di Roberto Ciccarelli
RIGNANO GARGANICO (FG)
Non ci sono spuntoni, ringhiere, garitte o guardiani. A venticinque chilometri da Rignano Garganico, a tredici da Foggia, a due dal cadavere industriale dell’ex zuccherificio Eridania, il campo di lavoro che i migranti chiamano «grand ghettò» non è protetto nemmeno dal filo spinato. All’alba milleduecento nigeriani, senegalesi, burkinabé, ghanesi, ivoriani e maliani, vengono usati dai caporali come attrezzi umani. Al tramonto vengono deposti nel paniere della forza-lavoro disponibile pronta ad un nuovo uso. Sono i dannati delle olive e delle angurie, degli ortaggi e delle patate. E poi dell’oro rosso: il pomodoro.
Sodoma e Gomorra
Il grande ghetto di Rignano sorge in una steppa rovente solcata da trattori, falciatrici e Tir che sfrecciano a grande velocità. È una prigione a cielo aperto dove le barriere sono trasparenti, ma esistono. Crescono nell’anima di chi è irregolare, o clandestino, e vive nei cento e più tuguri di plastica, legno e cartone che formano la bidonville. Sono rifugi asfissianti, piantati a cinquecento metri da un cespuglio di pale eoliche, giganti a tre denti che mulinano pensieri imperturbabili. Il ghetto è il prodotto di un’ingegnosa opera di auto-costruzione. Prima si costruisce lo scheletro con assi di legno, spesso lavorati dai resti degli ulivi secolari che vegliano tra le zolle grasse. Il cartone viene preso nelle discariche di Foggia, la plastica rimediata dai ferramenta. L’affitto per chi arriva è tra i 25 e i 35 euro pagati a chi abita il ghetto in tutte le stagioni e non sa dove andare.
Le baracche hanno assunto l’aspetto standard di rettangoli disposti in file progressive. Crescono anno dopo anno accanto alle roulotte e ai casolari diroccati. Grandezza media tra i 20 e i 25 metri quadri. In alcuni casi ospitano fino a quaranta persone. Sui materassi disposti in fila dormono anche in due o tre. La biancheria trucida di pomodoro è appesa ad un filo teso a pochi metri da terra. Il ghetto è un’economia informale dove tutto ha un costo. Si paga anche la corrente elettrica per ricaricare i cellulari. All’esterno italiani e rumeni organizzano mercatini dove vendono cipolle a 50 centesimi, galline a un euro. Poi pasta, riso, latte, biscotti e vestiti. Ai materassi ci pensano i rom, 5 euro l’uno. Si vendono biciclette e le si riparano anche. Al ghetto, oltre a Gomorra, c’è anche Sodoma. Nella prigione a cielo aperto le donne, quasi tutte nigeriane, vivono separate dagli uomini. Decine di loro si prostituiscono. Ci sono bambini, pochi, ai quali i volontari impartiscono lezioni di italiano.
A sera si scatena la movida. Gli italiani arrivano in macchina. Nel ghetto ci sono almeno quindici «ristoranti», tra cui uno gestito da un italiano. C’è un patio dove si mangia. Le tariffe per la cena sono inavvicinabili per i braccianti che cucinano altrove. Con le nigeriane una prestazione sessuale costa tra i 5 e i 10 euro. Quest’anno ci sono anche ragazze sudamericane. Sesso a pagamento e commercio delle braccia, questi sono i cardini di una zona franca dove i desideri proibiti hanno libera cittadinanza. Qui si vive così da vent’anni.
Il muro di gomma
Hussein, 35 anni, è arrivato a Milano dieci anni fa dal Senegal. È lui il Caronte che ci guida nelle campagne della Capitanata che in estate diventano una spugna di braccia robuste e instancabili. Strappano pomodori in cambio di 3,5 euro in media al giorno. Devono riempire più cassoni possibili che pesano fino a cinquecento chili. Lui è arrivato nel ghetto dopo il fallimento della fabbrica del Nord dove ha lavorato come operaio pantografatore. Dalla fabbrica metalmeccanica alla fabbrica verde: il cerchio si chiude. Hussein è diventato un bracciante a tempo pieno pagato a giornata. Dal 2012 raccoglie pomodori in Capitanata, olive a 5 euro all’ora a Carpino, mandarini e arance a 25 euro all’ora a Rosarno. Questa è la «transumanza», metafora brutale quando viene usata per gli esseri umani, che da Saluzzo in Piemonte lo porta in Sicilia. E viceversa. Questi salari, modestissimi, sono il risultato dell’estorsione operata dai «capi neri», i caporali neri ingaggiati dagli intermediari italiani. Sono loro che raccolgono dal paniere le braccia offerte dal ghetto e utili per la raccolta. Ogni canale è valido: dai rapporti amicali a quelli comunitari. Basta una telefonata, la voce rimbalza e in pochi giorni arrivano gruppi con zaini e materassi disponibili a tutto. Dalla paga dei braccianti i «capi bianchi» sottraggono il costo del trasporto e del pranzo. A fine giornata i lavoratori tornano anche con un euro in tasca. I caporali, invece, ne guadagnano migliaia. Loro sono gli indisturbati custodi della piramide di potere che garantisce l’ordine nel campo.
La cultura sindacale Hussein l’ha acquisita nella sua fabbrica. Oggi sa che i contratti che viene costretto a firmare sono spesso falsi. Non riceve i contributi e quindi nemmeno il sussidio per la disoccupazione. Per quello occorre lavorare almeno 51 giorni. Utopia nell’universo del lavoro nero dove si lavora fino a duecento giorni, ma nessuno riesce a dimostrarli. L’onnipresenza del caporalato nelle campagne genera un’evasione contributiva da 420 milioni all’anno. I sindacati, Cgil e Cisl, non sono rimasti a guardare. Hanno lanciato campagne contro il lavoro nero. Alcuni lavoratori hanno accettato di iscriversi agli elenchi Inps di Foggia. Nel 2007 erano 14.600. Anche l’istituzione del reato di caporalato nel 2011, a seguito dello sciopero di Nardò, ha cercato di fare pressione. La Regione Puglia ha cercato di affrontare il problema varando una legge sull’immigrazione e un’altra contro il lavoro nero. Ha stabilito gli «indici di congruità» che permettono di stabilire il numero delle ore lavorate sulla base della superficie coltivata. Ma le organizzazioni datoriali hanno costruito un muro di gomma e la maggior parte di queste norme non viene applicata. Tutto continua come sempre. Alla luce del sole. «È il sistema che si protegge. Se i migranti percepissero un salario regolare potrebbero permettersi di lasciare il campo e dimostrare di essere lavoratori» sostengono gli attivisti di Finis Terrae e delle Brigate di solidarietà, due associazioni che partecipano alla rete «campagne in lotta», formata dopo lo sciopero dei migranti nel 2011 a Nardò. Il libro Sulla pelle viva racconta che la mobilitazione dei migranti partì dal campo che avevano organizzato. Da allora è stato chiuso. Oggi un camper della rete monitora i ghetti dispersi tra la Puglia e la Basilicata. A Rignano promuove «Radio ghetto» gestita dai lavoratori del campo.
Cartografia del disprezzo
In Puglia nel 2011 il settore agroalimentare sviluppava un Pil da 2,3 miliardi di euro. Le aziende che operano su 1,3 milioni di ettari coltivati sono 275 mila e impiegano, tra regolari e irregolari, il 20% dei 400 mila addetti. Il nanismo delle imprese non permette di fare la voce grossa con i giganti della commercializzazione e della trasformazione e blocca l’innovazione. Nella Capitanata, provincia dell’impero dell’oro rosso, le imprese preferiscono allora risparmiare sul costo del lavoro. Per l’Osservatorio sui reati nel settore agricolo (Orsa) la metà dei lavoratori agricoli pugliesi è in nero: il 40% solo nel foggiano. Con una retribuzione inferiore a più del 50% rispetto a quella prevista dai contratti nazionali è facile finire in uno dei ghetti che circondano quello di Rignano. Come il ghetto «Ghana» che ospita fino a 600 persone. Nel ghetto «Bulgaria» di Stornara gli accampamenti sono dispersi tra i casolari abbandonati dai tempi della riforma agraria. Tra Manfredonia e Zapponeta ci sono centinaia di Rom. Poi c’è la pista dell’ex aeroporto militare di Borgo Mezzanone, alla spalle del Cara. Nei campi vicino a Borgo Tressanti, un altro ghetto a 300 metri dall’inceneritore Eta-Gruppo Marcegaglia, ieri è morto Ahmed El Mardi, marocchino di 44 anni. Il sessantunenne proprietario del terreno è stato denunciato per sfruttamento del lavoro clandestino.
Gli abitanti di questi ghetti cambiano a seconda dei flussi migratori. Gli europei dell’Est vengono trattati da schiavi, ancor peggio degli africani. Prima c’erano i polacchi. L’inchiesta di Alessandro Leogrande Uomini e caporali convinse l’ambasciata a denunciare il loro sfruttamento. Oggi ci sono i rumeni e i bulgari reclutati nel loro paese. All’inizio di agosto, in uno scantinato nel centro di Cerignola è stata scoperta una famiglia segregata: due donne in cinta e un bambino di dodici anni. In una masseria di Apricena erano stati reclusi alcuni uomini che venivano trasportati nei campi a bordo di furgoni piombato. Il sistema usa questi invisibili per abbassare il costo del lavoro africano. Ma può anche accadere il contrario. Gli europei possono permettersi di accettare pochi euro perché gli altri membri della famiglia lavorano. Un’economia familiare alla quale gli africani, maschi e single, non possono accedere.
Come in una guerra
Nel campo i confini si accavallano e spariscono. I comuni si rimpallano le responsabilità per fornire i servizi minimi. L’acqua, ad esempio. Alla fine ci ha pensato la Regione che, attraverso il comune di San Severo, la porta con le cisterne d’acqua e gestisce i bagni chimici. L’acqua per le docce è ricavata dal sistema di irrigazione e non basta per tutti. Il sindaco di Rignano Vito Di Carlo si è lamentato. Non è giusto che il ghetto porti il nome della sua città. Il campo è dunque innominabile e extra-territoriale. Qui la logica del ghetto si mescola con quella dello slum. Dal ghetto ha assuntol’isolamento e la segregazione razziale. Dallo slum ha assunto le caratteristiche della sovrappopolazione, le catapecchie, l’accesso inadeguato alla sanità e all’acqua. La sua utilità sta nell’avvicinare la forza lavoro disponibile ai latifondi e nell’impedire il contatto tra il produttore e la manodopera. La funzionalità economica non è tuttavia l’unica giustificazione della sua esistenza. Lo dimostra l’epopea del presidio sanitario, fondamentale per chi lavora fino a dodici ore al giorno, rischiando insolazioni, collassi, febbri o gastrointeriti. «Il medico è a Foggia» sostiene Hussein. L’unico supporto medico a disposizione dei migranti è fornito dal Polibus di Emergency che si ferma due volte a settimana. La richiesta del presidio sanitario è stata una delle rivendicazioni dello sciopero di Nardò. Lo stesso problema si ripresenta a Rignano. Ci sarebbero anche gli strumenti per intervenire. La legge regionale contro il lavoro nero, unico caso in Italia, ha introdotto l’accesso al medico di famiglia per gli irregolari. Ma chi non ha un permesso di soggiorno, oppure gli è scaduto, esita a presentarsi in una Asl. Regole, procedure, cataloghi di diritti non bastano quando c’è la guerra. Del resto l’organizzazione di Gino Strada opera in zone come l’Afghanistan.
Mike Davis ne Il pianeta degli slum sostiene che negare o concedere a fatica l’acqua, come l’assistenza sanitaria, è il modo in cui gli inglesi hanno gestito campi simili in Africa. I ghetti pugliesi sono gestiti proprio come una colonia inglese. Il lasciar ammalare e, al limite, far morire i nuovi schiavi è il segno del potere di vita o di morte del bianco sul nero. È lo stesso potere che i latifondisti avevano sui contadini. Lo si legge in un rapporto sulle province meridionali commissionato dal Governo Giolitti nel 1907. Sul sito della campagna «Io C sto», promossa dai missionari scalabriniani, si parla di un caso di Tbc non lontano dal campo e di un altro di cimice da materasso in una baracca. Prima della stagione Arcangelo Maira, missionario scalabriniano e direttore dell’Ufficio Migrantes dell’arcidiocesi locale, ha commissionato una disinfestazione. Almeno quest’anno le cimici non ci saranno. L’insicurezza è un pericolo sempre in agguato. Un incendio ha già distrutto il ghetto. La pioggia lo riduce in poltiglia. D’inverno si gela. Il fumo tossico di rifiuti e copertoni si alza pigro, poco distante.