a vincolo ambientale o paesaggistico, alle norme in materia di ambiente. Il regolamento della Riserva naturale e il vincolo di inedificabilità in esso contenuto sono norme di natura ambientale che andavano, di conseguenza, rispettate». Alla Cassazione, adesso, l’ultima parola.