di Giorgio Bongiovanni
Il 19 luglio 1992, in via d’Amelio, è andata in scena una vera e propria strage di Stato. Ecco quel che è accaduto ormai 26 anni fa. Le motivazioni della sentenza della Corte d’Assise di Caltanissetta sul processo Borsellino quater mettono in evidenza i contorni del depistaggio e di quelle zone d’ombra su cui oggi è necessario far luce.
La mafia ha eseguito materialmente una parte della strage ma, possiamo dirlo, è sempre più evidente che non fosse da sola.
Quando intervistai il collaboratore di giustizia, Totò Cancemi, mi disse che “Riina è stato preso per la manina per fare le stragi”. I giudici nisseni, parlando dell’accelerazione sulla strage, appena 57 giorni dopo quella di Capaci, hanno ricordato le parole dell’ex boss di Porta nuova, il quale aveva spiegato che da giugno 1992 i “discorsi” su Borsellino diventarono più pressanti e che lo stesso capo dei capi si assumeva la responsabilità e la paternità di uccidere subito il giudice. E anche le parole del collaboratore Nino Giuffré sui sondaggi e le “tastate di polso” esterne a Cosa nostra non possono essere dimenticate.
Ed è espressamente chiarito che il magistrato palermitano “rappresentava un pesantissimo ostacolo alla realizzazione dei disegni criminali non soltanto dell’associazione mafiosa, ma anche di molteplici settori del mondo sociale, dell’economia e della politica compromessi con ‘Cosa Nostra'”.
Quindi, senza entrare nel merito della questione “trattativa Stato-mafia” (oggetto di altro procedimento su cui si è espressa lo scorso 20 aprile la Corte d’assise di Palermo –, i giudici scrivono che “appare incontestabile come la strage di Via D’Amelio, inserita nella complessiva strategia stragista di cui si è ampiamente riferito, oltre a soddisfare un viscerale istinto vendicativo, si proponesse il fine di “spargere terrore” allo scopo di “destare panico nella popolazione”, di creare una situazione di diffuso allarme che piegasse la resistenza delle Istituzioni, così costringendo gli organi dello Stato a sedere da ‘vinti’ al tavolo della ‘trattativa’ per accettare le condizioni che il Riina ed i suoi sodali intendevano imporre”.
Come giustamente ha ricordato Saverio Lodato le sentenze di Palermo e di Caltanissetta hanno il merito di mettere alla luce le responsabilità che pezzi di Stato e delle istituzioni hanno avuto negli anni delle bombe.
Il “nodo” dei mandanti esterni si intreccia anche con la scomparsa dell’agenda rossa ed il depistaggio che è stato definito come il “più grande della storia”.
I processi che si sono fin qui celebrati hanno offerto una parte della verità. E non è un caso se anche la sentenza del “quater” riprende le motivazioni del “Borsellino ter”. Proprio in quest’ultimo si parla delle piste che portano al possibile collegamento tra l’accelerazione della strage di via d’Amelio e la trattativa Ciancimino-Ros dei Carabinieri; ma anche del fatto (così come riferiva sempre Cancemi) che Riina citava Berlusconi e Dell’Utri come soggetti da appoggiare “ora e in futuro”, e rassicurava gli altri componenti della Cupola che fare quella strage sarebbe stato alla lunga “un bene per tutta Cosa nostra”.
La motivazioni della sentenza, depositate sabato, affrontano anche il tema degli “elementi di verità” con cui è stato imboccato Scarantino chiarendo che il depistaggio, così come aveva spiegato il pm Nino Di Matteo in Commissione antimafia, era iniziato immediatamente dopo la strage (due anni prima dal momento in cui Di Matteo si era occupato delle indagini).
Una “pista” viene indicata in seno a quei Servizi di sicurezza che già il giorno dopo la strage furono coinvolti direttamente dal Procuratore capo di Caltanissetta, Gianni Tinebra. Fu lui a chiedere aiuto per le indagini all’ex numero due del Sisde Bruno Contrada. E pesano come macigni le note che lo stesso Servizio segreto civile diffuse proprio nelle prime fasi delle indagini.
La prima è quella del 13 agosto 1992 dove il Centro di Palermo comunicava alla Direzione del Sisde di Roma che “a seguito di ‘contatti informali’ con gli investigatori della Questura di Palermo, anticipazioni sullo sviluppo delle indagini relative alla strage di via d’Amelio circa gli autori del furto della macchina ed il luogo ove la stessa ‘sarebbe stata custodita prima di essere utilizzata nell’attentato’”.
Un’informazione incredibile tenuto conto della tempistica che precede di diverso tempo la comparsa sulla scena di Candura e Scarantino (ufficialmente le prime fonti di accusa che portavano in direzione della Guadagna). Poi ci sono le note del 17 ottobre ’92, firmata da Lorenzo Narracci (vice capocentro del Sisde di Palermo), in cui venivano inseriti i nomi di Luciano Valenti, Roberto Valenti e Salvatore Candura; e sempre di ottobre è la nota del centro Sisde di Palermo che informò gli uffici centrali del servizio e quindi la Questura di Caltanissetta circa le parentele mafiose “importanti” di Scarantino. Tra queste non vi era solo il cognato Salvatore Profeta, uomo d’onore della famiglia mafiosa di S. Maria di Gesù ma che con Scarantino non aveva alcun legame di collaborazione criminale. L’intelligence ipotizzava, infatti, una lontana, ma mai accertata, parentela con la famiglia Madonia di Resuttana. Ci fu dunque una spinta dei Servizi verso quella falsa verità? La Corte d’Assise punta il dito contro gli investigatori ed in particolare contro l’allora Capo della Polizia, Arnaldo La Barbera, stabilendo un collegamento anche con la vicenda della sparizione dell’Agenda Rossa.
Misteri su misteri. Questi elementi, a cui si aggiungono le dichiarazioni coincidenti tra Gaspare Spatuzza e Scarantino sulle modalità del furto dell’auto e del ricovero in un garage; ma anche gli aspetti riguardanti la presenza di un uomo “non appartenente a Cosa nostra” (così come riferito dall’ex boss di Brancaccio) nel momento dell’imbottitura di esplosivo della macchina; o le intercettazioni tra il pentito Mario Santo Di Matteo e la moglie dove si parlava di “infiltrati della polizia”; sollevano inquietanti interrogativi. E sembra incredibile che, dopo 26 anni, ancora non sappiamo con assoluta certezza chi ha premuto il pulsante del telecomando che fece saltare in aria Borsellino e gli agenti di scorta.
Giustamente i familiari delle vittime tornano a chiedere ulteriori indagini e che si faccia verità e giustizia su questi fatti.
In particolare oggi, intervistata da Il Fatto Quotidiano e La Repubblica, Fiammetta Borsellino parla della sentenza come di un “punto di partenza”. La figlia del magistrato chiede “risposte tangibili e non parate in occasione del 19 luglio, per l’anniversario della morte di mio padre e dei poliziotti”. A Repubblica ha lasciato anche alcuni dei quesiti che rivolgerebbe a figure come Giuseppe Ayala (“che nel 1992 era parlamentare, vorrei chiedere perché ha fornito sette versioni diverse dei momenti successivi alla strage, in cui si trovò fra i primi in via D’Amelio a tenere in mano la borsa di papà. E poco dopo scomparve l’agenda rossa”) e come Ilda Boccassini (“anche lei in quel periodo a Caltanissetta, ed era fra i pm che non credeva a Scarantino, vorrei chiedere perché autorizzò dieci colloqui investigativi dell’allora capo della Mobile La Barbera proprio con Scarantino, nonostante avesse già iniziato a collaborare con la giustizia”). Quindi è tornata a chiedere al Csm e al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che “si faccia luce sulle responsabilità dei magistrati nelle indagini” ricordando che “Alcuni dei magistrati che hanno avallato il falso pentito continuano a ricoprire incarichi importanti. Anna Palma è avvocato generale di Palermo, Carmelo Petralia è procuratore aggiunto a Catania”.
Poi però inciampa quando torna a chiedersi se “sia stata una scelta corretta da parte dei magistrati dell’accusa quella di non depositare subito il confronto tra il falso pentito Vincenzo Scarantino e il collaboratore di giustizia Salvatore Cancemi che lo sbugiardava”. Un richiamo, di fatto, ai pm di allora Palma e Di Matteo. Per rispondere a questa domanda va ricordato che il deposito posticipato di quegli atti al processo “Borsellino bis” era costata una denuncia da parte dei tre legali nei confronti dei pm Annamaria Palma, Carmelo Petralia e Nino Di Matteo per “comportamento omissivo”. A loro volta i magistrati avevano denunciato per calunnia i tre avvocati. Il 25 febbraio 1998 il Gip di Catania aveva definitivamente archiviato l’inchiesta sui sostituti procuratori di Caltanissetta in quanto priva di alcun “comportamento omissivo”.
Di questi episodi lo stesso pm Nino Di Matteo ha riferito sia di fronte alla Commissione parlamentare antimafia che al processo Borsellino quater.
Sentito come teste nel 2015 il pm Di Matteo aveva spiegato con dovizia di particolari il criterio usato nella valutazione delle dichiarazioni di Scarantino da parte dei magistrati: “Noi credevamo che Scarantino fosse a conoscenza di alcuni segmenti dell’organizzazione materiale e della preparazione dell’attentato e che avesse detto la verità nei primi tre interrogatori, quelli precedenti al 6 settembre ’94 dove si parla della riunione nella casa di Calascibetta. Pertanto nel ‘Borsellino Bis’ avevamo chiesto di non utilizzarlo quando non era riscontrato”.
E in Commissione parlamentare antimafia aveva ricordato anche il processo di revisione, in merito all’accusa di strage, per sette imputati del Borsellino bis. “Nessuno ricorda – disse allora – che già all’esito del processo di primo grado di quel troncone, via d’Amelio bis (sentenza di primo grado del 13 febbraio 1999) 6 dei 7 soggetti successivamente revisionati erano già stati assolti dalla Corte d’Assise di primo grado. Tutti fingono di dimenticare che per 3 posizioni di quelle 6 erano stati gli stessi pubblici ministeri (Di Matteo e Palma, ndr) a chiedere l’assoluzione”.
E va ricordato che Di Matteo, oggi sostituto procuratore nazionale antimafia, si occupò solo marginalmente delle indagini poi scaturite nel “Borsellino bis”, dove entrò a dibattimento già avviato. Diversamente istruì in toto le indagini sul “Borsellino ter”, che abbiamo ricordato in precedenza, che ha portato alla condanna di tutti i capi della Commissione provinciale e regionale. E non va dimenticato l’impegno profuso nella ricerca dei mandanti esterni per le stragi del 1992, anche assieme al collega Luca Tescaroli, negli anni successivi con le indagini sulla presenza di Bruno Contrada per concorso in strage o quelle su “Alfa e Beta” (ovvero Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri).
Elementi che messi insieme dimostrano come il pm Nino Di Matteo non ha nulla a che vedere con il depistaggio ordito sulla strage di via d’Amelio.
Alla luce di questi fatti, con il rispetto per la legittima e sacrosanta pretesa di verità che Fiammetta Borsellino grida allo Stato sulla morte del padre, ancora una volta esprimiamo il nostro pensiero. Sarebbe auspicabile che la figlia del giudice riconoscesse l’oggettiva estraneità del pm Di Matteo al depistaggio.
Parole e fatti che hanno un peso e, senza i distinguo, la macchina del fango si mette in moto a scapito della ricerca della verità. Ciò detto soprattutto per evitare di isolare magistrati, come Nino Di Matteo condannato a morte dai capi di Cosa nostra.
02 Luglio 2018