di Andrea Montella
Carissime compagne e compagni
vi esorto alla lettura degli articoli che ho allegato e che sono usciti su iskrae.eu.
Articoli che chiariscono in modo definitivo chi era Montanelli e la sua indiscussa pericolosità per la nostra democrazia sociale nata dalla Resistenza e contenuta nella nostra Costituzione.
Articoli che evidenziano anche le collusioni di certa “sinistra” non comunista con le santificazioni che il sistema mediatico mette in essere per far digerire alle masse popolari figuri come Montanelli.
Più la asinistra difendeva Montanelli, come ha fatto il keynesiano Paolo Ferrero, e più spariva dal paese.
Perché i massocapitalisti e i loro lucida scarpe non hanno mai fatto a Milano, loro città di elezione, un monumento a giornalisti assassinati perché i loro articoli erano un momento della lotta contro lo sfruttamento, la criminalità economica e mafiosa, contro la corruzione politica, contro i tentativi di colpo di Stato, contro il terrorismo, contro le guerre imperialiste?
Facciamo, a memoria, alcuni nomi:
Giuseppe Impastato
Walter Tobagi,
Ilaria Alpi-Miran Hrovatin,
Giancarlo Siani,
Giuseppe Fava
Cosimo Cristina,
Mauro De Mauro,
Giovanni Spampinato,
Mario Francese,
Mauro Rostagno,
Giuseppe Alfano
Tanto per citarne alcuni…
Buona lettura, che la memoria ci assista sempre e saluti comunisti
![]() Dens dŏlens 424 – La statua di Montanelli…di MOWA “– Da quando c’è lui… treni in orario, e tutto in ordine! Ritorna alla ribalta la figura dello scomparso giornalista Indro Montanelli come uomo corretto e da tutelare dopo l’ennesimo episodio d’imbrattamento della statua a lui dedicata nel parco milanese di Porta Venezia. Una figura storicamente molto controversa e per nulla candida benchè abbia tra i suoi innumerevoli difensori figure di spicco del “mondo che conta” della società meneghina e non solo. Un reazionario a tutto tondo che non ha mai dichiaratamente rinnegato la sua provenienza politica ma, soprattutto, che aveva la sfrontataggine di modificare i racconti che lo riguardavano da vicino come nel caso del suo “sposalizio” con la giovane (dodicenne) Destà durante la guerra voluta dai suoi amici fascisti in Etiopia. Un giornalista non nuovo alle cronache per diverse ragioni che vanno dalle denunce a suo carico sino agli strani e criptici messaggi, sotto forma di articoli, inviati a chissà quale entità operativa. Denunce subite (con relativa condanna per diffamazione e risarcimento) anche dai quasi ottocento agenti della Polizia Locale di Milano per aver, dicono le cronache, “tentato di gettare discredito e disinformazione sulla nostra categoria” o, l’aver diffamato il sen. Riccardelli, ex magistrato milanese, eletto come indipendente nelle liste del Pci e membro della commissione ‘ P2’ . Un giornalista che veniva, il 2 giugno 1977, ferito a Milano (all’angolo fra via Daniele Manin e piazza Cavour – ove aveva sede il Giornale nuovo), con una pistola 7,65 munita di silenziatore, sparando otto colpi consecutivamente, colpendolo due volte alla gamba destra, una volta di striscio alla gamba sinistra e alla natica e benchè fosse conosciuto per le sue posizioni molto reazionarie rispetto ad altri suoi colleghi che furono uccisi , i terroristi delle Brigate rosse lo gambizzarono. Quest’episodio gli concesse la “licenza” di rilasciare, un anno dopo, sibilline dichiarazioni al quotidiano Tiroler Tageszeitung, il 28 marzo 1978, dodici giorni dopo il rapimento di Aldo Moro da parte delle stesse Brigate rosse: «Nessuno può sapere che cosa ci attende. Molto dipende dalla soluzione del caso Moro. Se Moro dovesse ritornare a casa e riprendere la sua attività politica con l’aureola del martire, allora andremmo verso un governo con i comunisti e più tardi l’uscita dell’Italia dal Patto atlantico e ad una collocazione terzaforzista, come la Jugoslavia. Se Moro sarà eliminato fisicamente (come Schleyer) o se torna dopo una umiliante trattativa con le Brigate rosse, allora le cose possono andare diversamente. In tal caso il compromesso storico perderebbe il suo grande stratega e nessuno sarebbe in grado di raccogliere l’eredità di Moro». [1] Intervista che sembrava assurgere più che ad una analisi ad una vera indicazione su come doveva finire il presidente della Dc, tanto da essere riportata come inconcepibile nel libro di Sergio Flamigni La tela del ragno (Kaos edizioni). La strana coincidenza di quelle ferite al giornalista reazionario evocano un po’ quanto accaduto alla coscia sinistra al massone piduista Michele Sindona fatto con l’intento di trovare un “lasciapassare” e sostenere la genuinità del suo rapimento mentre, invece… Un controverso giornalista che fece del mestiere l’opera di scimiottare il ruolo di super partes quando invece era “il testimone di nozze dell’aristocrazia nobiliare”. Un servitore dello Stato? (Visto il dileggio, anche, all’istituzione della Polizia Locale che gli costò la condanna ricorda, invece, l’opera teatrale di Carlo Goldoni messa in scena in tutto il mondo da Giorgio Strehler) che non merita, assolutamente, di restare un pubblico ricordo delle persone antifasciste e antirazziste come prevede la Costituzione italiana. Quindi venga rimossa al più presto la statua che lo raffigura per ridare dignità alla Carta costituzionale che vale molto di più del parere del sindaco di turno a Milano. 16 Giu 2020 |
Riflessioni sulla libertà d’informazione nell’epoca della P2Caro Ferrero Ho letto con molta attenzione il tuo articolo su Liberazione del 4 settembre dal titolo “Berlusconi e il piano P2 sulla stampa” e condivido le tue preoccupazioni sul degrado della democrazia e sull’attacco all’informazione nel nostro Paese. Ma vorrei controbattere due affermazioni che fai e aggiungere che tutto questo degrado non è frutto del caso e della sola cattiveria del “cavaliere nero” (alias Berlusconi) ma è il risultato di decenni di anticomunismo praticato costantemente da tutte le frange della borghesia, sia a livello nazionale che internazionale. L’affermazione che Indro Montanelli è stato giornalista e scrittore “apertamente di destra, ma dalla specchiata indipendenza e libertà”, fa a pugni con la sua storia personale. “Cilindro” Montanelli è un caso di beatificazione laica che ha dell’incredibile, dovuta ad alcuni suoi “vescovi” come Travaglio o agli ex Pci ora Pd, che nasce dalla rimozione di fatti gravissimi compiuti dal giornalista che danno la misura della forza politica dell’opinionista di Fucecchio. Montanelli, ringraziando Benito Mussolini, nel raccontare la sua esperienza di comandante di una banda di Ascari durante la guerra d’Etiopia così si esprimeva: «Questa guerra è per noi come una bella lunga vacanza dataci dal Gran Babbo in premio di tredici anni di scuola. E, detto fra noi, era ora» (Indro Montanelli XX Battaglione Eritreo, Panorama, Milano, 1936, pag. 226). In un pezzo per Civiltà Fascista (gennaio 1936) intitolato “Dentro la guerra” scrisse della sua esperienza africana: «Non si sarà mai dei dominatori, se non avremo la coscienza esatta di una nostra fatale superiorità. Coi negri non si fraternizza. Non si può, non si deve. Almeno finché non si sia data loro una civiltà». Ricordiamo che durante la campagna d’Eritrea Montanelli aveva acquistato una dodicenne come moglie. Se a questo punto qualcuno potrebbe osservare “sono errori di gioventù”, che giudizio dare dell’intervista rilasciata da Montanelli, alla bella età di 69 anni, alla Tiroler Tageszeitung il 28 marzo 1978, dodici giorni dopo il rapimento di Aldo Moro da parte delle Brigate rosse? «Nessuno può sapere che cosa ci attende. Molto dipende dalla soluzione del caso Moro. Se Moro dovesse ritornare a casa e riprendere la sua attività politica con l’aureola del martire, allora andremmo verso un governo con i comunisti e più tardi l’uscita dell’Italia dal Patto atlantico e ad una collocazione terzaforzista, come la Jugoslavia. Se Moro sarà eliminato fisicamente (come Schleyer) o se torna dopo una umiliante trattativa con le Brigate rosse, allora le cose possono andare diversamente. In tal caso il compromesso storico perderebbe il suo grande stratega e nessuno sarebbe in grado di raccogliere l’eredità di Moro». Questa intervista che sembra un’indicazione precisa su come doveva finire il presidente della Dc, il progetto del Pci e la Repubblica nata dalla Resistenza è riportata nel libro di Sergio Flamigni La tela del ragno (Kaos edizioni). Gli episodi che ti ho appena riportato, e che sono solo una scelta tra tanti, penso possano dimostrare come Montanelli si sia sempre adattato al padrone più forte. Concedendosi magari il lusso di parlare fuori dai denti del padrone più debole o del più ricattabile. Ma sempre in funzione anticomunista. Questo anticomunismo è stato alimentato nel nostro Paese dalle due ali della borghesia, quella considerata più progressista e incarnata dai De Benedetti, e quella più reazionaria, dei vari Valletta, Monti, Pesenti, Costa e dai molti uomini con forti collegamenti con la macchina statale come Mandelli e Cefis. E anche dalla complicità di molti vertici religiosi di un po’ tutte le fedi. Al vertice di questa politica anticomunista si sono posti da sempre gli Agnelli e le loro strutture politico-culturali (ovviamente di stretta osservanza massonica, loggia Montecarlo): padroni de La Stampa, della FIAT e presenti nel Corriere della Sera, gli Agnelli sono la famiglia che, su mandato dei grandi banchieri internazionali inseriti nel superesclusivo Gruppo dei 17 con Carlo De Benedetti (vedi Il Mondo dell’11 maggio 1987), nel Bilderberg e nella Trilateral Commission, aveva il compito di esercitare tutto il potere possibile in questa parte del mondo per impedire al Pci di andare al governo e modificare, quindi, gli assetti tra le classi nell’area del Mediterraneo, fondamentale nella più generale lotta al comunismo, rappresentato dai Paesi dell’Est Europa. In questo senso Berlusconi è una loro creatura, frutto di un progetto che viene da lontano: «Nel 1945 un folto gruppo di grandi industriali (tra cui Vittorio Valletta, Piero Pirelli, Rocco Armando ed Enrico Piaggio, Angelo Costa e Giovanni Falck) si riunisce a Torino – il 16 e 17 giugno – per decidere i piani per la “lotta al comunismo con qualsiasi mezzo”, sia con la propaganda che con l’organizzazione di gruppi armati, questi ultimi affidati a Tito Zaniboni, un ex deputato socialista vicino alla massoneria e autore di un attentato a Mussolini che aveva provocato dure ritorsioni contro la muratoria. Secondo un rapporto dei servizi segreti americani, “le spese previste sono enormi ma gli industriali sono disposti a finanziare l’avventura”. I primi fondi, 120 milioni, sono stanziati subito e vengono depositati in Vaticano». (da Fratelli d’Italia di Ferruccio Pinotti, BUR). Nel 1976 all’ennesima tornata elettorale, con il Pci in forte ascesa, Gianni Agnelli diceva dei comunisti: «Se vinceranno le sinistre bisognerà lottare perché rimangano spazi di libertà per tutti…». E negli anni Ottanta, in pieno craxismo, ripeteva spesso, impaziente: «Quanti anni ci vogliono ancora, prima che il Pci scompaia?» (Massimo Giannini su la Repubblica, 25 gennaio 2003). Per far sparire il Pci come voleva Agnelli c’è voluto il lavoro discreto, riservato e occulto della massoneria e in particolare della P2, con il suo progetto conosciuto come Piano di rinascita democratica, scoperto il 17 marzo 1981 ma redatto in precedenza. Ripercorriamone la storia a partire da un torrido luglio del 1975: «Carlo De Benedetti, leader degli industriali piemontesi, pupillo dell’Avvocato ed ex compagno di scuola di Umberto, lanciò la “sfida imprenditoriale al Pci”. La tesi era suggestiva e partiva da un preciso presupposto. “Non sappiamo se credere più nel rinnovamento della dc o nel revisionismo del pci”, aveva detto poco prima l’Avvocato interpretando il disorientamento che serpeggiava nell’armata industriale. La Confindustria, insomma, prendeva ufficialmente le distanze dal mondo politico tradizionale, condannava in blocco la dc e prendeva atto che il “vuoto di potere” che si era determinato non poteva essere colmato “dai logori schemi” in cui si muovevano gli alleati dello scudo crociato: i repubblicani e i socialisti. Di qui la conclusione piuttosto suggestiva di De Benedetti: è tempo scrisse, che gli industriali si pongano “come ispiratori di una politica economica generale, di un consenso che vada ben oltre la sola classe imprenditoriale”. Ed ancora: è tempo che “leader riconosciuti del mondo imprenditoriale e manageriale siano corresponsabilizzati nella gestione vitale per la ricostruzione del Paese”». La ricostruzione di questa strategia padronale è riportata nello splendido libro di Cesare Roccati Umberto & C. – Gli anni caldi della Fiat (Vallecchi, 1977). Sempre in questo libro viene analizzato cosa c’era dietro la proposta di De Benedetti (massone della loggia Cavour del Grande Oriente a Torino, con il brevetto n. 21272 di maestro dal 18 marzo 1975): «Gli osservatori, allora si interrogarono a lungo. E tutti concordarono su un punto: era finito il tradizionale collateralismo con la dc ed iniziava per gli industriali l’era di un “impegno diretto”, come “ministri” di un governo “tecnico”, o addirittura come “partito”». Questo progetto maturato negli studi ovattati della Fondazione Agnelli, il maggior laboratorio culturale d’Italia, è il canovaccio per far “scendere in campo” gli imprenditori in politica. Identico nei contenuti al Piano di rinascita democratica della P2. La massoneria con la P2 realizzò una sintesi politica extraistituzionale di diversi interessi che andavano da quelli dell’alta borghesia capitalistico-finanziaria a quelli dei manager di Stato a quelli religiosi tutti accomunati dalla paura dell’ascesa del Pci di Berlinguer e dalle sue proposte politiche del Compromesso storico e dell’Eurocomunismo. Non è certo frutto della sfortuna che tutti i politici che hanno provato a realizzare politiche a favore del Pci siano stati assassinati o siano stati isolati in modo brutale nell’opinione pubblica con l’uso dei classici espedienti dei servizi segreti: Moro e Olof Palme assassinati. In seguito inchieste parlamentari, giornalistiche e di studiosi come Sergio Flamigni, il professor Giuseppe De Lutiis, Mario Guarino, Gianni Flamini solo per citarne alcuni, hanno dimostrato che in tutti e due i casi la P2 ha avuto un ruolo fondamentale nella loro eliminazione. Sino a giungere agli omicidi selettivi di destra e di “sinistra” praticati nel nostro Paese, che hanno fatto piazza pulita, come diceva il golpista Edgardo Sogno dei traditori in seno alla borghesia che volevano aperture politiche al Pci.
Ma in questa politica anticomunista non hanno avuto un ruolo anche certe formazioni estremiste e socialiste? Come Potere operaio di Toni Negri e Lotta Continua di Adriano Sofri e il Psi di Craxi. Oggi, come allora mediaticamente coccolati dai giornali padronali? Quanto spazio hanno avuto e hanno costoro sui media “democratici” nel realizzare quel processo di revisione continua della storia e della politica, tanto utile per determinare un radicamento di massa di quell’anticomunismo borghese di cui Berlusconi è il caso estremo e palese? In questo processo degenerativo della democrazia hanno avuto un ruolo sia i Montanelli che gli Scalfari, uno sul fronte della destra politica e l’altro su quello della sinistra. Tutti e due convergevano nei momenti elettorali sulla Dc e sinergicamente hanno alimentato l’anticomunismo. Straordinarie coincidenze anche nelle date di nascita dei loro giornali: Il Giornale esce nel giugno del 1974 e la Repubblica a gennaio del 1976. Anni fondamentali e di forte ascesa del Pci. Il Giornale e la Repubblica nel loro modo di agire nel sistema mediatico ricoprono il ruolo del poliziotto buono e di quello cattivo durante gli interrogatori. Sia il cattivo che il buono, vogliono la stessa cosa e lavorano per la stessa struttura… Gli effetti di questa politica unitaria massonico-borghese hanno trasformato la società, le istituzioni, i partiti e la nostra Costituzione. E il PD e PDL non sono quelle formazioni politiche descritte nel Piano di rinascita democratica nel capitolo Procedimenti? Dove al punto d si afferma: «…usare gli strumenti finanziari stessi per l’immediata nascita di due movimenti: l’uno a sinistra (a cavallo fra Psi-Psdi-Pri-Liberali di sinistra e Dc di sinistra), e l’altra sulla destra (a cavallo fra Dc conservatori, liberali e democratici della Destra nazionale)». La nostra estromissione, dai vari Parlamenti, con i vergognosi e antidemocratici sbarramenti elettorali da tutti sostenuti, non è andato nella direzione del progetto piduista? E oggi quale mezzo di comunicazione di massa gestito dai padroni non vuole un sistema politico più consono ai bisogni dell’impresa, più accentrato, meno democratico e con i politici asserviti a questo o a quel padrone in ascesa sul mercato? Con queste argomentazioni rispondo all’affermazione che fai nel tuo articolo che Silvio Berlusconi «ha sempre avuto una concezione tutta e solo “proprietaria”, nel senso classico e peggiore del termine, quello ottocentesco, dei giornali e delle televisioni. Per il premier, cioè, i media o sono “i suoi” o non devono mai disturbare il manovratore». La massima libertà concessa attualmente a un cittadino è per quale padrone tifare. Cosa cambia per un proletario se il padrone dei giornali e delle Tv si chiama Berlusconi o Murdoch o De Benedetti o Agnelli? L’informazione da quando c’è stato un incremento delle Tv private è migliorata? Ha contribuito a migliorare il nostro Paese, lo ha reso più civile ed evoluto? La risposta alla luce dei fatti non può che essere negativa. Quindi non è la quantità di televisioni e di giornali che garantisce la qualità dell’informazione. La qualità dell’informazione è strettamente legata alla possibilità da parte dei lavoratori del settore, di raccontare la verità sociale che sta dietro ad un fatto di cronaca, che non può essere raccontato in modo asettico o a favore degli interessi del padrone di turno. Chi può garantire un’informazione che non sia solo uno strumento dei padroni per espandere la loro egemonia e un semplice strumento di guerra psicologica in funzione antiproletaria? Io penso che solo lottando per togliere ai padroni i mezzi di comunicazione, dandoli in gestione direttamente ai lavoratori di quel settore si possa ottenere un riequilibrio verso un sistema dell’informazione che sappia coniugare democrazia, informazione corretta e reale indipendenza, che sono fondamentali per una crescita civile del nostro Paese. Quindi lavoriamo per liberare la società da questa dittatura mediatica facendo noi come comunisti, chiarezza sino in fondo, sul ruolo dei media nell’era del progetto piduista capitalista, costruendo una proposta politica contro la privatizzazione dei mezzi d’informazione e facendo del nostro giornale uno strumento di lotta politica e un modello di informazione veritiera come lo fu l’Unità. Un giornale costruito da dirigenti politici che sapevano collocare anche la libertà d’informazione e le alleanze all’interno delle dinamiche della lotta di classe. Saluti comunisti Andrea Montella |
Il caso Sindona Il grande ricatto IL “GRANDE RICATTO” E I 75 GIORNI DI SINDONA A PALERMO
E’ durante il soggiorno clandestino di Palermo che Sindona organizza, dirige e gestisce in prima persona lo stillicidio di messaggi estorsivi diretti formalmente agli avvocati Rodolfo Guzzi e Agostino Gambino (ed apparentemente provenienti da un gruppo di terroristi sequestratori), ma sostanzialmente destinati, in modo implicito, indiretto e sottilmente mafioso, ad essere recepiti da quell’establishment da cui Sindona ha sempre preteso di essere salvato. Le dichiarazioni di Joseph Miceli Crimi e di Francesca Longo forniscono lumi sufficienti su questa offensiva di lettere e telefonate anonime (cui si accompagnano lettere autografe firmate dal «rapito») e sulle modalità con cui esse venivano inoltrate ed effettuate, dimostrando come ogni cosa venisse in realtà orchestrata direttamente da Michele Sindona di concerto con i suoi compagni di avventura: la Longo, fra l’altro, ha ammesso, come si è visto, di aver provveduto personalmente a fare le telefonate anonime ed intimidatorie del 3 settembre e dell’8 ottobre 1979 allo studio dell’avvocato Guzzi, precisando di averle fatte per decisione, su incarico e su istruzioni di Michele Sindona; sia la Longo che Miceli Crimi hanno poi raccontato, fra l’altro, come essi abbiano scattato la famosa fotografia polaroid di Sin-dona in atteggiamento di rapito (trasmessa a Guzzi con la lettera pervenuta il 12 settembre 1979), e come Miceli Crimi abbia ferito Sindona alla coscia sinistra, il 25 settembre, su richiesta dello stesso Sindona e con l’assistenza della Longo e di John Gambino, per rendere più realistica la versione del rapimento. La messinscena di Sindona viene definitivamente smascherata già il 9 ottobre 1979, con l’aiuto di Vincenzo Spatola, ma per diversi mesi dopo la sua ricomparsa Sindona continuerà caparbiamente a sostenere la genuinità del rapimento, cercando di accreditare, di fronte alle autorità americane, una sua immagine di perseguitato politico anticomunista e di vittima del terrorismo di sinistra (7/1593 segg.; 9-G/40 segg.). Sindona spera evidentemente ancora di poter impressionare le autorità americane in senso a lui favorevole, in vista della decisione definitiva sull’estradizione (che interverrà nel marzo 1980), rappresentando l’Italia come un paese dove il comunismo impera e dove i gruppi terroristici fanno il bello e il cattivo tempo (ed in questo Guzzi, nei suoi colloqui con l’FBI, cerca di dargli una mano: 20/19 segg.; 9-G/175 segg.). L’ultimo penoso tentativo fatto da Sindona per cercare di mantenere in piedi la sua messinscena si colloca nel gennaio 1980, e cioè un paio di mesi prima che intervenga la decisione definitiva della Corte di Manhattan sulla sua estradizione. Il 29 gennaio 1980 giunse all’agenzia ANSA di Milano un comunicato a firma «Giustizieri proletari» contenente divagazioni sul tema del malcostume finanziario italiano, scritte con un linguaggio che si avvicina più o meno a quello dei gruppi terroristici, e presentate come il risultato del «giusto processo» celebrato dal «tribunale del popolo» contro Michele Sindona (10/199). Allegati al comunicato vi sono quattro fogli (fotocopie) riproducenti altrettante pagine della bozza della relazione Ambrosoli (ricettata e ribattuta) di cui si è parlato supra nel capitolo 4. Se confrontiamo questi quattro fogli pervenuti all’ANSA (10/207-210) con le rispettive pagine del documento prodotto da Cuccia (22/209-212), notiamo che essi sono dei tutto identici, nel senso che provengono evidentemente dalla medesima originaria dattiloscrittura, e tuttavia si differenziano per i seguenti particolari: a)il primo dei fogli ricevuti dall’ANSA (10/207) reca in cima, sulla destra, manoscritta con la grafia di Sindona, l’annotazione «Ambrosoli a Urbisci»1: tale annotazione non è vergata in originale, ma compariva evidentemente sulla matrice usata dai sedicenti «Giustizieri proletari» per riprodurre la fotocopia; b)il quarto dei fogli ricevuti dall’ANSA (10/210) nella terzultima riga reca una correzione manoscritta, anch’essa mancante nel documento prodotto da Cuccia (22/212): il nome <<Miozzi>> è corretto a mano in «Moizzi»; anche questa correzione non è originale, ma compariva evidentemente nella matrice fotocopiata. Tutto ciò ha trovato un singolare riscontro nella documentazione sequestrata il 20 dicembre 1983 presso il domicilio francese di Luigi Cavallo, ove non solo si è trovata una copia del comunicato dei sedicenti «Giustizieri proletari», ma si è trovata anche una copia ulteriore delle medesime quattro pagine della bozza ribattuta (225/139-142). Ciò che più conta è che i quattro fogli rinvenuti presso Cavallo sono le matrici usate per riprodurre le fotocopie da trasmettere all’ANSA: sul primo foglio (225/139) compare l’annotazione originale «Ambrosoli a Urbisci» redatta a matita dalla grafia inconfondibile di Sindona; sul quarto foglio (225/142) compare la correzione originale «Moizzi» in inchiostro azzurro. Quanto sopra dimostra, al di là di ogni ragionevole dubbio, che anche questa tardiva appendice della farsa del finto rapimento è stata organizzata da Sindona, con l’aiuto di un professionista dell’intrigo quale è Luigi Cavallo. Del resto,abbiamo visto quanto fossero intensi, e in quale dimensione fossero proiettati, i rapporti tra Cavallo e Sindona (in proposito si veda anche la deposizione di Romano Cantore: 10 bis / 491 segg.); ed abbiamo già avuto modo di constatare quanto abile fosse Luigi Cavallo nel redigere volantini e comunicati in un linguaggio da gruppo terroristico. 1Il dr. Ovilio Urbisci è il giudice istruttore che,fino al 1980, ha condotto il procedimento penale per bancarotta fraudolenta a carico di Michele Sindona. La volontà di Sindona di impressionare ed influenzare in senso a lui favorevole le autorità americane può forse essere sufficiente a spiegare il comunicato 29 gennaio 1980 dei sedicenti «Giustizieri proletari», ma non è certamente sufficiente, da sola, a dare una spiegazione plausibile ad una messinscena così complessa, così dispendiosa, così tortuosa come quella attuata da Sindona fra il 2 agosto e il 16 ottobre 1979, contrassegnata da una ricca produzione di scritti ricattatori spesso oscuri ed enigmatici, costellata di iniziative delittuose di vario genere, ed assistita da un singolare supporto mafioso e massonico. E’ necessario quindi tentare un’analisi il più possibile approfondita degli scopi e del significato del finto rapimento di Sindona e del suo soggiorno clandestino a Palermo; e ciò anche ai fini di una decisione in ordine alle imputazioni contestate ai capi 15 e 16 della rubrica. Tale analisi, evidentemente, non potrà che essere un tentativo di interpretazione basato sui fatti che sono stati già illustrati nei capitoli 7 e 8 della presente motivazione (ma anche nel capitolo 9 e nell’ultima parte del capitolo 14, relativamente alle iniziative delittuose assunte in quel periodo ai danni di Cuccia e Calvi). Un’attenta esegesi di tutte le lettere di Sindona scritte durante la sua scomparsa, e di tutti i messaggi provenienti dagli inesistenti rapitori, sembra essere il punto di partenza più ragionevole: ed infatti una siffatta esegesi si rivela (proprio per essere ormai pacifico che il rapimento è una finzione) piuttosto illuminante.Si consideri per esempio la telefonata anonima ricevuta da Guzzi il 3 settembre (fatta, come si è detto, da Francesca Paola Longo):in essa i «rapitori» si premurano di dire al legale che «se ritiene suo dovere informare le autorità lo faccia pure»; questa precisazione viene successivamente ribadita dall’inesistente «gruppo proletario» nella lettera ricevuta da Guzzi il 12 settembre, laddove si legge, subito dopo l’elenco delle richieste, che «se l’avv. Guzzi deve (sottolineato nel testo) comunicare alle autorità il contenuto della presente e delle nostre telefonate può farlo». Orbene, è davvero piuttosto singolare che un gruppo di rapitori si premuri di sottolineare nei suoi messaggi estorsivi (e per ben due volte) che esso non si oppone a che le autorità siano messe a conoscenza del contenuto dei messaggi medesimi. Sindona, nell’organizzare meticolosamente la sua messinscena, non poteva non rendersi conto di quanto fosse anomalo un simile comportamento da parte di una banda di sequestratori; quindi se ne deve dedurre che egli si sia indotto a far dire per telefono alla Longo, e poi a scrivere, quella peculiarissima precisazione per una ragione per lui molto importante, come per la preoccupazione che, in mancanza di quella precisazione, potessero venire frustrati gli scopi stessi della sua messinscena. E non è difficile individuare la ragione di quelle due frasette se si considera attentamente il tenore ed il significato delle dieci «richieste dei rapitori» (manoscritte da Sindona), o meglio delle prime nove, che qui si riportano:
Ma la conferma di questa interpretazione la si trae anche dalla decima delle richieste avanzate dal preteso «gruppo proletario», la quale appare al tempo stesso assai singolare e assai significativa: «Se è vero che Michele Sindona -si chiede al punto 10 –ha richiesto ai magistrati italiani e americani, da molto tempo e quando, gli esperti per verificare i conti delle sue banche italiane ed estere (compresa Amincor Bank) e se, quando e con quale documento, ha esonerato le banche estere dal vincolo del segreto bancario». Per il punto dieci -prosegue l’intimazione degli inesistenti rapitori -«le copie delle richieste o dei documenti dovranno essere pubblicati da un giornale o una rivista (qualsiasi) che l’avvocato Guzzi indicherà quando telefoneremo per le risposte».Nella stessa lettera in cui sono inserite le richieste, Sindona sottolinea poi che «è importante la pubblicazione di quanto richiesto al punto dieci». Orbene, è questo un altro messaggio indirizzato ad incertam personam (sostanzialmente destinato a chiunque se ne riconosca come destinatario), e di cui non a caso si vuole la pubblicazione su un organo di stampa. Si vuole evidentemente far trasparire (lasciandola però sapientemente nel vago) la possibilità che Michele Sindona sia entrato o stia entrando nell’ordine di idee di svelare i segreti celati dalle banche estere e di cui egli possiede la chiave. Si è detto che i destinatari di questi messaggi siano vagamente indeterminati, e siano al tempo stesso accomunati dalla singolare caratteristica di essere essi stessi destinati a riconoscersi come tali. Dal punto di vista di Sindona, comunque, destinatari del suo diabolico avvertimento sono quei gruppi che egli ha sempre considerato, e considera tuttora, in debito nei suoi confronti, ed obbligati ad attivarsi in tutti i modi per salvarlo. Infatti, nelle condotte poste in essere da Sindona si nota costantemente la tendenza a pretendere comunque il salvataggio ed a minacciare ritorsioni nei confronti di chi, essendo a suo avviso tenuto ad aiutarlo, si sottragga ai suoi obblighi. Questo atteggiamento traspare ad esempio chiaramente nella prima lettera, ricevuta da Guzzi il 27 agosto, per molti versi preparatoria della lettera contenente le richieste, laddove Sindona scrive che «le persone implicate non hanno mai sollevato un dito per difendermi e non mi sento in alcun modo, sul piano morale, di proteggerli»; e più avanti Sindona insiste sul medesimo concetto: «Nessuna, dico nessuna, delle persone “ricercate” dai miei tutori mi ha mai dato una mano». In realtà con le lettere scritte dalla pretesa prigione proletaria, Sindona dimostra di essere un insuperabile maestro, se non nell’arte di simulare rapimenti plausibili, certamente nell’arte del messaggio velato ma non troppo velato, dell’avvertimento obliquo ma non al punto da fallire il bersaglio, della minaccia latente ed ambigua ma non al punto da non essere percepibile. Ed ecco, infatti, Sindona che nella lettera giunta a Guzzi il 27 agosto dipinge i suoi inesistenti sequestratori come individui assetati di documenti esplosivi, e rappresenta al tempo stesso i propri tentativi di trovare un compromesso equo fra l’esigenza di non contrariare i suoi temibili custodi e l’esigenza di arginare la loro inesauribile avidità di notizie compromettenti: «Qua mi hanno sopravvalutato e credono che io sappia tutto su tutti e che abbia elementi o documenti di tanta importanza da creare importanti sconvolgimenti … »; e più avanti: «Credono che sappia molto di più; ho molti elementi: alcuni li ho forniti a voce, per altri darò documenti se liberato». E la manovra continua nella lettera giunta a Guzzi il 12 settembre, laddove con tono vittimistico Sindona si lamenta per la scarsa fiducia che i suoi inesistenti rapitori riporrebbero in lui: «Dicono che con le mie lettere ho fatto il furbo e che le ho scritte più per autodifendermi che per procurare le notizie che vogliono per il mio processo e per quello che dicono di voler fare ad altri»; in questa lettera, che accompagna le richieste, Sindona fa appello all’amicizia di Guzzi per pregarlo di fare «il possibile» per fornire gli elementi richiesti, perché, scrive, «premono molto e ti assicuro che la mia posizione diventa sempre più difficile», e, poco dopo, «ho assoluto e vitale bisogno di collaborare». La mastodontica mistificazione prende quindi corpo nel senso di presentare la posizione di Sindona come quella, incresciosa, di un uomo costretto, suo malgrado, a dover fare rivelazioni esplosive e sconvolgenti e tali da poter rovinare qualche illustre personaggio, per poter evitare gravissimi danni alla sua persona. In questo quadro Sindona continua ad affinare e perfezionare i suoi avvertimenti ammiccanti ed obliqui, come quando, ad esempio, si premura di rassicurare qualcuno dei possibili destinatari, scrivendo più volte nelle sue lettere (altra curiosa anomalia, per delle lettere che dovrebbero provenire da un rapito) che si asterrà dal consegnare ai sequestratori documenti coperti dal suo segreto professionale: «Quei pochi elementi in mio possesso per motivi professionali, che d’altra parte non credo siano importanti per i miei “tutori” non ho il diritto di fornirli. Posso dare notizie già in possesso di altri ed a loro sconosciute… Si tratta di documenti di cui sono in possesso per motivi extraprofessionali e quindi non ho scrupoli a fornirli». Solo apparentemente queste frasi appaiono misteriose: in realtà Sindona vuol sottolineare la sua possibilità di accedere a documenti compromettenti, o al fatto di essersene già assicurata la disponibilità attraverso canali non ufficiali, e vuole chiarire che solo di siffatti documenti, di provenienza «extraprofessionale», egli sta parlando. E’ un modo sottileed elegante per ribadire che si sta alludendo a documenti «clandestini» per loro intrinseca natura (e cioè a strumenti di ricatto puri e semplici), lanciando però, al tempo stesso, un avvertimento anche in ordine alla potenzialità ricattatoria di documenti che egli possiede a titolo professionale. Inoltre, con questo discorso sul segreto professionale, Sindona mira anche ad apparire come un leale professionista agli occhi delle autorità USA, e mira altresì a rassicurare quei clienti di cui non vuole perdere la fiducia. Sempre nel quadro che si va delineando, appaiono estremamente significativi taluni passaggi delle lettere di Sindona in cui egli nega di essere in possesso di determinati documenti o di essersi interessato a determinate operazioni, ma aggiunge tuttavia qualche parola sibillina dalla quale si intuisca che potrebbe essere vero proprio il contrario: come per sottolineare, attraverso una sapiente allusione indiretta, che in ultima analisi è sempre lui, Sindona, che può decidere a suo piacimento se tradire o meno, e quando, certi grandi segreti. Ciò avviene per esempio nel capitoletto intitolato «corruzioni politiche» della lettera giunta a Guzzi il 27 agosto, laddove Sindona scrive che «mai, per quanto a mia conoscenza, sono state utilizzate somme delle banche da me controllate per finanziamenti a partiti politici»; ma poi aggiunge che operazioni di questo tipo possono essere note «soltanto ai capi esecutivi delle banche», dato che lui non ne aveva i poteri; e conclude dicendo che «è questo il motivo per cui non si trovano documenti da me firmati», lasciando così intendere che potrebbero però anche esserci documenti, relativi a siffatte operazioni, firmati da qualcun altro. Qualcosa di analogo è osservabile in ciò che Sindona scrive a Guzzi, sempre nella stessa lettera, a proposito della lista dei 500, laddove da un lato egli nega che essa esista, dall’altro fa però intendere che essa può essere ricostruita e che egli sa in che modo: «Elenco dei 500: ho fatto presente che tale elenco non esiste se ci si intende riferire a nomi di persone che hanno depositato all’estero nelle banche da me controllate… L’elenco di cui si parla è una lista di circa 530 depositi interbancari che possono non aver riferimento ad alcun cliente»; ed ecco che poche righe più sotto Sìndona aggiunge che presso Finabank c’era o c’è «un libro speciale su cui si può notare la corrispondenza tra conti, numeri e nomi». Quella che Sindona pone in essere, quindi, è la minaccia di una disseminazione incontrollabile di rivelazioni terribilmente compromettenti quanto documentate. Un particolare non secondario è costituito da quelle frasi di Sindona, sparse qua e là nelle sue lettere, nelle quali egli lascia intendere che il meccanismo di questa disseminazione potrà continuare a muoversi autonomamente anche dopo la sua «liberazione» da parte dei pretesi terroristi: «posso dare qualche documento di cui posso venire in possesso solo se liberato», «mi sono impegnato a consegnare da libero tali documenti», «per altri darò documenti se liberato», «i documenti che io mi impegno a consegnare se mi lasceranno libero in America e non mi porteranno in Italia», «spero accettino un mio impegno a consegnarli se libero», «mi impegnerò a consegnare, da libero, qualche cosa che voi non potete avere». Non a caso poi Sindona lascia intendere, con una delle frasi testé riportate, e lo ribadisce in due lettere distinte, che sarà in America (e non in Italia, ove egli è già colpito da mandato di cattura) il luogo in cui lo rimetteranno in libertà i suoi inesistenti rapitori: ciò perché, evidentemente, egli vuole evitare che i destinatari dei suoi avvertimenti si facciano illusioni sulla possibilità di una sua ricomparsa in Italia, e quindi sulla possibilità che la sua minaccia sia facilmente sventabile attraverso il suo arresto.
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