di Ann Robertson
Prima parte
Sono state fornite molte spiegazioni del conflitto tra Marx e Bakunin. C’è chi ha posto l’accento sul carattere intrattabile dei due filosofi, che precluse ogni accordo. Tuttavia ad un’analisi più attenta, come quella sviluppata in quest’articolo (pubblicato sul sito In defence of Marxism), si noterà che le differenze tra marxismo ed anarchia sono così profonde da rendere le analogie più apparenti che reali.
I tempestosi rapporti tra Marx e Bakunin sono un lascito della storia del socialismo occidentale. Entrambi membri dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, sembra che abbiano impiegato le stesse energie utilizzate contro il nemico comune, il sistema capitalista, per farsi la guerra tra loro, culminata con l’espulsione di Bakunin dall’organizzazione propugnata da Marx stesso. Benché mantenessero talvolta cordiali rapporti, non lesinavano mutui attestati poco cordiali. Secondo Marx, Bakunin era “un uomo privo di conoscenze teoriche” e “sostanzialmente un intrigante”, [1] mentre Bakunin sosteneva che Marx “non conosce l’istinto di libertà; rimane un autoritario dalla testa ai piedi”. [2]
Per alcuni l’intensità dello scontro fu imbarazzante, considerando che i fini dei due autori sembravano combaciare. Convinti che il capitalismo trovi fondamento nello sfruttamento dei lavoratori da parte dei capitalisti, entrambi lottavano per una società socialista senza classi, in cui ogni individuo avesse l’opportunità di sviluppare le proprie capacità creative. Il socialismo è per loro eliminazione della divisione tra lavoro manuale e intellettuale e tra uomini e donne. In altre parole, il sistema doveva essere trasformato in modo che ogni lavoratore avesse una parte attiva nell’organizzazione, nella pianificazione e nell’ottimizzazione del processo lavorativo. Inoltre, per entrambi, gli oppressi dovevano liberarsi da soli – non ci si poteva attendere alcuna benevolenza da parte dei membri della classe dominante; e per avere successo, la rivoluzione doveva assumere un carattere internazionale. Infine concordavano sul fatto che lo Stato fosse uno strumento dell’oppressione di classe, e non un organo neutrale che rappresenta con equità gli interessi di tutti, e dovesse perciò, in ultima analisi, essere abolito. La Comune di Parigi del 1871 era, secondo loro, il modello da emulare.
Tuttavia c’era un punto di conflitto profondo inerente due diverse concezioni dello Stato. Mentre Marx prevedeva uno stadio intermedio tra capitalismo e comunismo maturo, uno stato sotto forma di dittatura del proletariato (cioè uno stato operaio), Bakunin aborriva qualunque sistema statale, sia pure operaio. Ecco il principio generatore dell’idea anarchica, termine che significa letteralmente “nessun governo”. Per Bakunin l’unica seria opzione rivoluzionaria doveva prevedere l’immediato passaggio ad una società comunista matura che, e qui i due autori tornavano in accordo, si sarebbe distinta per l’assenza di Stato. Corollario di questa divergenza era che Marx sostenesse i tentativi delle organizzazioni operaie indipendenti di perseguire i propri scopi di classe facendo pressioni per riforme quali la riduzione dell’orario di lavoro, sostenendo che eventuali successi avrebbero favorito lo sviluppo di una coscienza di classe, mentre Bakunin contestava questa linea. Per lui ogni coinvolgimento politico avrebbe costituito una distorsione del processo rivoluzionario, non si doveva assolutamente frequentare l’arena politica borghese. C’era dissenso anche sulle forme più adatte all’organizzazione rivoluzionaria. Bakunin creava con entusiasmo società segrete che dovevano servire da catalizzatori della rivolta rivoluzionaria mentre Marx rigettava totalmente quest’idea. Anche il ruolo dei contadini nel movimento rivoluzionario era infine in discussione. Secondo Bakunin poteva essere determinante, per Marx solo il proletariato era in grado di condurre l’azione rivoluzionaria.
Considerata la preponderanza dei punti d’accordo, alcuni commentatori hanno caratterizzato l’interminabile diatriba che caratterizzò il loro rapporto come il risultato di differenti inclinazioni personali. Ad esempio Bakunin è stato accusato di essere contemporaneamente antisemita e antitedesco, mentre Marx sarebbe stato vittima di un’incurabile e rigida tendenza all’autoritarismo. In ogni caso un più attento esame delle irriducibili differenze deve muovere da una ricerca approfondita sulle strutture filosofiche divergenti che stanno alla base delle rispettive analisi politiche. Come vedremo, i concetti fondamentali di ognuno sono talmente differenti tra loro da rendere gli stessi punti di convergenza più illusori che sostanziali.
Le posizioni filosofiche di Bakunin
I più importanti concetti filosofici alla base dell’approccio di Bakunin alla realtà umana provengono dall’Illuminismo europeo, in particolare dalla scuola empirista di questa tradizione, dei cui principi tracceremo ora una breve descrizione.
Essendo stati testimoni degli enormi successi ottenuti nell’approccio alle scienze naturali da studiosi del calibro di Newton e Galileo tra gli altri, molti filosofi illuministi furono tentati di trasporne sia il metodo che gli assunti principali nel dominio delle scienze umane. Ciò portò all’elaborazione di concetti quali l’idea che specie differenti d’oggetti naturali contengano ognuno un’unica, definita e immutabile essenza; o che gli oggetti interagiscano tra di loro secondo leggi meccaniche fisse di causa ed effetto e che quindi anche le interazioni tra individui siano regolate da leggi identificabili e codificabili tramite l’attenta osservazione diretta. Conseguentemente i pensatori illuministi considerarono gli esseri umani creature naturali tra le altre, con un’essenza permanente loro propria e comportamenti interamente determinati da cause naturali. Questo approccio era sintetizzato dal popolare ricorso al concetto di “stato di natura”, cioè precedente, in senso letterale o figurato, alla nascita di società organizzate, immagine che richiamava una condizione “immacolata” della natura umana, prima dei cambiamenti imposti dall’impatto con la società. I filosofi dell’epoca, in pieno sviluppo capitalistico, consideravano gli uomini come individui autonomi, indipendenti e individualisti, fortemente inclini a perseguire i propri interessi personali, seguendo i dettami borghesi vigenti.
In qualche modo Bakunin si allontanò da questa tradizione filosofica rifiutando la descrizione essenzialmente individualistica degli uomini. Per esempio derideva l’idea che la società nascesse da contratti stipulati tra singoli individui indipendenti, definendola una “finzione” filosofica, sostenendo al contrario che gli uomini fossero naturalmente sociali ed avessero sempre vissuto in comunità. Ma sottoscrisse pienamente l’approccio secondo cui l’uomo dovrebbe, da un punto di vista teorico, essere considerato alla stregua di qualunque altro oggetto naturale, con un comportamento totalmente governato da leggi naturali meccaniche. Le seguenti citazioni offrono un esempio di questa visione:
“Ci sono molte leggi che, nonostante la nostra inconsapevolezza, fanno muovere [la società]; si tratta di leggi naturali, inerenti il corpo sociale…Esse hanno governato la società umana sin dalla sua nascita indipendentemente dalle opinioni e dalla volontà degli uomini ad essa appartenenti.” [3]
“[Le leggi naturali]…fanno parte della nostra essenza nel senso più generale, fisicamente, intellettualmente, moralmente; solamente tramite queste leggi noi possiamo vivere, respirare, agire, pensare e desiderare.” [4]
“Storia e statistiche ci dimostrano che il corpo sociale, come ogni altro oggetto naturale, nelle sue trasformazioni evolutive obbedisce a leggi generali necessarie tanto quanto quelle che regolano il mondo fisico.” [5]
“L’uomo non è nient’altro che Natura… E la Natura avvolge, permea, forma la sua intera esistenza.” [6]
L’etica di Bakunin appare a prima vista come una logica conseguenza del suo generale approccio naturalistico nel momento in cui fa coincidere moralità e naturalità:
“La legge morale…ha senza dubbio fondamenti reali…perché emana direttamente dalla vera natura della società umana, le cui radici non vanno ricercate in Dio ma nell’animalità.” [7]
“Parlo di quella giustizia basata esclusivamente sulla coscienza umana, il senso di giustizia che ognuno di noi, anche da bambino, sente nel profondo del suo essere, che si traduce semplicemente nel concetto d’uguaglianza.” [8]
In altre parole, c’è un sentimento umano naturale di giustizia insito e immutabile nella natura umana.
Il concetto che Bakunin ha del male non è affatto solido. Da un lato sembra seguire la tradizione empirista che lo identifica comunque con qualcosa di naturale:
“Sappiamo bene, in ogni caso, che Bene e Male non sono nient’altro che risultati conseguenti da cause naturali, e che quindi sono entrambi inevitabili.” [9]
Dall’altro, forse trovandolo politicamente conveniente, egli considera il Male non come un impulso o sentimento naturale, ma come qualcosa di “innaturale”, esterno al campo di applicazione delle leggi naturali, che con la sua esistenza crea un sistema duale. Per sua natura ciò che non è governato da queste leggi è innaturale, artificiale, e può essere dominato solo con il continuo ricorso a forza e coercizione:
“Dobbiamo saper distinguere molto bene le leggi naturali dalle leggi autoritarie, arbitrarie, politiche, religiose, criminali e civili instaurate dalle classi privilegiate…” [10]
Un’ultima importante componente dell’arsenale ideologico di Bakunin è la nozione di libertà. Quando Marx e Bakunin menzionano questo termine, hanno in mente due concetti completamente differenti. L’idea di Bakunin contiene elementi importanti. Per esempio egli ritiene che agire liberamente significhi prima di tutto agire “naturalmente”, in accordo con i propri impulsi naturali:
“La libertà dell’uomo consiste esclusivamente in questo: egli obbedisce a leggi naturali che egli stesso riconosce come tali e non come imposte da una qualunque volontà esterna, divina, umana, collettiva o individuale che sia.” [11]
In altri termini siamo al concetto di uomini come creature naturali dominate da leggi naturali. Agire naturalmente significa semplicemente essere spontanei, essere “sé stessi”:
“Ancora una volta, è la Vita, non la scienza, che crea la vita stessa; l’agire spontaneo delle masse, da solo, può creare libertà”. [12]
L’identificazione tra libertà e spontaneità, o comportamento impulsivo, conduce ad un secondo aspetto della definizione bakuniana. Egli sostiene che la libertà possa essere esercitata da un singolo, isolato individuo all’interno di una comunità umana, che sia possibile agire spontaneamente in totale solitudine, senza alcuna capacità mentale speciale acquisita. Quindi per Bakunin il concetto di libertà è individuale, non fa riferimento a tutti gli uomini costituenti una comunità.
“La libertà…consiste nell’avere la possibilità, come uomo, di non obbedire a nessun altro e di agire solo sulla base del proprio giudizio personale.” [13]
“Libertà è il diritto assoluto di uomini e donne adulte a rispondere delle proprie azioni solo al cospetto della propria coscienza e della propria ragione, a essere i soli a determinare le proprie libere volontà, e conseguentemente ad essere responsabili di sé stessi verso sé stessi, prima di tutto, e poi nei confronti della società, di cui fanno parte, ma solo fino a quando acconsentono ad appartenervi.” [14]
Comunque, ritenendo che gli uomini tendessero naturalmente alla socialità, a volte cercò di dimostrare che questo concetto di libertà operava coerentemente nella comunità umana:
“Mi considero un fanatico della libertà…Non parlo della libertà formale dispensata, misurata e controllata dallo Stato…e nemmeno di quella individuale, egoista, vile e fraudolenta magnificata dai seguaci di Jean Jacques Rosseau e da ogni altra scuola di pensiero del liberalismo borghese, che considera i diritti di tutti, rappresentati dallo Stato, come un limite al diritto di ognuno…No, io intendo l’unica libertà degna di questo nome, quella che implica lo sviluppo di tutte le capacità materiali, morali ed intellettuali latenti in ognuno di noi; la libertà che non conosce confini, se non quelli imposti dalle leggi della propria natura, né conseguentemente restrizioni, poiché queste leggi non ci sono imposte da nessun legislatore esterno. Esse sono soggettive, proprie appunto della nostra natura, costituenti fondamentali della nostra essenza…La libertà di ogni uomo che non considera quella di un suo simile come frontiera ma come conferma ed estensione della propria; libertà per mezzo di solidarietà, nell’ uguaglianza.” [15]
Lasciando perdere eventuali questioni di coerenza con le sue prime formulazioni, Bakunin sostiene che è nella nostra natura vivere uniti in uguaglianza, cooperando gli uni con gli altri, senza sfruttatori né sfruttati. Per cui, agendo naturalmente e quindi liberamente, di certo non danneggerò il mio vicino, piuttosto consentirò anche a lui di vivere secondo natura. In questo modo la libertà del singolo serve a confermare ed estendere la propria. Ma, ancora, questa concezione di libertà è incentrata sull’individuo: “…libertà e prosperità collettive esistono solo come sommatoria di libertà e prosperità individuali”. [16]
Per riassumere: Bakunin agisce, per sommi capi, in un contesto di pensiero naturalistico dominato dalla corrente empirista dell’Illuminismo. Gli esseri umani fanno parte di un ambiente naturale dato, nel quale i comportamenti sono determinati in base a leggi naturali. Questa condizione è identificata con il Bene. Ma nel momento in cui la coercizione entra nelle relazioni tra gli individui, ci si sposta nel regno dell’innaturale. Alienati dalla nostra condizione naturale ci troviamo a perdere la nostra libertà.
La filosofia di Marx
Mentre le principali asserzioni teoriche di Bakunin erano saldamente radicate nella filosofia materialista dell’Illuminismo, Marx si confrontò con questa tradizione solo dopo che, per merito di Hegel, questa aveva subito significative trasformazioni. In primo luogo Hegel rigettò l’idea di genere umano come specie sottoposta alle medesime ed immutabili leggi governanti il resto del mondo naturale. Piuttosto postulò l’idea di un’umanità coinvolta in un processo evolutivo, in continua e tumultuosa trasformazione nel suo percorso tendente ad una razionalità sempre maggiore. Inoltre quest’impresa era concepita come grande sforzo collettivo poiché la razionalità, in ultima analisi, è un attributo che richiede, dal momento della sua comparsa e nel suo continuo esercizio, il contributo dell’intera specie. Per esempio, ogni generazione si trova a costruire sulle realizzazioni razionali di quelle precedenti, ed in questo modo l’umanità progredisce nella conoscenza scientifica della realtà circostante. Alla fine, secondo Hegel, il processo troverà la fine in uno stato di perfetta razionalità in cui l’umanità avrà acquisito auto-coscienza e i suoi membri saranno capaci di regolare i rapporti tra loro secondo canoni condivisi e razionali, avendo raggiunto la consapevolezza di sé stessi come specie razionale in senso comunitario.
Marx condivise la visione hegeliana di un’umanità alle prese con un’intrapresa collettiva, ma argomentò a favore di una logica differente alla base del processo. Per Hegel lo sviluppo storico procedeva in parallelo al grado di presa di coscienza raggiunto dell’uomo, mentre Marx lo faceva dipendere da una base materiale. In particolare, riteneva che il modo in cui gli uomini ricercano la soddisfazione dei propri bisogni primari imprima un marchio sul tipo di società costruita, sui rapporti tra le persone e sulle idee che formulano riguardo sé stesse e il mondo che le circonda:
“Nella produzione sociale della loro esistenza gli uomini vengono a trovarsi in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, cioè in rapporti di produzione corrispondenti ad un determinato livello di sviluppo delle forze produttive materiali. Il complesso di tali rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, la base reale su cui si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e a cui corrispondono determinate forme di coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale è ciò che condiziona il processo sociale, politico e spirituale. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma, al contrario, è il loro essere sociale che determina la loro coscienza”. [17]
Inoltre questa concezione economica ha una logica che spiana la strada ad un processo storico:
“…Dobbiamo cominciare con il constatare che il primo presupposto di ogni esistenza umana, dunque anche di ogni storia, è che gli uomini, per potere «fare storia», debbano essere in grado di vivere. Ma al vivere si addice, innanzi tutto, il mangiare e bere, l’abitazione, il vestiario e altre cose ancora. Il primo fatto storico dunque la produzione di mezzi per la soddisfazione di questi bisogni, la produzione della vita materiale stessa. (…)
Il secondo punto è che il primo bisogno soddisfatto, (…) porta a nuovi bisogni – e questa produzione di nuovi bisogni è il primo fatto storico”. [18]
Come per Hegel, anche per Marx questo sviluppo storico ha carattere collettivo dato che gli uomini dipendono gli uni dagli altri sia per la soddisfazione dei bisogni primari che per l’acquisizione di necessità più elevate:
“Ciò che abbiamo di fronte, da cui dobbiamo partire, è la produzione materiale. Gli individui producono in società – quindi la produzione individuale socialmente determinata è, senza dubbio, il punto di partenza.
Il cacciatore o il pescatore isolati dal contesto, da cui sono partiti Smith e Ricardo, sono presunzioni prive d’immaginazione tipiche del diciottesimo secolo. Cose da Robinson Crusoe che in nessun modo però esprimono unicamente una reazione contro l’ultra-sofisticazione ed il ritorno ad una incompresa vita naturale, come immaginano gli storici della cultura. Anche il contratto sociale di Rousseau, che prevede soggetti naturalmente autonomi ed indipendenti legati tra loro appunto per contratto, poggia su un naturalismo di questo tipo”. [19]
Mentre Bakunin supponeva un’essenza umana fissa e naturale, Marx, sul sentiero tracciato da Hegel, credeva che la natura umana stessa fosse coinvolta in un processo evolutivo in cui si dispiegano i tratti caratteristici di ogni epoca storica in modo da generare un continuo movimento di ricostruzione della natura stessa. Mentre gli uomini inventano strumenti sempre più elaborati da utilizzare nei processi produttivi, contemporaneamente essi trasformano sé stessi in individui più razionali e universali. Inizialmente la razza umana era difficilmente distinguibile dal resto del regno animale; gli uomini agivano in modo impulsivo, con scarsa coscienza di sé e dell’ambiente circostante. In altre parole, nella prospettiva di Marx, l’immagine bakuniana di un’umanità come specie naturale immutabile, ha una parvenza di validità solo nei primi momenti storici.
“Questo principio di coscienza animale tanto quanto la vita sociale di questo stadio stesso, è semplice coscienza da gregge e l’uomo si differenzia qui dal montone soltanto perché la sua coscienza supplisce l’istinto ovvero il suo è un istinto cosciente. Questa coscienza da montone o tribale ha un suo ulteriore sviluppo e perfezionamento grazie all’accresciuta produttività, all’accrescimento dei bisogni e all’incremento della popolazione che sta alla base di entrambi”. [20]
Ma nel corso di una rivoluzione comunista, avviene un’importante trasformazione: la classe operaia prende il controllo dei mezzi produttivi e, per la prima volta, li dirige secondo un piano cosciente e razionale:
“La dipendenza universale, questa forma naturale della cooperazione degli individui sul piano storico-universale, viene trasformata dalla rivoluzione comunista nel controllo, nel dominio cosciente di queste potenze che, prodotte dall’interazione degli uomini, si sono fino ad oggi imposte loro e li hanno dominati”. [21]
A questo punto gli uomini hanno abbandonato il loro vivere animalesco e impulsivo a favore di un deliberato e razionale controllo dei propri interessi. Ma il pieno e consapevole controllo delle forze produttive può essere raggiunto solo se gli uomini lavoreranno in cooperazione ed armonia reciproca, traguardo impossibile da raggiungere finché regnano divisioni di classe e sfruttamento, che precludono la possibilità di controllare razionalmente le forze produttive:
“In primo luogo, le forze produttive appaiono del tutto indipendenti e sganciate dagli individui, un mondo vero e proprio accanto agli individui, che ha il suo fondamento in questo, che gli individui di cui esse sono le forze, esistono frazionati e in contrapposizione reciproca, mentre queste forze, d’altra parte, sono forze reali solo nel rapporto e nel collegamento di questi individui”. [22]
Ecco perché il coinvolgimento di ogni individuo nel controllo consapevole dell’economia è un prerequisito assoluto:
“In tutte le appropriazioni sino ad oggi una massa di individui restò sottomessa ad un unico strumento di produzione; nell’appropriazione da parte dei proletari, una massa di strumenti di produzione viene sottomessa a ciascun individuo e la proprietà viene sottomessa a tutti. Le relazioni universali moderne non vengono sottomesse agli individui altrimenti che con l’essere sottomesse a tutti”. [23]
In palese contrasto con Bakunin, secondo Marx una rivoluzione vittoriosa non avrebbe significato il ritorno ad un’originaria essenza naturale soffocata dall’avvento dello Stato e dalle differenziazioni di classe, ma la vera e propria nascita di un nuovo genere umano:
“Sia per la produzione di massa di questa coscienza comunistiche per il successo della cosa stessa, è necessaria una trasformazione di massa degli uomini, che può avvenire solo in un movimento pratico, in una rivoluzione; che dunque la rivoluzione non è necessaria soltanto perché la classe dominante non può essere rovesciata in nessun altro modo, ma anche perché la classe rovesciante può riuscire solo in una rivoluzione a togliersi di dosso tutto l’antico sudiciume e a diventare capace di una rifondazione della società”. [24]
Quindi, tramite il processo rivoluzionario, il proletariato si trasforma da classe passiva, sottomessa alla borghesia, in agente indipendente capace di prendere in mano le redini della storia e dirigere gli eventi secondo un piano cosciente. Siamo all’alba di una nuova epoca in cui gli individui agiscono secondo logiche collettive e consapevoli nel determinare le politiche sociali:
“Soltanto a questo stadio l’attività personale coincide con la vita materiale, cosa che corrisponde allo sviluppo degli individui come individui totali e alla liberazione da ogni naturalità”. [25]
Vediamo perciò come Marx e Bakunin abbiano sviluppato due visioni drammaticamente divergenti dell’umanità. Per Bakunin la natura umana è statica e legata a ciò che è fisicamente naturale, mentre per Marx l’umanità si trasforma, lasciandosi alle spalle atteggiamenti animaleschi e raggiungendo livelli sempre più elevati di razionalità e autocoscienza.
Le loro dottrine etiche conseguentemente riflettono questi contesti concettuali differenti. Bakunin identifica “bene” e “naturale”, Marx relativizza storicamente questi termini giacché nuovi modi di produzione produrranno nuovi parametri etici:
“La produzione delle idee, delle rappresentazioni, della coscienza è innanzitutto direttamente intrecciata all’attività materiale e allo scambio materiale tra gli uomini, linguaggio della vita reale. La rappresentazione, il pensiero, lo scambio spirituale tra uomini appaiono qui ancora come un’estrinsecazione diretta del loro comportamento materiale. Per la produzione spirituale, come si presenta nel linguaggio delle leggi, della politica, della morale, della religione, della metafisica, ecc., delle loro rappresentazioni, delle loro idee, ecc., ma gli uomini reali, che operano, sono, come loro condizionati da uno sviluppo determinato delle loro forze produttive e dello scambio ad esse corrispondente fino alle sue formazioni più ampie”. [26]
Criticando le posizioni di Gilbart, storico dell’economia inglese che nel 19° secolo sostenne che ricavare profitto dal denaro tramite l’interesse era “naturalmente” giusto, Marx sostenne che non c’è giustizia naturale, vale a dire una giustizia valida per sempre:
“È assurdo parlare qui di giustizia naturale,come fa Gilbart (…). La giustizia delle operazioni che avvengono tra agenti della produzione dipende da ciò, che queste operazioni derivano come conseguenza naturale delle condizioni della produzione. Le forme giuridiche in cui queste operazioni economiche. Appaiono come atti di volontà di quelli che vi partecipano, come manifestazioni della loro volontà comune, e come contratti di cui il potere giudiziario può esigere l’esecuzioni rispetto alle singole parti, non possono in quanto semplici forme, determinare questo contenuto stesso. Esse non fanno che esprimerlo. Questo contenuto giusto quando corrisponde al modo di produzione, gli è adeguato. È ingiusto quando si trova in contraddizione con esso”. [27]
In Marx la nozione di libertà subisce uno spostamento paradigmatico rispetto a quella di Bakunin e della corrente empirista dell’Illuminismo. Ci sono due punti cruciali che Marx mette in gioco partendo da questa tradizione, in entrambi i casi ispirandosi all’analisi hegeliana.
In primo luogo, per Marx, libertà non significa seguire i propri impulsi o gareggiare in spontaneità. Gli impulsi fanno parte della propria costituzione naturale – non sono il risultato di scelte. Quando agiamo in modo impulsivo, siamo “naturali” e inconsapevoli. Tuttavia quando ci comportiamo razionalmente e consapevolmente siamo noi, attraverso decisioni ben ponderate, a determinare il corso delle nostre azioni. Conseguentemente Marx si allinea a quei settori illuministi rappresentati, tra gli altri, da Kant e Rousseau, che approvavano entrambi l’autonomia del soggetto:
“Il lavoro veramente libero, creativo, coincide con lo sforzo più intenso, necessita della massima serietà. La produzione materiale può raggiungere questo stadio solo (1) quando è dato il suo carattere sociale, (2) quando abbia carattere non solo scientifico ma generale, non attività umana come pura forza naturale imbrigliata alla bisogna, ma vero e proprio soggetto del processo produttivo che agisce governando tutte le forze della natura”. [28]
Secondariamente, e in conseguenza di ciò, per Marx la libertà non è una capacità fondamentalmente individuale, ma principalmente un’impresa attuabile da una comunità di uomini, in accordo con le sue analisi basate sulle idee di Kant e Rousseau. La scienza, per esempio, non può essere creata od utilizzata da un individuo isolato. Gli uomini hanno vissuto per migliaia d’anni prima di poter iniziare ad abbozzare un pensiero scientifico, e ancora più a lungo prima di poter elaborare e formalizzare vere e proprie teorie scientifiche. Ma nessun progresso in questa direzione sarebbe stato possibile se l’uomo non avesse imparato a costruire sulle fondamenta lasciate dai suoi predecessori.
Siccome gli uomini dipendono, fisicamente e psicologicamente, l’uno dall’altro per il soddisfacimento dei propri bisogni, sono costretti a lavorare a stretto contatto. Nella società regolata dal capitalismo questa cooperazione è forzata a diventare competizione tra individui, piuttosto che collaborazione, ed ognuno decide come comportarsi in base al proprio interesse personale. Ciò non permette una riflessione critica sulla struttura in cui gli individui stessi si trovano ad operare perché, dal punto di vista del singolo isolato dal contesto, essa risulta inalterabile. Da questa prospettiva la società appare tanto rigida quanto la forza di gravità. Scopo di una società socialista è ribaltare questa relazione. Invece di individui impotenti di fronte alle proprie istituzioni sociali, avremo persone in grado di cambiare queste istituzioni al mutare di bisogni e valori tramite discussioni comunitarie organizzate. E questo stadio può essere raggiunto solo operando come una forza coordinata, in cui ad ognuno sia data la possibilità di partecipare, discutere, dibattere, votare sulle opzioni possibili. Quindi una società socialista mette in gioco un nuovo, e più avanzato secondo Marx, concetto di libertà: la determinazione razionale e collettiva delle politiche sociali.
“La libertà in questo campo può consistere soltanto in ciò, che l’uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo scambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da essa dominati come da una forza cieca”. [29]
Di conseguenza, Marx ritiene che la definizione individualistica bakuniana di libertà rimanga invischiata nella struttura concettuale della filosofia borghese generando solamente confusione se trasportata pari pari in un contesto socialista:
“La libertà [nella concezione borghese] è dunque il diritto di fare ed esercitare tutto ciò che non danneggia nessun altro. I limiti entro i quali ognuno si può muovere senza danneggiare un altro sono stabiliti per legge, così come i confini tra due campi sono determinati mediante un palo. Si tratta della libertà dell’uomo come monade isolata e ripiegata su sé stessa (…) Ma il diritto [borghese] dell’uomo alla libertà non si basa sull’unione dell’uomo con l’uomo, quanto piuttosto sull’isolamento dell’uomo dall’uomo. E’ il diritto a tale isolamento, il diritto dell’individuo limitato, limitato a sé stesso”. [30]
Nei fatti, questa concezione borghese di libertà, se comparata ad un più avanzato concetto socialista, non è nient’altro che un’altra forma di schiavitù:
“Precisamente la schiavitù della società civile appare come la più grande libertà perché rappresenta, ad un primo approccio, l’indipendenza individuale al suo massimo grado di sviluppo, quando ognuno considera come propria libertà il movimento senza regole, perché libero da vincoli di qualunque tipo, dei fattori alienati dalla sua vita come proprietà, industria, religione, ecc…mentre in questa condizione sono schiavitù e disumanità ad essere pienamente dispiegate”. [31]
In ultima analisi quindi le differenze tra le concezioni di libertà di Marx e Bakunin originano da presupposti filosofici opposti. Per Bakunin, essendo l’uomo una specie naturale, è conseguente definirla come l’agire naturale, mentre per Marx, che vede l’umanità coinvolta in un processo d’innalzamento al di sopra delle forze naturali, la libertà si identifica con un’azione collettiva e razionale.
Altra pietra miliare della costruzione filosofica di Marx è la sua analisi delle leggi che regolano la storia. Come abbiamo visto, il suo approccio materialista allo studio della disciplina lo porta ad enfatizzare il ruolo delle condizioni economiche nel determinare il corso del suo sviluppo. Mentre Bakunin argomentava che le leggi storiche potevano essere ricondotte a leggi naturali, ammettendo implicitamente che gli uomini non possono controllare il proprio destino meglio di qualunque altro oggetto naturale, Marx ipotizzò l’esistenza di una relazione tra intenzioni umane e ambiente economico circostante:
“Gli uomini fanno la propria storia, ma non fa fanno in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che essi trovano immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalla tradizione”. [32]
“Si nota come le circostanze facciano l’uomo molto più di quanto l’uomo faccia le circostanze”. [33]
Ecco come il contesto materiale e le intenzioni degli uomini possano, secondo i casi, andare a braccetto con la storia o scagliarla con violenza in una direzione particolare.
Secondo Marx questo rapporto scaturisce dai processi produttivi di base attraverso cui gli uomini si relazionano l’uno con l’altro e, contemporaneamente, con la natura stessa:
“In primo luogo il lavoro è un processo che si svolge fra l’uomo e la natura, nel quale l’uomo, per mezzo della propria azione, media , regola e controlla il ricambio organico fra se stesso e la natura: contrappone se stesso, quale una fra le potenze della natura, alla materialità della natura. Egli mette in moto forze naturali appartenenti alla sua corporeità, braccia e gambe, mani e testa, per appropriarsi i materiali della natura in forma usabile per la propria vita. Operando mediante tale moto sulla natura fuori di sé e cambiandola, egli cambia allo stesso tempo la natura sua propria. Sviluppa le facoltà che in questa sono assopite e assoggetta il giuoco delle loro forze al proprio potere Qui non abbiamo da trattare delle prime forme di lavoro, di tipo animalesco e primitive. (…) Noi supponiamo il lavoro in una forma nella quale esso appartenga esclusivamente all’uomo. Il ragno compie operazioni che assomigliano a quelle del tessitore, l’ape fa vergognare certi architetti con la costruzione delle sue cellette di cera. Ma ciò che fin dal principio distingue il peggior architetto dall’ape migliore è il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla in cera” .[34]
In altre parole, le fondamenta economiche su cui poggia la storia nel sistema marxiano comprendono, come elemento imprescindibile, il ruolo della coscienza umana.
Per cui il materialismo di Marx non lo costringe ad una spiegazione meccanicistica in cui ogni evento storico è interamente determinato da un insieme di condizioni preesistenti, come nelle scienze naturali. Piuttosto le condizioni economiche del contesto muovono certi parametri all’interno dei quali operano le intenzioni umane, imprimendo loro un senso di marcia logico senza tuttavia determinarle completamente. E’ impossibile, ad esempio, costruire un computer con utensili di pietra, ma non si è costretti a costruirlo neanche disponendo delle tecnologie necessarie.
Per questa ragione Marx insiste nel marcare nettamente la differenza tra natura da un alto e storia dall’altro.:
“La natura non produce da una parte possessori di denaro o di merci e dall’altra puri e semplici possessori della propria forza lavorativa. Questo rapporto non è un rapporto risultante dalla storia naturale e neppure un rapporto sociale che sia comune a tutti i periodi della storia. Esso stesso è evidentemente il risultato di uno svolgimento storico precedente, il prodotto di molti rivolgimenti economici, del tramonto di tutta una serie di formazione più antiche della produzione sociale”. [35]
Ecco perché criticava anche i tentativi di dipingere la storia come ulteriore branca delle scienze naturali:
“Non merita eguale attenzione la storia della formazione degli organi produttivi dell’uomo sociale[leggi tecnologia], base materiale di ogni organizzazione sociale particolare? E non sarebbe più facile da fare[rispetto alla storia degli organismi animali e vegetali] poiché, come dice il Vico, la storia dell’umanità si distingue dalla storia naturale per il fatto che noi abbiamo fatto l’una e non abbiamo fatto l’altra?…I difetti del materialismo astrattamente modellato sulle scienze naturali, che esclude il processo storico, si vedono già nelle concezioni astratte ed ideologiche dei suoi portavoce appena s’arrischiano al di là della loro specialità”. [36]
Giugno 2006
(Prima pubblicazione: What’s Next, dicembre 2003)
Vorrei ringraziare Bill Leumer, Paul Colvin e Fred Newhouser per i loro preziosi suggerimenti riguardanti quest’articolo.
Note
1. Marx, Karl and Engels, Frederick, Selected Correspondence (Moscow, 1975), p.254.
2. Kenafick, K.J., Michael Bakunin and Karl Marx (Melbourne, 1948), p.40.
3. Dolgoff, Sam, ed., Bakunin on Anarchy (New York, 1972), p.129.
4. Bakunin, Michael, ‘God and State’, in The Essential Works of Anarchism, ed. by Shatz, Marshall (New York/Chicago, 1972), p.139.
5. Maximoff, G.P., ed., The Political Philosophy of Bakunin: Scientific Anarchism (Glencoe, Ill., 1953), p.75.
6. Ibid., p.263.
7. Ibid., p.156.
8. Dolgoff, Sam, ed., Bakunin on Anarchy, p.125.
9. Bakunin, Michael, Marxism, Freedom and the State, ed. by Kenafick, K.J. (London, 1950), p.22.
10. Maximoff, G.P., ed., The Political Philosophy of Bakunin: Scientific Anarchism, pp.263-4.
11. Bakunin, Michael, “God and State,” p.141.
12. Ibid., p.153.
13. Citato in Eltzbacker, Paul, Anarchism, Exponents of the Ancient Philosophy (New York, 1960), p.85.
14. Lehning, Arthur, ed., Michael Bakunin, Selected Writings (London, 1973), p.64.
15. Dolgoff, Sam, ed., Bakunin on Anarchy, pp.261-2.
16. Bakunin, “God and State,” p.147.
17. Marx, Karl, Per la critica dell’economia politica (Newton Compton Editori, Roma 1976), pag. 31.
18. Marx, Karl and Engels, Frederick, L’ideologia tedesca (da “Karl Marx –Opere”, Newton Compton Editori, Roma, 1978), pagg. 217-218.
19. Marx, Karl, Grundrisse (Middlesex, England, 1973), p.83.
20. Marx, Karl and Engels, Frederick, , L’ideologia tedesca (da “Karl Marx –Opere”, Newton Compton Editori, Roma, 1978), pag. 220.
21. Ibid., pag. 224.
22. Ibid., pag. 243.
23. Ibid., pag. 244.
24. Ibid., pag. 245-246.
25. Ibid., p.245.
26. Ibid., pag. 216.
27. Marx, Karl, Il Capitale, Terzo Volume (Editori riuniti, Roma 1980), pag. 405.
28. Marx, Karl, Grundrisse, pp.611-12.
29. Marx, Karl, Il Capitale, Terzo Volume, pag. 933.
30. Marx, Karl, ‘La questione ebraica’ , (Massari editore, Bolsena, 2003), pag. 77.
31. Marx, Karl, ‘Holy Family’, Collected Works, Volume 4 (New York, 1975), p.116.
32. Marx, Karl, ‘Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte’ (Editori riuniti, Roma1991), pag. 7.
33. Marx, Karl and Engels, Frederick, L’ideologia tedesca, pag. 224.
34. Marx, Karl, Il Capitale, Primo Volume (Editori riuniti, Roma 1980), pag. 212.
35. Ibid., pag. 202.
36. Ibid., pag. 414-5.